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E VANESCENZE D ’ ESILIO Sabrina Merolla

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 155-158)

Ogni giorno io creo una nuova patria in cui muoio e rinasco quando voglio una patria senza mappe né bandiere […].

Gezim Hajdari1

Il XX secolo ha probabilmente “suscitato le più grandi speranze che l’umanità abbia mai avuto”, ma ha anche “cancellato tutte le illusioni”.2 Il secolo appena trascorso è stato in fondo soprattutto il “secolo breve” dell’assolutismo e, proprio per questo, il secolo dell’uomo senza patria.3 Esuli, espatriati, emigré; mai prima di questo periodo le fobie persecutorie e gli intenti genocidi di varia matrice avevano costretto alla fuga così tante persone contemporaneamente. Eppure, in questo tanto discusso secolo di diaspora globale, sono stati proprio i numerosissimi esuli, apolidi e rifugiati a ritagliarsi uno spazio importante e relativamente nuovo all’interno della configurazione culturale internazionale.

Oggi sembra ragionevolmente confutabile ciò che affermava Hanna Arendt alla fine della seconda guerra mondiale (“a poet without a nation is inconceivable”),4

dato che è evidente quanta parte delle migliori opere intellettuali ed artistiche occidentali del Novecento siano state create da esuli, rifugiati ed emigré. Se infatti da un lato sono stati molti gli esuli che, una volta lontani dal proprio paese d’origine, hanno definitivamente rinunziato all’attività letteraria, sono altrettanto numerosi coloro che hanno approfittato della propria singolare posizione per crearsi un’identità transculturale, decidendo consapevolmente di trasformare la propria esistenza e la propria arte in un perpetuo vagare. È la scelta di vivere in-between,5

mutare vita ed arte in un flusso che liberi le proprie pulsioni e la propria immaginazione.

Sembra, invero, che buona parte dell’arte del XX secolo abbia progressivamente tentato di “liberarsi” dalle imposizioni non scritte di culture o nazioni specifiche, nel tentativo di raggiungere un piano dell’esperienza individuale nuovo, più autonomo e libero, ma anche “universale” in quanto “sradicato”. In questa prospettiva, pare che la creatività postmoderna abbia molto in comune con la scrittura che spesso caratterizza quegli esuli contemporanei che hanno scelto di coltivare la propria transculturalità. Infatti dimostra spesso una ferma volontà di mantenere allo stato liquido ogni convinzione, impedendo che si rapprenda in una

1 Gezim, 2004.

2 Yehudi Menuhin, cit. in Hobsbawm, 1995, p. 13.

3 Beyer, in Defilippi, 2001, p. 27.

4 Arendt (1943), pp. 110-119 .

sicurezza che offuschi lo sguardo,6 non differenziandosi, pertanto, dalla creatività di numerosi autori contemporanei in esilio. In questo confronto dunque, si svelano implicitamente i fondamenti della fascinazione che attualmente la parola esilio provoca in ambito intellettuale. Oggi che siamo di fronte ad un mondo dissipato, in frantumi, diviso in diverse complessità, corpi, memorie, linguaggi, storie, in cui è implicita l’impossibilità umana di raggiungere una sintesi razionalista che dia il quadro chiaro ed ordinato di un universo conoscibile, lo spaesamento sembra divenire un destino mondiale, laddove il pensiero critico è costretto ad “accogliere un modo di pensare destinato all’incompletezza”.7

Yang Lian è tra quegli esuli che scelsero, prima istintivamente poi coscientemente, di coltivare la propria marginalità culturale e farne la fonte primaria dell’ispirazione artistica. È così che l’alienazione, unita al tentativo di dar voce alla personale percezione aspaziale ed atemporale causata dall’esilio, diventano in lui la via maestra per la realizzazione di una scrittura che si muta in un interminabile processo di creazione di significato. Essa è caratterizzata da un profondo senso di precarietà, da uno sperimentalismo letterario dal simbolismo mutevole molto affine al postmodern mood.8

Fin dagli esordi, in effetti, è proprio il disinvolto sperimentalismo, esente da qualunque indolenza intellettuale, a caratterizzare l’intera produzione di questo autore. Perché l’artista e l’uomo in lui, sembrano da sempre combattere contro i limiti dello stesso essere umano. Yang è sempre stato un individualista convinto ed appassionato, costantemente impegnato a forgiare, nel grande laboratorio alchemico composto dal suo stesso corpo e dalla sua psiche, la chiave per la comprensione dell’intero mondo umano. La sua è un’attività continua, dolorosa, talvolta frenetica, il poetare di chi è abituato a “scavare come bestia ferita fino a trovare l’anima”9 – di se stesso come del mondo.

Yang, in realtà, oggi non è più un esule nel vero senso della parola. È già da anni un cittadino neozelandese residente a Londra. Ha dunque concluso il lungo esilio iniziato nel 1989 e vanta una candidatura al Premio Nobel (2002), la traduzione delle proprie opere in più di dieci lingue diverse e, soprattutto, la loro rinnovata pubblicazione in patria, dove ormai si reca periodicamente. Se l’autore non è più un esule nel senso stretto del termine tuttavia, egli rivendica, oggi come ieri, l’importanza degli insegnamenti acquisiti nel periodo più tenebroso della propria esistenza. Periodo dolorosissimo che gli permise di andare ben oltre la disperazione provocata dagli eventi di Tiananmen o la mera accettazione dell’inquietudine dovuta allo sradicamento, rendendolo, in fine, un poeta “internazionale”.10 Il suo attuale modo di pensare e guardare il mondo è stato

6 Bauman, 2002. 7 Chambers, 2003. 8 Fox, 1999. 9 Jodorowsky, 1998. 10 Yang, 2004.

Evanescenze d’esilio 1649 prodotto ed ha a sua volta generato una vita all’insegna della liminarità.11 In questa sorta di sradicamento continuo, ma mai del tutto compiuto, si insinua il simultaneo radicamento in più culture “altre” da quella originaria, creando uno stato ibrido ed indefinibile la cui caratteristica essenziale è la possibilità di sviluppare quella peculiare libertà artistica e di pensiero spesso generata proprio dal non essere esclusivamente vincolato ad una cultura particolare. Quanto di questo processo evolutivo si sia realizzato in modo del tutto spontaneo ed inconscio e quanto sia stato parte integrante di una crescita consapevole non ci è dato di saperlo. Possiamo solo tentare di indovinarlo dai nostri “dati materiali”, le opere dell’autore, la sua vita, le sue affermazioni.

Oggi l’opera di Yang Lian, che ama definirsi un “poeta internazionale”,12 è divenuta un sorta di mappa mondiale che egli suddivide in “manoscritti cinesi” (Zhongguo shougao, 中 国 手 稿 ), “manoscritti del pacifico meridionale” (Nantaipingyang shougao, 南太平洋手稿) e “manoscritti europei” (Ouzhou shougao, 欧洲手稿).13 L’autore ha ora particolarmente a cuore il legame tra le opere ed i luoghi in cui sono state composte

[…] Mi piace sentire che i luoghi sono vivi, e che riescono a penetrare la mia scrittura “senza che io me ne renda conto” […]14

ed ancora

[…] quando la mia Cina, la mia Sidney, e tutte le esperienze del mio vagare “internazionale” vengono contenute tutte nel “locale” della mia Londra, e diventano degli strati sovrapposti sotto di esso, allora quest’angolo di strada può essere il punto di confluenza delle vite provenienti da tutte le direzioni.15

È proprio tale “stratificazione” a conferire una notevole continuità all’opera di quell’“angolo di strada” che è l’autore stesso. In un’opera omnia scandita da tematiche ed interrogativi ricorrenti, da scambi e riferimenti continui, l’analisi dell’evoluzione della percezione d’esilio di Yang Lian, che portò alla nascita della sua attuale visione della propria identità, non può prescindere da un viaggio a ritroso che introduca le sue esperienze di vita e letterarie.

11 Una delle tre fasi un cui Van Gennep suddivideva i riti di passaggio. La L. ne è il momento centrale, in cui l’individuo che partecipa al rito si trova in una condizione sociale intermedia tra la vecchia che sta abbandonando e la nuova, ancora da acquisire (Van Gennep, 1909).

12 Yang, 2004, pp. 291-307.

13 Ivi, p. 314.

14 Ivi, p. 299.

Gli esordi, da zhiqing16a shiren17

Nato a Berna (1955) da due diplomatici ed accademici cinesi, Yang Lian visse a Pechino gran parte della propria gioventù, per poi trascorrere, come tutti i “giovani istruiti” che conobbero la Rivoluzione Culturale, un periodo di vita e lavoro in campagna. Non fece parte dei primi gruppi di guardie rosse ed assistette agli eventi di quegli anni quando era poco più che bambino. Educato al culto della personalità di Mao, fu parte di quella “generazione perduta” che alla fine degli anni ’70 divenne consapevole delle “menzogne” scandite dagli slogan rivoluzionari, rimanendo profondamente delusa dalla politica ed imbarazzata dalla propria disposizione a confidare in essa. La sua fu una generazione che, con la demaoizzazione, si ritrovò del tutto priva di punti di riferimento, in un mondo senza prospettive, in una profonda crisi d’identità. Tuttavia una radicata cultura classica, molto rara al tempo, diede al giovane Yang Lian la possibilità di cercarsi e rivelarsi nel proprio poetare, di muoversi alla ricerca della magia evocativa della poesia cinese antica, penetrare il sortilegio della sua stessa lingua. Lungo l’intero percorso evolutivo dell’autore è fondamentale il rapporto con la tradizione cinese, rapporto che emerge prepotentemente in ogni sua opera e in ogni suo ideogramma, mai percepito come mero segno grafico, ma come eco dei “pittogrammi di cinquemila anni”.18

Nel vivace clima culturale della Pechino della fine degli anni ’70 il nome di Yang Lian fu associato alla celebre rivista letteraria Jintian 今天 (“Oggi”)19 e quindi ai poeti menglong 朦胧 (oscuri). Essi componevano, per la prima volta dagli anni ’30, una poesia individuale20 di ascendenza “modernista”.21 I poeti di Jintian segnarono ufficialmente la nascita della poesia cinese contemporanea. Essi sperimentarono una poetica che andasse al di là della lingua arida e meccanica degli slogan, per ridestare quel potere evocativo della lingua cinese che tanto aveva affascinato l’imagismo anglo-americano. Insofferenti ad ogni autoritarismo nei confronti della propria arte, si guardarono dal produrre una poesia politica. Tentarono di creare qualcosa di nuovo e personale, pertanto scrissero poesie dai toni pacati, le cui fosche atmosfere svelavano le ombre dell’anima di una generazione disorientata. I loro versi realizzarono una spontanea sovversione della lingua e dei toni, pertanto le poesie oscure, anche se [di fatto] non [furono] politiche” in modo diretto, furono considerate in “chiara opposizione al sistema”.22 La loro rivoluzione poetica stava nell’arrogante a-politicità dei toni sfrontatamente pacati, che enfatizzavano un simbolismo molto soggettivo e, per questo, “oscuro”. Tali caratteristiche contrastavano inevitabilmente con lo stile ridondante delle apologie

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 155-158)