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Come di recente hanno sottolineato numerosi studiosi, dal XVI all’inizio del

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 130-133)

XIX secolo l’Asia Orientale e Meridionale occupava una posizione dominante nel commercio internazionale, e il commercio pan-asiatico era di gran lunga superiore a quello pan-europeo. In particolare, si ritiene che la Cina fosse al primo posto nel mondo in termini di PIL, seguita dall’India, dall’Europa e dal Giappone. La situazione mutò radicalmente solo a partire dal XIX secolo con la colonizzazione o semicolonizzazione dell’Asia. Ma ancora nel 1800, delle 10 maggiori città del mondo 3 erano in Cina (Beijing, Guangzhou e Hangzhou), 3 in Giappone (Edo/Tokyo, Osaka, Kyoto), 3 in Europa (Londra, Parigi, Napoli) e 1 in Turchia (Costantinopoli/Istanbul).

Pochi paesi asiatici si salvarono dal dominio europeo, e tra questi il Giappone, il

17 Per un approfondimento su questo approccio, cfr. Mazzei, 2005.

18Mazzei - Volpi, 2006, cap. XI.

Ripristinare la “Via della seta” 1623 quale accettando la sfida modernizzante lanciata dalle potenze colonialiste europee, in pochi decenni si trasformò da un paese periferico all’estremità orientale dell’Eurasia e popolato da “geishe e samurai”, in una moderna potenza imperialistica che, in nome di un asiatismo nippocentrico, cercava di unificare tutta l’Asia dell’Est.

Questi dati mettono in discussione non solo l’idea eurocentrica di progresso ma la stessa ricostruzione dell’ascesa politica ed economica dell’Europa come “centro del mondo” proposta dalla maggioranza degli studiosi (non solo occidentali), i quali antidatano l’ascesa occidentale collocandola nel XVI secolo e legandola in rapporto causale con la scoperta dell’America. Ma non è esattamente così: in particolare, il divide tra il “Nord” e il “Sud” del mondo è intervenuto molto più tardi, nel corso del XIX secolo, con un processo che fu accelerato dall’industrializzazione e dalla diffusione del colonialismo su scala mondiale. In breve, secondo questi dati, la de-industrializzazione dell’Asia (in particolare della Cina e dell’India) dovrebbe essere vista come il risultato non tanto di fattori endogeni bensì di cause esogene, segnatamente dal dominio coloniale europeo.

Oggi, la situazione è di nuovo mutata in conseguenza della straordinaria crescita economica della cosiddetta “Asia dinamica”, i cui motori principali sono la Cina con la sua potente ed estesa diaspora, il Giappone e l’India, seguiti da economie industrialmente e tecnologicamente sviluppate come Corea del Sud, Taiwan e Singapore e dal mosaico di paesi che costituiscono il variegato Sud-Est Asiatico. Secondo alcuni analisti, il 2040 potrebbe essere l’annus horribilis degli Stati Uniti, anno in cui la Cina potrebbe tornare al primo posto in termini di PIL, seguita dagli Stati Uniti e dall’India. E qualcuno per commentare questa previsione ha evocato il titolo di un celebre film: Back to the future!

E’ un assunto da decenni largamente accettato dagli studiosi e dalle cancellerie che l’economia mondiale possa essere vista come strutturata in un triangolo i cui vertici sono il Nord America, l’Unione Europea e l’Asia Orientale, o meglio l’“Asia dinamica” come sopra definita. Ma è ormai un dato largamente acquisito anche il fatto che la straordinaria crescita economica di quest’Asia dinamica abbia modificato profondamente la geoeconomia mondiale, spostandone l’asse verso l’Asia e verso il Pacifico, che è diventato una specie di affollato canale telematico che unisce le coste della California con Tokyo via Singapore-Shanghai-Seoul. Basti pensare che oggi tra le 21 maggiori megalopoli del mondo ben 10 sono sulla FAP, la Facciata Asiatica del Pacifico; e che tra i 10 maggiori porti per containers ben 6 sono concentrati nel Sud-Est Asiatico.

Purtroppo, spesso l’Europa ignora o sottovaluta il nuovo peso economico (ma anche politico) dell’Asia, perché troppo impegnata a risolvere turbolenze interne, spinose questioni connesse con l’allargamento, i problematici rapporti con i vicini dell’Est europeo e della sponda meridionale del Mediterraneo, mentre al contrario – come se affetta da strabismo - è sempre molto attenta alla relazione transatlantica, cioè ai suoi rapporti con gli Stati Uniti.

A dire il vero, negli ultimi tempi, l’interesse dell’Europa per l’Asia è cresciuto, ma soprattutto come effetto della diffusa percezione di un senso di vulnerabilità: una minaccia – essenzialmente economica - posta prima dal Giappone nel corso

degli anni ’80 del secolo scorso, quando nel pieno della sua potenza industriale e commerciale Tokyo sembrava che potesse comprare il mondo intero, oggi dalla Cina che deflaziona l’economia mondiale (a parte il settore energetico) inondando di suoi prodotti i mercati dei paesi sia del Nord che del Sud, domani forse dall’India e dopodomani (perché no?) dal Kazakistan, un grande paese che nei testi di World Politics più usati nelle università americane viene classificato come una potenziale grande potenza insieme all’Unione Europea. In breve, al Japan bashing (“dare addosso al Giappone!”) degli anni ‘80 si sta sostituendo oggi – soprattutto negli Stati Uniti - il China bashing e, più in generale, l’Asia bashing! Bisogna però aggiungere, più negli Stati Uniti che in Europa.

L’Asia (e in primo luogo la Cina) da sempre affascina e inquieta, raramente lascia indifferenti. E come potrebbe lasciare indifferenti un Paese come la Cina che è più grande dell’Europa dagli Urali all’Atlantico, che è la nazione più popolosa del mondo, che è sede di una antichissima e gloriosa civiltà, che è la terza potenza economica (avendo già nel luglio del 2007 superato la Germania) e commerciale (avendo ormai da qualche anno scavalcato il Giappone), che è la seconda potenza economica per PIL espresso in PPA, che ha il primato (strappato agli Stati Uniti) come meta di investimenti diretti all’estero (IDE), e che per di più alcuni esperti vedono come una potenza “revisionista”, quindi challenger nei confronti degli Stati Uniti? E non basta, perché oltre alla Cina – “fabbrica del mondo” e possibile potenza revisionistica - c’è il Giappone, secondo solo all’Iperpotenza per Pil e per sviluppo tecnologico, e poi l’India che con un miliardo di abitanti è la più grande democrazia del mondo e con il suo capitalismo “molecolare” sta diventando “l’ufficio del Pianeta”. A “GIACINDIA” segue poi un folto e agguerrito branco di tigri e tigrotti…

Quindi, certamente esiste – eccome! – un problema di competitività e di sfida con i paesi asiatici, e in questa fase soprattutto con la Cina, problema che in Italia e in altri Stati dell’Europa meridionale è reso più complesso perché colpisce pesantemente alcuni settori manifatturieri sensibili (tessile, calzaturiero ecc.) e anche perché è legato alla concorrenza “sleale” di Pechino e alle accuse di contraffazione e di pirateria, con la violazione dei diritti di proprietà intellettuale, e più in generale alle accuse di dumping sociale. E da più parti si chiede che l’apertura dei commerci con la Cina sia accompagnata da un adeguamento delle condizioni di lavoro a standard internazionali.

Non c’è alcun dubbio che è doveroso tutelare i nostri settori produttivi, impedire con scrupolo che prodotti contraffatti, difettosi o adulterati entrino nel nostro Paese, combattere con severità la contraffazione e la pirateria, cosa che in Cina non è facile anche per ragioni culturali. Tuttavia bisogna anche tener presente che la Cina è ancora un paese in via di sviluppo e che per vincere la povertà non può non fare affidamento sul più importante vantaggio comparato di cui essa (come molti altri paesi asiatici) può disporre in un’economia globalizzata: il basso costo del lavoro. Pretendere che i paesi poveri abbiano condizioni di lavoro eguali a quelle dei lavoratori occidentali è di per sé lodevole, ma ci dobbiamo chiedere se economicamente non sia un nonsense e se moralmente non sia ingiusto. A meno che l’Occidente non cambi radicalmente il proprio modello di sviluppo!

Ripristinare la “Via della seta” 1625 La realtà, purtroppo, è che oggi gli scambi commerciali tra i paesi europei e la Cina sono di gran lunga inferiori alle rispettive potenzialità, non avendo le imprese europee investito in misura significativa (forse con l’eccezione di quelle tedesche). Del resto, nemmeno i governi hanno fatto di più. Come già detto, se si vuole evitare l’emarginazione, oggi più che mai l’Europa deve rafforzare economicamente e politicamente la relazione eurasiatica, che continua ad essere il lato debole del triangolo economico.

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 130-133)