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Il Giano globale bifronte: finanziarizzazione e riduzione del la povertà

2. Attuali tendenze di mutamento globale

2.1. La transizione dell’economia mondiale

2.1.2. Il Giano globale bifronte: finanziarizzazione e riduzione del la povertà

Insieme alle nuove tecnologie dell’informazione, la globalizzazione è il motore delle trasformazioni descritte. Essa è in realtà un fenomeno a due facce (Nuscheler 2016a): fa convivere la finanziarizzazione e la competi- zione sui mercati con la riduzione della povertà.

stema economico contemporaneo (Gallino 2011)11. Ai nostri fini, della fi-

nanziarizzazione ci interessano solo gli effetti che essa ha prodotto nella crisi del 2008. Quest’ultima infatti da crisi finanziaria si è riverberata presto nell’economia reale. Gli analisti hanno già individuato i fattori di rischio di una nuova recessione in un orizzonte molto ravvicinato (cfr. infra § 5.1)12.

La grande crisi finanziaria ha rappresentato uno spartiacque. Tra gli in- segnamenti che essa ha lasciato in eredità13 vi è la promozione di una cre-

scita inclusiva (IMF 2017, pp. 11-13) e di un riequilibrio dell’economia globale (Utting et al. 2012; World Bank 2016a). In questo modo, non solo si eviterebbero ulteriori collassi ma ne risulterebbe rafforzato il sistema so- cio-economico grazie a una maggiore giustizia sociale (Rodrik 2011).

Questa è un’acquisizione ormai datata nella teoria dello sviluppo (Sen- ghaas 1979, 2012). Non sono mancati di recente nuovi studi (Piketty 2014) che hanno mostrato come le sperequazioni sociali eccessive finiscano per ostacolare la crescita economica.

La considerazione di partenza è che quanto più un’organizzazione socia- le è elastica  ossia pronta a utilizzare al meglio le proprie risorse e a con- sentire a ciascuno pari opportunità eliminando le barriere nell’accesso alla scuola, alla salute, alla formazione professionale, al mercato del lavoro  tanto maggiori sono le sue possibilità di allocare al meglio le risorse umane e di adattarsi ai mutamenti intervenuti. La flessibilità della struttura sociale, l’apertura culturale dei suoi membri sono quindi condizione per un percor- so di sviluppo economico.

In questo senso lo sviluppo  e per converso il sottosviluppo  va inteso come la capacità di utilizzare al meglio i capitali disponibili per il soddisfa- cimento dei bisogni collettivi (Nohlen, Nuscheler, 1992b, pp. 31-54). Lo sviluppo è fortemente associato a un modello di società la cui struttura è  

11 Il «capitalismo industriale aveva come motore […] l’industria manifatturiera. Il finan-

zcapitalismo ha come motore il sistema finanziario. I due generi di capitalismo differiscono sostanzialmente per il modo di accumulare il capitale. Il capitalismo industriale lo faceva applicando la tradizionale formula D1 – M – D2, che significa investire una data quantità di denaro, D1, nella produzione di merci. M, per ricavare poi dalla vendita di queste ultime una quantità di denaro, D2, maggiore di quella investita. […]. Il finanzcapitalismo persegue l’accumulazione di capitale facendo […] saltare la produzione di merci. Il denaro viene im- piegato […] allo scopo di produrre immediatamente una maggiore quantità di denaro. La formula dell’accumulazione diventa quindi D1 – D2», Gallino 2011, pp. 7-8.

12 Roubini, Rosa 2018, https://www.project-syndicate.org/commentary/financial-crisis-

in-2020-worse-than-2008-by-nouriel-roubini-and-brunello-rosa-2018-09;

https://www.economist.com/finance-and-economics/2018/05/03/where-will-the-next-crisis- occur.

13 Cfr. anche http://www.oecd.org/naec/lessons-from-the-crisis/#Engaging-with-the-

tendenzialmente egalitaria, e all’interno della quale le disuguaglianze socia- li non si presentano come troppo accentuate e soprattutto non si frappon- gono come rigide barriere. Basti ricordare come la letteratura scientifica dimostri e l’evidenza empirica confermi che ridurre i divari di genere  consentire alle bambine e alle ragazze di frequentare regolarmente la scuo- la, sostenere le donne nel loro ingresso nel mercato del lavoro, favorire in ambito familiare la ripartizione del lavoro di cura  è il modo migliore per promuovere lo sviluppo sociale, stimolare il livello di consumo interno, so- stenere il mercato domestico (Bianco 2018b).

Nell’ambito della teoria dello sviluppo, Hartmut Elsenhans (1941-viv.), in antitesi a Immanuel Wallerstein (1931-viv.) e alla sua Teoria del Sistema

Mondo (1978)14, si è concentrato sulle modalità di crescita e affermazione

del capitalismo occidentale. Elsenhans (1979, 1984) sostiene che l’aumento dei redditi da lavoro ha permesso da un lato l’accumulazione di capitale e dall’altro la creazione della domanda. Queste sarebbero dunque le basi per lo sviluppo del capitalismo15. Inoltre egli ritiene che le caratteristiche di un

sistema economico sano non riguardino solo gli aspetti legati al suo appara- to produttivo, ma investano anzitutto la distribuzione sociale dei salari. L’e- sperienza dello sviluppo economico occidentale, e in particolare inglese, è fondata, secondo Elsenhans, su due caposaldi: l’istituzionalizzazione della concorrenza grazie al mercato e la conseguente crescita dei redditi delle masse.

Oltre al contributo di Elsenhans, vale la pena di citare alcuni esempi sto- rici che Senghaas (1982) indica come modelli di sviluppo conseguito con successo da alcuni paesi europei nel corso della storia. Egli osserva come alcune caratteristiche sociali interne di alcuni paesi europei hanno sto- ricamente contribuito positivamente e in maniera determinante al loro pas- saggio da una posizione di economia periferica a un’economia pienamente sviluppata. I paesi scandinavi, ad esempio, sono riusciti a porre a frutto le caratteristiche socioculturali e istituzionali interne, avviando una moderniz- zazione agraria, favorendo l’alfabetizzazione della popolazione e sostenen- do l’imprenditoria locale (ivi, pp. 113-146). Sul fronte opposto troviamo la  

14 La Teoria del Sistema Mondo ha indagato i legami storici di dominazione dei paesi

ricchi sui paesi poveri, mostrando come il capitalismo mondiale vada analizzato come un sistema socio-economico compiuto, costituitosi sul finire del Medio Evo e basato sulla divi- sione internazionale del lavoro. Nell’ambito di quest’ultima ciascun paese occupa una posi- zione funzionale agli assetti e al buon andamento del sistema capitalistico globale, cfr. in proposito Bianco 2004, pp. 72 ss.

15 Elsenhans 1984, pp. 27-31; 1979, pp. 103-148. Cfr. in proposito anche Senghaas

1979, pp. 7-21. Sulla controversia che vede opposti Wallerstein ed Elsenhans v. più di re- cente Menzel 2016, pp. 137-145.

Spagna (ivi, pp. 206-207), la quale nell’Ottocento, pur orientata alle espor- tazioni, non ne impiegava i proventi nella costruzione di un’economia na- zionale moderna, bensì lasciava che essi si concentrassero nelle mani delle oligarchie terriere e commerciali, dando luogo a un capitalismo basato sulla rendita.

Sulle orme dell’esperienza europea, va fatto un cenno ai Newly Indu-

strialized Countries (NICs) (Menzel 1985). Taiwan, Singapore, Hong Kong

e Corea del Sud erano noti, a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso, come i “dragoni” o le “tigri” del Pacifico meridionale. A essi si sono aggiunti il Vietnam e l’Indonesia (Asche 1985; Gilpin 2003 cap. 12). La loro strategia di sviluppo constava di una industrializzazione orientata alle esportazioni. La capacità di questi paesi di competere internazionalmente era dovuta ad una significativa produttività, a redditi di lavoro costanti, all’investimento di capitali stranieri, nonché a modalità produttive non troppo rispettose dei diritti dei lavoratori, delle norme antiinfortunistiche e del rispetto per l’am- biente (Balassa, 1981; Goetze 2002, pp. 80-84).

Uno dei fattori che hanno sostenuto il successo dei NICs è legato alla disponibilità della popolazione di sufficienti mezzi per creare la domanda interna, sostenendo così il mercato nazionale e la produzione locale di beni. In aggiunta a questo, alcuni paesi, come la Corea del sud, hanno operato la scelta strategica di investire nel capitale umano, senza discriminare le don- ne. La parabola dei NICs ha subito un arresto con la crisi del 1997-1998, ma ha funto da battistrada per altri paesi di quel teatro geo-economico, in particolare per Cina e India.

Il secondo effetto indotto dalla globalizzazione, come già accennato nel pimo capitolo, è che milioni di persone sono potuti uscire dalla povertà (World Bank 2015, p. 4; 2016). La globalizzazione ha permesso a milioni di lavoratori delle aree più povere del mondo di accedere al mercato del la- voro mondiale, sia come migranti sia come forza lavoro impiegata nelle aziende occidentali che hanno delocalizzato la loro produzione in paesi più convenienti sotto il profilo dei costi.

Gli effetti socio-economici sono stati illustrati efficacemente di recente dall’economista serbo-americano Milanovic (2017). Egli ha proposto un grafico  l’ormai celebre immagine dell’elefante della diseguaglianza (Fi- gura 2.2)  che raffigura la variazione dei redditi a livello planetario nel pe- riodo 1998-2008. Dalla sua analisi emerge che la globalizzazione ha avvan- taggiato il 65% della popolazione nei paesi in via di sviluppo e ha, invece, penalizzato i ceti medi dei paesi avanzati, in taluni casi impoverendoli (Oliver, Grant 2004, pp. 213-226).

Fig. 2.2 – Crescita dei redditi globali 1998-2008

Fonte: http://www.pietroichino.it/?p=43751

Eppure sono ancora troppi coloro che non possono apprezzare il miglio- ramento delle condizioni di vita. Non a caso No Poverty è il primo tra gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile promossi dalle Nazioni Unite (United Na- tions 201616). I dati della Banca Mondiale confermano questo fatto. Nell’ul-

timo quarto di secolo i poveri sono diminuiti da 1.850 milioni nel 1990 a 767 milioni nel 2013. Nelle regioni più povere del mondo come l’Africa Sub Sahariana la povertà estrema  indicata come una disponibilità di red- dito di 1,9 dollari al giorno  colpisce oggi “solo” il 41% della popolazione (World Bank 2016a, p. 46). Nel 1990 ne affliggeva la metà (52%).

Come si vede la globalizzazione è un fenomeno complesso e che va go- vernato; anche i più poveri e più deboli vanno messi nella condizione di po- terne beneficiare e di dare a loro volta il proprio contributo (Kenny 2012, cap. 8; OECD 2017a).

 

16 http://www.undp.org/content/undp/en/home/sustainable-development-goals/goal-1-