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Rapporti istituzionali gerarchici in seno al piano tradizionale

Nel documento Pianificazione regionale cooperativa (pagine 93-97)

Governo del territorio e cooperazione in Italia

3.2 Rapporti istituzionali gerarchici in seno al piano tradizionale

Il sistema di pianificazione prefigurato dalla legge urbanistica na- zionale (Lun) n. 1150 del 17 agosto 1942 è organizzato come un appa- rato gerarchico a cascata, in cui ad ogni livello compete l’approvazione dei piani del livello sotto-ordinato. Si tratta di un sistema fortemente connotato dalle caratteristiche del governo italiano, di matrice napole- onica, basato sulla classica divisione verticale o territoriale dei poteri, tra governo centrale e locale (Bobbio, 2002).

questa articolazione, prevedendo la suddivisione della strumentazione urbanistica in due livelli: il piano territoriale di coordinamento (PTC), di competenza del Ministero dei lavori pubblici, e i Piani regolatori generali (PRG), la cui redazione spetta ai comuni.

Anche se fin dagli anni Trenta sono state effettuate alcune speri- mentazioni di pianificazione territoriale di livello regionale (cfr. il pia- no della Valle d’Aosta di Adriano Olivetti), al momento della approva- zione della legge non sono previsti altri livelli intermedi, ma si prevede che i piani territoriali di coordinamento siano destinati a «determinate parti del territorio nazionale» in cui il PTC sarà compilato «fissando il perimetro di ogni singolo piano» (L. 1150/42, art. 5). Le regioni sono previste dall’art. 114 della Costituzione del 1948 ma non saranno isti- tuite fino agli anni Settanta. In questo lasso di tempo, vengono istituite solo le regioni a statuto speciale (Trentino, Valle d’Aosta, Sicilia e Sar- degna nel 1948, Friuli nel 1963).

I piani territoriali di coordinamento previsti all’art. 5 della Lun han- no un forte valore conformativo, in quanto prevedono «direttive da seguire nel territorio considerato, in rapporto principalmente: a) alle zone da riservare a speciali destinazioni ed a quelle soggette a speciali vincoli o limitazioni di legge; b) alle località da scegliere come sedi di nuovi nuclei edilizi od impianti di particolare natura ed importanza; c) alla rete delle principali linee di comunicazione stradali, ferroviarie, elettriche, navigabili esistenti e in programma» (L. 1150/42, art. 5) e tali direttive hanno lo «scopo di dare ordine e disciplina anche all’attività privata», ragion per cui il piano approvato deve essere pubblicato sul- la Gazzetta Ufficiale del Regno e «un esemplare del piano approvato deve essere depositato, a libera visione del pubblico, presso ogni Co- mune, il cui territorio sia compreso, in tutto o in parte, nell’ambito del piano medesimo» (Ibidem).

La legge prevede un minimo di interazione tra il Ministro per i lavori pubblici e il Consiglio superiore dei lavori pubblici, che deve esprimere un parere preventivo, e con i Ministri per le comunicazioni e per le corporazioni, quando i PTC interessino rispettivamente impianti ferroviari o la sistemazione delle zone industriali nel territorio nazio- nale. Nell’ultimo articolo, relativo alle disposizioni finali, tuttavia, il legislatore ricorda che «Rimangono ferme le disposizioni di legge che stabiliscono la competenza anche di altri Ministeri ed organi consultivi riguardo ai piani regolatori comunali ed ai regolamenti edilizi, nonché quelle relative ai poteri del Ministero delle corporazioni in materia di impianti industriali» (L. 1150/42, art. 45).

Quanto ai piani regolatori generali, essi sono strumenti di durata indeterminata e obbligatori per i comuni compresi in apposti elenchi che non verranno pubblicati prima degli anni Sessanta. La legge pre- vede un meccanismo coercitivo per cui, se il comune non approva il PRG entro 5 anni dalla data del decreto ministeriale con cui è stato approvato il rispettivo elenco, è in facoltà del Ministro per i lavori pub- blici, di concerto con il Ministro per l’interno, di disporre di ufficio la compilazione del piano.

L’art. 9 prevede il deposito presso la segreteria comunale e l’istituto delle osservazioni, riservato tuttavia solamente a «le Associazioni sin- dacali e gli altri Enti pubblici ed istituzioni interessate» (L. 1150/42, art. 9). L’approvazione del piano generale avviene con decreto reale su pro- posta del Ministro per i lavori pubblici, «previa comunicazione a tutti i Ministeri interessati […], e sentito il parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici» (art. 10). Le stesse varianti al piano richiedono la preventiva autorizzazione del Ministro per i lavori pubblici.

Questa impostazione, che rappresenta la matrice di tutte le proce- dure di approvazione dei piani previste successivamente, anche dalle leggi regionali che maturano dalla fine degli anni Settanta, si basa su un solido meccanismo di comando e controllo, in cui l’ente superiore approva i piani dell’ente sotto-ordinato e vigila sulla sua attività.

Fermo restando che un piano di coordinamento di livello naziona- le non è mai stato redatto negli anni del dopoguerra, le diverse espe- rienze tendono a far corrispondere il piano di coordinamento con la dimensione regionale di competenza dei Provveditorati regionali delle opere pubbliche1, in vista della istituzione delle regioni e della neces-

sità di far coincidere il piano con un ambito amministrativo definito (Mesolella, 2006b). Gli stessi Criteri di indirizzo per lo studio dei piani ter-

ritoriali di coordinamento, redatti da un gruppo di lavoro coordinato da

Giovanni Astengo su commissione del Ministero dei lavori pubblici negli anni Cinquanta (Min. LL. PP., 1952), tendono a considerare il PTC come piano regolatore di portata regionale, capace di intervenire nella localizzazione e nel dimensionamento delle attività. A seguire, il piano regolatore comunale è concepito come uno strumento di regolazione degli usi dei suoli capace di dare certezza allo sviluppo urbano.

Nel dopoguerra, i primi PRG evidenziano alcune lacune e rigidi- tà proprio nel sistema delle relazioni prefigurato dalla legge 1150/42, che determina tempi lunghi nell’approvazione degli strumenti e scarsa aderenza con le necessità della ricostruzione e del boom economico degli anni Sessanta. Queste difficoltà trovano risposta in termini an- cora conformativi, attraverso una serie di provvedimenti che tentano di apportare modifiche alla legge originaria con un rafforzamento dei meccanismi di comando e controllo (cfr. L. 167/62, L. 765/67, L. 865/71). In particolare, la legge n. 765 del 1967 recante modifiche e integrazioni alla legge urbanistica del 1942 (e per questo definita “Ponte” verso la riforma della Lun) introduce l’intervento sostitutivo dello Stato per i comuni sprovvisti di piano regolatore e rigide sanzioni per punire le illegittimità e gli abusi edilizi. Inoltre, la legge Ponte fortifica gli stru- menti di controllo preventivo introducendo gli standard e la zonizza- zione: si tratta di una innovazione in ottica conformativa, pienamente

1 In particolare, il Ministero ha tendenzialmente considerato come perimetro del

piano territoriale di coordinamento quello degli ambiti di competenza dei Provvedito- rati Regionali alle Opere Pubbliche, presso i quali è istituito un Comitato Direttivo Re- gionale per il piano, coadiuvato da una Commissione Consultiva formata da esperti, da un Comitato Esecutivo e da Comitati Provinciali in rappresentanza degli enti locali.

inserita nell’ambito del dibattito internazionale dell’epoca, che trova i suoi fondamenti nella Carta di Atene del 1933.

In ragione di tale impostazione, i rapporti interistituzionali sono im- prontati da meccanismi imperativi e unilaterali e si esplicitano in piani o studi preparatori di tipo razional-comprensivo, miranti a perseguire un interesse pubblico definito a priori attraverso norme conformative basate sulla zonizzazione.

In questo sistema di pianificazione tradizionale, la gerarchia dei li- velli di piano, che ricalca quella dell’amministrazione, così come la sua caratteristica normativa, di legge dello Stato, ne assicurano la coerenza e determinano la sua legittimazione. «I presupposti di base di questo schema sono noti: che esista un solo attore di piano, lo Stato, e che gli altri attori (collettivi o individuali, sociali o politici) siano disposti a ri- conoscere il piano, adeguandosi ad esso ed attuandolo. Coerentemente con la tradizione funzionalista […] il sistema dei ruoli e dei compor- tamenti legittimi (e in quanto tali attesi) deriva dalla struttura dello stato e del sistema amministrativo di governo e da un quadro giuridi- co-normativo che, prescindendo da “fatti” sociali concreti, disegna un sistema coerente di relazioni formali» (Bolocan e Pasqui, 1996:24).

Tale sistema di relazioni formali fa capo, generalmente, a strategie di tipo esclusivo, miranti all’accesso all’arena decisionale del minor nu- mero possibile di attori, se non solamente di quelli che detengono le risorse chiave (Bobbio, 1996). Nel processo di pianificazione interven- gono dunque solo pochi interessi istituzionali, costituti in associazioni e categorie, che a livello regionale sono rappresentati nei Comitati tec- nici direttivi che assistono i Provveditorati alle opere pubbliche (Me- solella, 2006b), mentre a livello locale sono ricondotti alle Associazioni sindacali e gli altri Enti pubblici ed istituzioni interessate.

Il paradigma del sistema di pianificazione di tipo razional compren- sivo e dei meccanismi di comando e controllo su cui si fonda viene messo in discussione durante tutto l’arco degli anni Sessanta, in primis dall’Istituto Nazionale di Urbanistica che, nel 1960, presenta il Codice

dell’urbanistica, una proposta di riforma volta a ribadire la necessità

dell’istituzione delle Regioni come ente di pianificazione intermedio, dell’individuazione di entità analitiche subregionali, i comprensori, e dell’integrazione tra pianificazione urbanistica e programmazione economica2.

In seno a questo documento, si prevede l’istituzione del Comitato

nazionale di pianificazione, formato da ministri e presidenti delle regio-

2 Si fanno portatori di questa esigenza le proposte di legge urbanistica di Zacca-

gnini (1961) e il progetto di legge Sullo (1962) che prevede l’integrazione tra piano territoriale e piano economico. La legge n. 865 del 22 ottobre 1971 affronta la questione della casa attraverso la programmazione e il coordinamento dell’intervento pubbli- co, demandando alle regioni la localizzazione ed il coordinamento degli investimenti pubblici per l’edilizia. Questi ultimi sono stabiliti dal governo sulla base di un “piano di attribuzione” redatto in funzione dei fabbisogni regionali e alimentato da tutte le risorse pubbliche nazionali destinate al settore (Salzano, 1998).

ni, coadiuvato da un Consiglio tecnico centrale formato da funzionari dello stato ed urbanisti esperti. Pur rimanendo nel tracciato della legge nazionale, questi due organismi sono visti come garanti dell’operato centrale, perché dotati di una rappresentanza delle realtà regionali e di soggetti qualificati e competenti capaci di affiancare l’operato del Consiglio superiore dei lavori pubblici (Salzano, 1998). Tuttavia, que- ste proposte non troveranno attuazione, e le regioni saranno istituite solo nel decennio successivo.

A seguito dell’autunno caldo del 1969 e dell’istituzione delle regio- ni, gli anni Settanta sono teatro di un notevole cambiamento del qua- dro istituzionale dell’urbanistica. Le regioni vengono a rappresentare un soggetto pubblico nuovo nel panorama dell’ordinamento degli enti locali, e un nuovo livello di pianificazione nel sistema prefigurato dalla legge nazionale.

3.3 Forme di interazione istituzionale allargata,

Nel documento Pianificazione regionale cooperativa (pagine 93-97)

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