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LA GESTIONE MEDIANTE SOCIETÀ MISTE: REGOLA ORDINATORIA O DEROGATORIA?

3 L’AFFIDAMENTO DEI SERVIZI PUBBLICI LOCALI A SOCIETÀ MISTE

3.2 (SEGUE) I SERVIZI PUBBLICI LOCALI PRIVI DI RILEVANZA ECONOMICA

3.4 LA GESTIONE MEDIANTE SOCIETÀ MISTE: REGOLA ORDINATORIA O DEROGATORIA?

Come si ricorderà, la catena normativa in materia di servizi pubblici locali ebbe inizio con la legge 8 giugno 1990, n.142, recante “ Ordinamento delle autonomie locali”, per poi intraprendere un rocambolesco quanto inusuale iter di continui interventi legislativi e giurisprudenziali che si sono protratti fino a nostri giorni creando una confusa e contraddittoria stratificazione regolatoria.

Ebbene, sulla tormentata cronistoria che ha accompagnato la materia in questione nel corso dell’ultimo ventennio abbiamo già avuto modo di soffermarci ( seppur brevemente, nel paragrafo 1.3 ), pertanto nel proseguo ci accingiamo ad analizzare, in ordine cronologico e dedicando loro appositi sotto paragrafi, i discussi interventi normativi succedutosi nell’ultimo triennio con un occhio di riguardo per la disciplina attualmente in vigore.

Il referendum abrogativo del 12 e 13 giugno 2011

Se si dovesse individuare la ragione che ha dato nuova vitalità al mai sopito dibattito in materia di servizi pubblici locali, senza alcuna esitazione provvederei ad indicarla nell’art. 23-bis poiché troppo frettolosamente, ma soprattutto erroneamente, è stato additato come disposizione finalizzata alla c.d “privatizzazione dell’acqua”, generando un diffuso disappunto e malcontento ( per lo più popolare e non privo di cromature politiche ) che è inevitabilmente confluito nella richiesta di referendum popolare e, forse, ne ha rappresentato la leva per la vittoria del sì.

Giova appunto ricordare che il suddetto articolo era incentrato su una filosofia di privatizzazioni dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, in ossequio all’ormai assodata migliore efficienza della gestione privata, posto che la proprietà pubblica non è in grado di essere efficiente anche a causa dell’indebita commistione di funzioni commerciali e poteri di regolazione che sostanzialmente sottraggono l’impresa pubblica sia alla disciplina del mercato che ad un efficace controllo regolatorio247.

Nello specifico l’art. 23-bis prevedeva il conferimento della gestione in via ordinaria a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, ovvero a favore di società miste a condizione che la selezione del socio avvenisse mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, le quali avessero ad oggetto la qualità di socio e l’attribuzione dei compiti operativi ( gare c.d. “a doppio oggetto” ), e che il socio avesse una partecipazione non inferiore al 40% del capitale sociale; mentre il ricorso al modello dell’in house providing era relegato a mera ipotesi residuale , con la ovvia conseguenza che le società totalmente pubbliche erano diventate un modello di governance residuale a tutto vantaggio di un mercato in cui sarebbero stati sempre più presenti operatori economici totalmente privati o misti pubblico-privati.

L’affidamento in house era infatti assoggettato tanto alla dimostrazione dell’impossibilità dell’utile ricorso al mercato sulla base delle peculiari caratteristiche economiche248, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di

247 Cit. Presidente dell’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato, A. CATRICALA’, relazione intitolata

“La concorrenza come strumento di rinascita del paese”, 23 maggio 2008.

248 Parte della dottrina si è espressa in termini di “probatio diabolica” poiché nella maggior parte dei casi dimostrare

che in base alle peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento non è praticabile il ricorso al mercato, rischia di diventare impossibile, soprattutto se si considera che in ogni caso l’atto deliberativo dell’ente locala sarà soggetto al parere preventivo dell’AGCM, che per

riferimento, quanto al parere obbligatorio dell’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato, e nelle sole ipotesi dei servizi il cui valore economico non superava la somma complessiva di 900.ooo annui249.

Paradossalmente, per quanto concerne il settore idrico, contro il quale si scatenò la crociata dei promotori referendari, il regolamento attuativo dell’art. 23-bis prevedeva invece delle condizioni per l’affidamento in house meno stringenti di quelle richieste per gli altri servizi pubblici locali, in quanto era sufficiente dimostrare che l’affidamento diretto fosse equivalente ( o meglio, comparativamente non svantaggioso ) rispetto al ricorso al mercato, facendo riferimento in particolare a tre condizioni, ovvero la chiusura dei bilanci in utile, il reinvestimento nel servizio di almeno l’80% degli utili e l’applicazione di una tariffa media inferiore alla media di settore.

Inoltre, sempre per il servizio idrico integrato, il regolamento ben specificava che restavano ferme la piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, nonché la spettanza esclusiva alle istituzioni pubbliche del governo delle risorse stesse, fatta salva l’autonomia gestionale del soggetto gestore.

Nonostante la chiarezza del tenore letterale del dettato normativo, è stato sufficiente accostare il termine privatizzazione al settore idrico per vanificarla, trasferire il dibattito dalle sedi legislative alle piazze del paese e allestire una campagna di disinformazione tanto estesa e penetrante da non trovare eguali nel nostro Paese.

convesso potrebbe disconoscere l’indagine dell’ente stesso.

Così L. MANASSERO, In house providing e concorrenza: il ddl governativo, le procedure di infrazione promosse dalla

Commissione UE, le posizioni dell’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato, l’istruttoria dell’Autorità per i Contratti pubblici, ed i recenti orientamenti comunitari; il problematico contemperamento con il principio di autonomia degli enti locali. Un focus sul Servizio Idrico Integrato, in www.dirittodeiservizipubblici.it

Ne è risultato, inevitabilmente, un pastrocchio.

Infatti, chi seguì poco la vicenda pensò ( probabilmente ) che quel referendum avrebbe scongiurato la “privatizzazione dell’acqua” sancendo una volta per tutte che in Italia l’acqua è un bene pubblico; chi invece approfondì la questione, scoprì che in realtà le cose erano molto più complicate.

Procediamo con l’intento di fare chiarezza sulle questioni di maggiore perplessità che hanno caratterizzato ( e falsato ) il referendum del 2011.

Il 31 marzo 2010 sono stati depositati presso l’Ufficio della Corte di Cassazione tre quesiti referendari aventi rispettivamente ad oggetto l’art. 23-bis della l. n. 133/2008 (così come modificato dalla l. n. 166/2009); l’art. 150 del D.lgs n. 152/2006; e l’art. 154 del d.lgs. n. 152/2006 limitatamente a quella parte del primo comma che dispone che la tariffa sia determinata tenendo altresì̀ conto “della remunerazione del capitale investito”.

All’indomani della presentazione apparve subito evidente il clima di incertezza che avrebbe inevitabilmente accompagnato l’eventuale iter referendario fino alla data di svolgimento, posto che risultava difficile definire con precisione sia le oggettive finalità giuridiche dei tre quesiti sia gli effetti giuridici dell’eventuale abrogazione popolare, generando pertanto non pochi dubbi circa l’esito positivo del giudizio di ammissibilità̀ da parte della Corte Costituzionale, in particolare l’ostacolo all’ammissibilità̀ si ravvisava in relazione al limite della omogeneità̀, della chiarezza e/o della matrice razionalmente unitaria.

Di tutt’altro parere invece risultò essere la Corte Costituzionale, la quale si pronunciò, invero suscitando non poche perplessità, a favore della ammissibilità del primo e

terzo quesito, escludendo soltanto il secondo in quanto avente ad oggetto una norma già abrogata.

Non solo, un’ulteriore elemento di dubbio concerne la discrepanza che è venuta delineandosi tra l’intento dei promotori e l’effetto a cui avrebbe condotto una eventuale abrogazione.

Infatti, se è indubbio, come si può leggere in tutti i documenti esplicativi dei quesiti, che l’intento dei promotori fosse quello di escludere la possibilità̀ che il servizio idrico integrato fosse gestito da un soggetto ( sostanzialmente, o anche solo formalmente ) privato attraverso l’abrogazione della distinzione, introdotta dal legislatore nel 2001, tra proprietà̀ ( del bene e delle reti, che può̀ essere solo pubblica ) e gestione ( del servizio, che può̀ essere svolta da un soggetto del tutto o in parte privato, attraverso forme comunque di diritto privato ), e ripristinare quindi una gestione integralmente ed esclusivamente pubblica, sottraendo così il bene acqua da qualsiasi influenza delle logiche del mercato e del profitto, altrettanto vero è che nella realtà dei fatti tale intenzione sia stata del tutto disattesa, finendo per ricomprendere l’abrogazione della disciplina di tutte le forme di gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, ovvero l’art. 23-bis nella sua interezza250.

Ebbene, in questo clima di dubbi e perplessità, si affacciò una sola certezza, ovvero che la campagna referendaria si fondò su una grande frode mediatica, tanto che si potrebbe riconoscere ai sostenitori del fronte del sì il ( de )merito di avere plagiato le menti degli elettori attraverso una campagna referendaria dalla massima efficacia, per cui si potrebbe assire che, con molta probabilità, ancora ad oggi non esista

250 Cfr. P. SABBIONI, Il ripristino della disciplina abrogata con referendum: il caso dei servizi pubblici locali di rilevanza

elettore medio che non si a convinto di aver votato per scongiurare la privatizzazione dell’acqua, al fine di conservare intatta la sua qualifica di “bene pubblico”; tale messaggio, del tutto errato, trova dunque il proprio fondamento in una sconcertante serie di consapevoli nonché machiavelliche distorsioni che hanno inevitabilmente segnato l’esito referendario falsandolo del tutto.

In particolare si possono ravvisare due ordini di errori, uno attinente ad errori teorici circa la definizioni degli istituti, ed uno attinente l’oggetto del primo quesito referendario.

Nel primo ordine vi rientra l’inammissibile convinzione di classificare l’acqua quale bene pubblico, quando in realtà si tratta di un bene privato offerto dallo Stato.

Il servizio idrico integrato, infatti, non è caratterizzato né dall’assenza di rivalità nel consumo né dalla non escludibilità nel consumo, tutti caratteri ben noti ai promotori referendari che sin da subito hanno provveduto ad evidenziare la caratteristica della scarsità del bene.

Piuttosto l’acqua è un bene primario e necessario, dotato pertanto di rilevanza economica, il cui servizio di distribuzione è classificato come pubblico ed universale. Giova inoltre ricordare che all’epoca della richiesta referendaria l’Istat251 diffuse dati

empirici all’allarmati sul settore idrico: più di un terzo dell’acqua veniva sprecato a causa di perdite nella rete idrica e si segnalava una stima di circa 70 miliardi di euro in investimenti necessari per assicurare una gestione del tutto efficiente.

Il tutto, paradossalmente, in un contesto nel quale la quasi totalità della gestione del servizio era in mano pubblica.

Ne consegue, dati empirici alla mano, l’inadeguatezza ( rectius: l’evidente flop ) della gestione pubblica e la necessità, invece, di urgenti ( e ingenti ) investimenti privati per garantire a tutti i cittadini la facile disponibilità di acqua pulita attraverso una rete di impianti moderna ed efficiente in grado di minimizzare i costi connessi alle perdite di impianti ormai del tutto obsoleti.

In secondo luogo, giova ricordare la portata fuorviante del nomen stesso con cui sono stati pubblicizzati i referendum, ovvero “referendum sulla privatizzazione dell’acqua”, poiché l’art. 23-bis non prevedeva né la privatizzazione dell’acqua, né delle infrastrutture che permangono, al contrario, di proprietà pubblica inalienabile, bensì prevedeva la privatizzazione della gestione; inoltre, il nomen fornisce una rappresentazione errata ed ingannevole del primo quesito, atteso che lo stesso riguardava la disciplina degli affidamenti dell’intera categoria dei servizi pubblici locali a rilevanza economica e, dunque, non solo del servizio idrico integrato.

Alla luce di ciò risulta evidente quanto già anticipato nella premessa: la campagna referendaria è stata machiavellicamente impostata all’insegna della difesa dell’acqua, dunque su un tema che per sua natura avrebbe maggiormente attecchito sulla sensibilità delle persone, finendo così per precludere loro il diritto fondamentale a ricevere una informazione chiara e veritiera e, di conseguenza, negando loro la possibilità di prendere in piena consapevolezza una decisione che avrebbe inciso in maniera decisiva sulla qualità e l’efficienza di servizi di primaria importanza dei quali, pertanto, usufruiscono quotidianamente.

Il d.l. 13 agosto 2011, n. 138, c.d. manovra di ferragosto

Con l’abrogazione dell’art. 23-bis , nell’ordinamento italiano ha trovato immediata applicazione la normativa comunitaria relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica252;

La normativa comunitaria, infatti, non concependolo l’in house come modalità di gestione derogatoria e, dunque, di carattere eccezionale rispetto alle altre, ma assoggettandolo ai solo requisiti essenziali di “controllo analogo” e “attività prevalente, risulta essere assai meno restrittiva circa la possibilità di ricorrere allo stesso, prospettando così una sostanziale posizione paritaria tra le varie modalità di gestione253.

Il vuoto legislativo nazionale venutosi a creare venne celermente colmato dal d.l. 138/2011 ( c.d. decreto di Ferragosto ) con cui il legislatore, col dichiarato intento di adeguare l’ordinamento all’esito del referendum ( come dimostra la rubrica stessa della legge) reintrodusse per i servizi pubblici locali a rilevanza economica una disciplina ripristinatoria ( sotto il profilo sostanziale e formale ) della disciplina fatta oggetto di referendum abrogativo, con la sola esclusione del servizio idrico integrato, per l'appunto in ossequio alla volontà popolare scaturita dall'esito referendario. A cambiare era la sola logica di fondo a cui si ispirava il decreto, non più una filosofia di privatizzazioni, come risultava dal 23-bis, bensì una diversa di liberalizzazioni.

252 Corte Cost. 12 gennaio 2011, n.24.

Difatti il legislatore individuava nella liberalizzazione delle attività̀ economiche e nella gestione concorrenziale dei servizi da parte di una pluralità̀ di soggetti la realizzazione di una piena ed effettiva concorrenza nel mercato254.

Pertanto, l’art. 4 qualifica come eccezionali le ipotesi di attribuzione di diritti in esclusiva, assoggettandole inoltre all’onere dell’ente locale a svolgere un’istruttoria e, di conseguenza , all’adozione di una delibera, dalla quale risultino i fallimenti del sistema concorrenziale, e, viceversa, i benefici per la stabilizzazione, lo sviluppo e l’equità̀ all’interno della comunità̀ locale derivanti dal regime di esclusiva del servizio255.

L’ente locale, dunque, se vuole discostarsi dal modello ordinario previsto dal legislatore, deve fornire la prova dei “fallimenti del mercato” nel settore specifico. Viene inoltre riconfermato saldamente il principio della selezione mediante gara, se infatti l’amministrazione intende procedere all’attribuzione di diritti di esclusiva, deve avviare procedure competitive di evidenza pubblica, alle quali possono partecipare anche le società a capitale interamente pubblico.

Derogano alla previsione di cui sopra i soli affidamenti diretti alle società in house , ammessi solo se il servizio ha un valore economico inferiore ai 900.000 euro annui, e gli affidamenti alle società miste, purché si siano svolte procedure competitive ad evidenza pubblica sia per la scelta del socio privato ( titolare di una quota non inferiore 40% del capitale sociale ), sia per l’attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio.

254 Cit. C. SABETTA, La riforma dei servizi pubblici locali e le ragioni della sua illegittimità, in www.federalismi.it 255 Cfr. S. STAIANO, I servizi pubblici locali nel decreto-legge n. 138 del 2011. Esigenze di stabilire regolazione e conflitto

Inoltre, per quanto concerne l’affidamento in house, se è vero che l’art. 23-bis lo subordinava alla sola ipotesi della ricorrenza di situazioni eccezioni tali da non permettere il ricorso alla concorrenza per il mercato, oltretutto previa valutazione obbligatoria dell’AGCM, è anche vero che il d.l n.138/2011 ammetteva comunque sempre gli affidamenti diretti a società in house quando avevano un valore economico non superiore a 900.000 euro annui.

Si trattava, tuttavia, di una disciplina comunque tesa a marginalizzare l’in house attraverso la previsione di una soglia massima oltre la quale si sarebbero rese necessarie le procedure selettive ad evidenza pubblica.

Il quadro così delineato venne sostanzialmente confermato in sede di conversione del decreto dalla legge 14 settembre 2011, n. 148.

Mentre con un successivo intervento ( avvenuto con l’art. 25 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 ), il legislatore ha corretto la disciplina in senso ancor più̀ liberista rendendo il ricorso a procedure di evidenza pubblica per l’affidamento dei servizi un elemento di “virtuosità̀” degli enti territoriali ed abbassando la soglia massima degli affidamenti in house da 900.000 a 200.000 euro annui256.

La sentenza della Corte Costituzionale n. 199/2012

Nel proseguo verrà offerta una disamina critica circa la vacuità e la inopportunità della pronuncia costituzionale al fine di dimostrare come ancora una volta gli interventi in materia di servizi pubblici locali, a prescindere dal soggetto agente, siano assistiti da

allarmanti profili di superficialità ed incertezza che attribuiscono loro l'ormai consueto carattere nebuloso che li pervade.

Come noto, la normativa ex art. 4 del d.l. n. 138/2011, riproponeva sia in termini di identità di ratio sia di riproduzione sostanziale svariate disposizioni dell’abrogato art. 23-bis, tanto che la stessa nell’immediato è diventata oggetto di ricorsi proposti da diverse Regioni al fine di censurare essenzialmente la violazione dell’art. 75 Cost.; non sono mancate neppure ironiche critiche mosse nei confronti di una presunta ipocrisia adottata dal legislatore per aver rubricato la normativa impugnata “ Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell’Unione europea”.

Ebbene, nulla di più inesatto si sarebbe potuto sostenere e travisare se si considera che il Governo legittimamente intese riferirsi all’esclusione dell’applicabilità̀ della disciplina di liberalizzazione per il solo servizio idrico integrato, a cui si applicavano esclusivamente le disposizioni sulla distinzione tra compiti di regolazione e di gestione ( precisamente i soli commi 19-27 ), ma non anche quelle che marginalizzavano le gestioni in house o imponevano il limite minimo del 40% alle partecipazioni dei privati alle società̀ miste.

E tale esclusione muoveva per l’appunto dal presupposto che il referendum abrogativo ebbe ad oggetto esclusivamente l’obbligatorietà̀ della gestione privata del servizio idrico, ciò che in effetti nella propaganda referendaria costituì lo slogan per attrarre al voto gli elettori257.

D’altronde in questi termini si era espressa anche l’Autorità̀ Garante della Concorrenza e del Mercato, che nella segnalazione del 26 agosto 2011, avente ad oggetto il disegno di legge di conversione del d.l. n. 138, aveva affermato che l’art. 4 del d.l. ripropone sì nei fini l’impianto preesistente la consultazione popolare, ma ne esclude l’applicabilità̀ al settore idrico per uniformarsi all’esito del referendum.

Inoltre, giova rammentare che la ragione per la quale il ripristino della disciplina abrogata mediante referendum passò quasi del tutto inosservata agli occhi dell’opinione pubblica o, comunque, non sollevò significativi dibattiti, è dovuta al fatto che gli elettori, a causa dell’errata campagna referendaria, si sono presentati al voto con l'intenzione di chiudere il mercato per il solo servizio idrico, per cui la riproposizione del principio concorrenziale, con l'esplicita esclusione di questo settore, non era certo recepita come una violazione della volontà popolare.

A nulla sono valse, tuttavia, tali logiche argomentazioni sostenute dell'Avvocatura generale, in quanto la Corte, forse spinta più alla nobile ricerca di teoriche affermazioni di principio che non alla semplice, ma necessaria, esigenza di mettere ordine e dare certezza alla materia in questione, alla possibilità di porre un rimedio alla vergognosa manipolazione delle coscienze, avvenuta in sede referendaria, ha preferito accogliere il ricorso della Regione Puglia rendendosi così esempio concreto del celebre broccardo latino errare human est, perseverare diabolicum258.

La Corte, infatti, con la pronuncia in esame ribadì il principio259 per il quale con il

procedimento legislativo ordinario non si possono ripristinare norme abrogate in

258 La Corte Costituzionale con sentenza n. 24/2011, aveva ammesso il primo quesito referendario sollevando già

allora critiche e forti perplessità.

seguito a referendum popolare, cercando in tal modo di risolvere, in via definitiva, le divergenti opinioni dottrinali circa la legittimità dei referendum per come sostanzialmente hanno trovato applicazione; in realtà il dibattito non trovò una reale soluzione, ma finì per traslare su altre questioni in quanto la sentenza non fornì particolari spiegazioni circa il fondamento costituzionale di tale principio che rimase, pertanto, presupposto, né fornì alcuna precisazione circa l'effettiva portata temporale del divieto260.

L’esperienza concreta ( relativa all’abuso dell’istituto nel corso degli anni ‘80 e ’90 ) aveva già condotto a porre in dubbio, almeno sotto il profilo fattuale, la spesso declamata superiorità̀ dell’esercizio diretto della democrazia a mezzo referendum, mediante la contestazione di molteplici profili di illegittimità quali: l’alternatività del referendum al confronto parlamentare per l’affermazione delle posizioni politiche di alcuni partiti; la possibilità̀ che i quesiti lasciano troppo spesso necessariamente l’apertura di diversificate soluzioni alternative da parte del legislatore, chiamato quindi a definire una nuova disciplina dopo l’esito demolitorio del referendum