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Le narrazioni della partenza raccontano tranne in un singolo caso, quello di una giovane donna, della estrema determinazione a partire, ad imparare, in alcuni casi a vivere in Europa. Arrivano da diverse località, gran parte di loro sono Fanti.

Qualcuno aveva già esperienza d’emigrazione di lavoro oltre confine, qual- cuno in Nigeria, qualcun altro per aver lavorato sulle navi, altri ancora ave- vano cercato lavori di fortuna in diversi paesi europei con l’obiettivo di rag- giungere l’oriente. Qualcuno racconta delle opinioni dei padri rispetto alla migrazione, e anche della solidarietà di fratelli e amici che consentivano di avere accesso al progetto dell’altrove. Le narrazioni legate alla partenza alle scelte sembrano raccontare soltanto di uomini e quando le donne narrano del proprio viaggio, lo raccontano come rispondente ad esigenze famigliari, parentali o per raggiungere mariti emigrati. Tra le donne ghanesi incontrate, sono davvero poche quelle che raccontano apertamente dell’emigrazione in termini di scelta. Non vi è traccia o narrazione di progetti migratori fami- gliari verso mete comuni, spesso quasi tutti i fratelli e le sorelle partivano per destinazioni diverse, talvolta però i primi arrivati riuscivano a inviare informazioni e denaro perché qualcuno potesse raggiungerli. La destinazio- ne Italia sembra essere dettata da esigenze e opportunità burocratiche dalla possibilità di acquisire i documenti mediante le sanatorie. L’acquisizione dei documenti di regolarizzazione della propria condizione dal punto di vista le- gale sul territorio italiano segna, nelle parole e nelle vite degli interlocutori, una svolta o una cesura tra un tempo di vita, spesso vissuto a sud della pe- nisola italiana, e un altro segnato dal trasferimento a nord che coincide con un cambiamento del proprio presente ma spesso anche della prospettiva di immaginazione del sé nel futuro.

“Sono partito dopo aver finito le scuole tecniche superiori. Arrivo da Winneba. Ma prima ero stato in Nigeria per quattro anni (1979-83), poi lì c’è stata la crisi. Ed hanno spedito indietro gli stranieri, ma io volevo emigrare andare via ed allora, prima di tornare in Ghana, avevo già acquistato il biglietto per l’Italia che era un biglietto aperto un anno. Dovevo, infatti, trovare i soldi per partire. In aeroporto dovevi dimostrare di avere 300 dollari. Allora sono tornato in Ghana

per questi soldi, per fortuna mio fratello, che era già in Italia, mi ha spedito questi soldi. Nel 1987 è arrivata la legge per avere i documenti ed allora ho pensato mi fermo qua... per fortuna ho preso i documenti” (D. intervista del 22 Marzo 2009).

“Sono partito nel 1983, avevo circa vent’anni. Volevo partire dal Gha- na per sviluppare le mie competenze, avevo provato in Germania ma ho avuto problemi con i documenti. Poi quando sono arrivato qua ho capito che c’era differenza di mentalità tra i bianchi e noi, lì ho impa- rato che c’era una cosa che si chiamava discriminazione e razzismo. Nei quattro anni, in giro per l’Europa ed il Medio Oriente, non lo avevo capito. Ero clandestino e facevo i lavori che potevo, valeva solo quello che sapevo fare” (S. D. intervista del 26 Novembre 2008).

L’esperire il viaggio e la migrazione, il sentirsi altro nella lingua parla- ta e nel corpo è spesso, nelle testimonianze, narrato a lungo e in dettaglio. L’esperienza di sentire sul corpo la vita in un altro luogo è raccontata attra- verso lo stupore di fronte a eventi climatici sino a quel momento sconosciuti, attraverso la percezione del proprio colore della pelle così diverso da quello della maggioranza, nella lingua che si impara ad apprendere solo all’arrivo e con fatica.

Nelle narrazioni delle donne ghanesi, la scelta di migrazione è stata rac- contata come conseguente alla responsabilità del proprio ruolo all’interno della famiglia, sia esso quello di figlia maggiore o quello di giovane moglie, emerge con chiarezza nei frammenti d’intervista, di due delle socie della coo- perativa, che sono qui riportate, come non si sia assecondata una propria vo- lontà di partire, anzi come apparirà chiaro in seguito, la partenza interrompe il proprio corso di vita, i propri studi.

“Sono nata a Kumasi dove abitavo con mio padre e mia madre, quando avevo sette anni mio padre è partito per l’Italia ed io sono rimasta con mia madre e due fratelli. Poi quando avevo nove anni mia madre è partita per l’ Italia ed io e miei fratelli siamo andati a vivere ad Accra con una zia di mia mamma. A 17 anni, sono andata a vivere da sola con i miei fratelli. Ho fatto la scuola superiore di ragioneria ma ho dovuto interrompere gli studi perché dovevo venire in Italia (B. O. intervista del 20 ottobre 2008).

“Io sono nata a Takoradi, la mia famiglia è di lì. Ho studiato ad Accra. I miei fratelli sono quasi tutti in Ghana: mia sorella ha fatto il master a Londra e poi è tornata in Ghana, dove insegna. Suo marito è docen- te al Politecnico di Takoradi, l’altro mio fratello lavora in banca e poi

ho ancora una sorella più piccola, che è venuta qui in Italia da poco e poi ancora F. che sta studiando a Kumasi per diventare ingegnere meccanico. Non penso che voglia andare via dal Ghana, magari per studiare. Io sono andata via solo perché mio marito era qui. Ad Accra lavoravo in ospedale ma ero giovane e volevo una famiglia ed allora sono partita. . . Mio padre insegnava, abbiamo studiato tutti. I miei fa- migliari vivono bene, io faccio qualcosa per loro ma sono indipendenti, non ho bisogno di mandare mensilmente soldi. Certo noi Ghanesi ab- biamo una famiglia lunga, estesa, per esempio la sorella di mia madre che magari ha bisogno ti chiama per dirti che c’è un problema, spesso più che denaro mi chiedono di inviare farmaci italiani, sanno il lavoro che faccio e si fidano” (S. intervista del 24 Novembre 2008).

Se i racconti di partenza accomunano questo gruppo di migranti ad altri gruppi nazionali (Salih, 2003; Riccio, 2007; Decimo, 2005; Cingolani, 2009; Boccagni, 2009), e le motivazioni, i percorsi appaiono rintracciabili anche in altre vite migranti, per tornare a disegnare il gruppo ed il progetto Gha- nacoop, con i suoi protagonisti e con le rappresentazioni narrate del loro quotidiano e del progetto medesimo, si cercherà di cucire i frammenti di con- versazione e i racconti dei singoli per provare a evidenziare se vi sono delle ricorrenze, delle opinioni e delle rappresentazioni, condivise e distintive, che hanno favorito la costruzione di questo progetto di co-sviluppo.

Comunemente l’arrivo in Italia per gli uomini, e nelle parole dei soci della cooperativa è evidente, è una tappa, spesso finale del viaggio. Sono in pochi coloro i quali sono arrivati direttamente in Italia: coloro che avevano accesso ad informazioni corrette e sapevano di imminenti sanatorie o donne che, emigrando per ricongiungimento famigliare, arrivano in un contesto sociale più o meno protetto e costruito da mariti, genitori, o da fratelli maggiori.

“Io sono arrivato in Italia nel 1983. Mio fratello era già in Italia, eravamo cinque fratelli e quattro sorelle, tre fratelli sono morti e solo una delle mie sorelle, l’ultima nata, è qui in Italia, a Vicenza. Quindi nel 1983 sono partito, poi dopo vari giri mi sono stabilito in Italia nel 1986 e ho aspettato la sanatoria del 1987, S., con cui mi ero sposato prima di partire, è poi arrivata nel 1990. Vivo con mia moglie e due dei miei figli qui a Modena, gli altri figli sono con la loro madre in Sicilia, io adesso lavoro per Ghanacoop, ero socio e li aiutavo quando potevo, adesso lavoro con loro e lavoro tanto anche la domenica, ed anche se faccio fatica io sento che sto facendo qualcosa d’importante. Infatti, sin dall’inizio, ho voluto che diventassero soci anche mio fi- glio e mia moglie, abbiamo versato delle quote in più ma speriamo che

quando Ghanacoop diventerà ancora più capace di dare lavoro loro pos- sano essere tra i nuovi assunti” (D. intervista del 22 Marzo del 2009).

“Sono arrivato nel 1985, ho vissuto a Napoli per un anno e mezzo. Una volta avuto il permesso ho fatto un biglietto per il nord, non sa- pevo dove andare, era un biglietto che pagavi mille chilometri e andavi dove volevi. Allora sono andato a Milano e poi ho sentito di Modena, adesso vivo vicino Bologna.

Sono arrivato da solo, non avevo amici fratelli, nessuno. . . ero solo. Sono arrivato dopo aver girato un po’: prima in Germania, poi in Gre- cia, poi in Siria (perché mi volevo avvicinare all’Arabia Saudita dove c’era lavoro). In Siria la vita era un po’ dura ed allora sono andato in Bulgaria, poi in Jugoslavia, ho fatto vari tentativi per andare via strada in Giappone ma non ci sono mai riuscito.

Ci ho messo quattro anni per trovare quella che voi chiamate “Ameri- ca”, che però non ho ancora trovato.

Lavoravo in un’officina meccanica, in Ghana ero un perito tecnico che aggiustava le macchine che movimentavano terra, avevo lavorato an- che con ditte italiane in Ghana. Adesso ho una mia piccola impresa, mi occupo di trasporti, anche se in Italia è proprio difficile mantene- re un’impresa devi conoscere norme procedure. . . ” (S. D. intervista del 26 novembre 2008).

Arrivare in Italia, imparare la lingua voler riuscire a fare il proprio lavoro o realizzare le proprie aspirazioni: frammenti diversi di testimonianze rivelano la capacità di costruirsi un accesso al mercato del lavoro, delle strategie operate o immaginate per entrarvi come nel primo caso presentato e le diverse tappe percorse per poter fare il lavoro che si vorrebbe fare, per migliorare le proprie condizioni e cercare di non lavorare in fabbrica.

Rispetto al tema del lavoro e alla capacità di immaginarsi in ruoli per cui si è studiato o piuttosto per fare dei lavori che si ritiene siano portatori di prestigio oltre che di aiuto al gruppo ghanese nella sua interezza, le te- stimonianze raccolte tra le donne socie della cooperativa rivela come queste, pur essendo arrivate in Italia con delle scelte vincolate da legami di paren- tela e talvolta proprio grazie a questo contesto protetto di arrivo ma anche grazie all’estrema determinazione con cui hanno scelto di imparare la lin- gua, provano a studiare e riescono a reperire risorse e informazioni per poter concretamente aspirare a lavori diversi da quelli fatti dalla gran parte dei Ghanesi in fabbrica. Prescindendo dai risultati ottenuti nelle biografie rac- colte che, nei risultati pensati in termini di mobilità sociale, sono diversi se

non opposti. Le loro narrazioni dell’arrivo e del quotidiano rivelano la deter- minazione, l’impegno ma soprattutto consentono di ripensare se l’assunzione della responsabilità di un ruolo, che apparentemente vincola le scelte delle singole, divenga nelle vite vissute dalle interlocutrici una possibilità per tro- vare una forma di vita da abitare, un lavoro a cui aspirare ed anche un modo per esser partecipi del luogo sociale che, pur non essendo una meta scelta o agognata, diviene il proprio spazio di vita quotidiana.

“Quando sono arrivata in Italia avevo in mente di continuare gli studi ma non parlavo la lingua, allora sono andata a scuola di italiano per tre anni, avevo anche preso i libri per fare l’infermiera ma non par- lavo ancora abbastanza bene. Io sono arrivata ad inizio anno ed ho cominciato a lavorare a Maggio, avevo pensato che potevo lavorare e poi tornare a scuola ed invece poi non ce l’ho fatta. Avevo in mente che la lingua italiana era troppo difficile e quindi pensavo che magari dopo qualche tempo di lavoro potevo spostarmi in Inghilterra o in America per finire gli studi ma poi non ce l’ho fatta, insomma sono finita così. Quando sono entrata in Italia, ero non dico disperata. Ma io non avevo pensato che sarei arrivata in Italia, che avrei creato una fami- glia e sarei venuta qui ad abitare. Adesso è cambiato un po’. . . Io non volevo proprio abbandonare il mio paese. E se avessi potuto scegliere non sarei mai venuta in Italia, io volevo tanto finire gli studi e qui non ho potuto fare niente. Adesso lavoro in fabbrica, e partecipo come socia alle attività della cooperativa ed ho imparato tanto. Se potes- si vorrei tanto fare la mediatrice, le donne ghanesi spesso non sanno dove andare, non parlano italiano e a volte neanche inglese e l’unica mediatrice è nigeriana. . . ma il Comune non ha fatto dei bandi o delle opportunità. . . (B. O. intervista del 20 ottobre 2008).

“Sono arrivata in Italia a Novembre 1996 per il ricongiungimento di mio marito. Io in Ghana facevo l’infermiera ad Accra, ho studiato là tre anni ho lavorato solo un anno e poi sono venuta in Italia. All’i- nizio non è mica facile lavorare come infermiera, allora lavoravo in una ditta che forniva i pasti alle strutture ospedaliere. Nel 1999, dopo aver avuto la prima bimba ed aver imparato un po’ l’italiano, ho inizia- to a lavorare, perché non basta un solo stipendio, la bimba l’abbiamo portata al nido. Io sistemavo i pasti per i pazienti che poi portava- no in ospedale ai reparti. Ho lavorato lì circa un anno poi c’è stata questa legge che ha fatto Rosy Bindi che gli stranieri possono lavorare in Italia come infermieri. Ero rimasta senza lavoro ed ho cominciato ad andare in giro in bici nella zona industriale per cercare lavoro poi

un amico è venuto qui a casa mi ha detto che c’era una cooperativa che cercava persone per andare a lavorare in ospedale. Lì ero indecisa, piuttosto che andare a lavorare in fabbrica ho cominciato a lavorare con la cooperativa. Nel 2003 è arrivato il riconoscimento del titolo. Sono diventata socia di Ghanacoop per il fatto di mio marito. Era una cooperativa che era nata da poco, l’ho fatto per lui. A lui piaceva questo lavoro e gli piace tanto, all’inizio ero preoccupata perché doveva lasciare il lavoro che aveva, ero in pensiero lui invece voleva per forza. Io ho cercato tanto di convincerlo. . . ma non c’è stato nulla da fare. Poi ho cominciato a fare quello che potevo per aiutarli ma con il mio lavoro non è facile. Li aiuto come posso quando fanno delle feste delle promozioni” (S. intervista del 24 Novembre 2008).

Nelle conversazioni con le intervistate e gli intervistati l’impegno nella cooperativa, nell’associazione o più in generale nei confronti del gruppo gha- nese in Italia a tratti emerge. Il tema della solidarietà dell’orgoglio nel fare qualcosa, per e con i Ghanesi, spesso si intreccia al tema del proprio lavoro. La partecipazione alle attività dell’associazione o della cooperativa è nelle narrazioni, negli immaginari, come vedremo meglio in seguito, profondamen- te legata alle aspirazioni del proprio lavoro e al racconto della propria lealtà al gruppo ghanese nella sua interezza.

“Sono Fanti e arrivo da Winneba, sulla strada per Takoradi. Io volevo proprio andar via dal Ghana e sono arrivato in Italia nel 1979, a set- tembre.

Ero un marinaio e dalla Grecia sono arrivato a Genova, lì una brava persona mi ha inviato a Siracusa, in Sicilia e poi a Palermo Messina e Catania. Dopo qualche tempo mi sono trasferito a Bologna e poi dopo esser stato in varie cittadine a giugno del ‘97 sono arrivato a Modena per gli amici per l’associazione, pensavo che fosse bello essere più uniti per un progetto. Penso che piano piano ce la possiamo fare.

Adesso lavoro qui ma sono molto contento di poter fare qualcosa per l’associazione per i Ghanesi, e penso che questo mi possa anche aiuta- re nella mia vita in Italia. Sono arrivato in Italia che avevo 22 anni, adesso faccio 54 anni. Vedi che arriva qualcuno dopo di te e ti supe- ra, io non mi lamento perché quello che sto facendo è buono” (Mr G. intervista del 25 dicembre 2008).

I soci e le socie hanno fatto diversi lavori, gran parte di loro ha lavorato in fabbrica, qualcuno ha fatto riconoscere i propri titoli di studio ed è riu- scito a trovare un lavoro per il quale aveva studiato, tutti i soci sembrano dover avere delle caratteristiche comuni: la disponibilità di parte del proprio

tempo libero, la capacità di sacrificio e la voglia di fare, provare a rendere la propria presenza nel contesto modenese o per coloro che viaggiano tra l’Italia ed il Ghana, significativa, foriera di opportunità di lavoro che met- tano in gioco le loro capacità di mediazione, di intraprendenza ed orgoglio oltre che soddisfare le proprie ambizioni. È evidente e condiviso l’orgoglio di costruire delle vite non marginalizzate, ma soprattutto di trovare nel pro- getto Ghanacoop una nuova modalità per leggere il contesto valorizzando le proprie scelte di vita e l’orgoglio della comune appartenenza identitaria. Le narrazioni sono tutte attraversate da espliciti riferimenti alle norme che hanno regolato la migrazione. I permessi di soggiorno, i ricongiungimenti famigliari, il riconoscimento dei titoli di studio per le professioni sanitarie, o ancora la consapevolezza che le istituzioni locali bandiscano percorsi e posti per la mediazione culturale, sono evidenti topoi di narrazione nella vita degli immigrati che rivela proprio come gli spostamenti geografici lungo i confini regionali o nazionali e l’implementazione di politiche volte a riconoscere dei diritti agli immigrati divengano cruciali non soltanto nei destini individuali ma anche per creare un sistema di opportunità sociale oltre che economica in cui lo status sociale nel contesto social d’arrivo venga innalzato (Schuster, 2005), o in taluni casi ripristinato.