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I limiti del modello Brandom-Sellars: il nominalismo psicologico

Alle origini della teoria dell’osservazione che abbiamo attribuito a Brandom si pongono alcune influenti tesi formulate da Wilfrid Sellars proprio nel periodo in cui, in modo solo in parte paradossale, il cogni- tivismo, nella variante chomskiana, incominciava a sferrare l’attacco contro il linguistic behaviorism allora dominante. Nell’importante saggio ‘Empirismo e filosofia della mente’ (1956), Sellars sembra certo tipo di empirismo che reitera quel genere di fondazionalismo da lui definito Mito del Dato.

sancire il vincolo tra le comuni capacità epistemiche, come credere, desiderare, pensare, e la padronanza del linguaggio verbale. La tesi, definita nominalismo psicologico, sarà così formulata da Sellars:

Qualsiasi consapevolezza di generi, rassomiglianze, fatti, ecc., in breve, qualsiasi consapevolezza di entità astratte – e, in realtà, anche di particolari – è una faccenda linguistica. In base a questa concezione, neppure la consapevolezza di quei generi, rassomiglianze e fatti che pertengono alla cosiddetta esperienza immediata è presupposta dal processo di acquisizione dell’uso di un linguaggio (Sellars 1956, 44).

A prima vista, come ben messo in luce da Chisholm, la tesi del primato del linguaggio, così formulata, rischia di scivolare in una forma di dogma psicologico perché incapace di attribuire alcuna forma di pensiero ad animali, soggetti prelinguistici, persone affette da mutismo o semplicemente afasici (Chisholm 1957, 524). Inoltre, lo stretto legame tra abilità linguistica e coscienza, che come abbiamo visto farebbe da corollario a questa tesi, porterebbe alla poco plausi- bile conclusione che vuole che si neghi la capacità di autocoscienza a soggetti con gravi disturbi del linguaggio. Ad esempio, Cimatti (2000) ha sostenuto che “l’autocoscienza umana è sempre – direttamente o in- direttamente - mediata dal linguaggio”, pertanto, il caso di un soggetto che avrebbe perduto la capacità di parlare, pur mantenendo inalterato un know how che gli consentirebbe di cavarsela in molte circostanze, quasi come prima, per Cimatti “non dimostra che si possa mostrare autocoscienza senza linguaggio” (Cimatti 2000, 57). Dall’altra parte, Damasio, nelle sue ricerche sugli afasici globali, ha sempre sostenuto che sarebbe controintuitivo anche solo domandarsi se quelle persone sono o meno autocoscienti (Damasio 1999, 138)4.

Dietro la tesi del nominalismo psicologico, secondo Robert Mejers non ci sarebbe la semplice pretesa di analizzare il comune linguaggio intenzionale (credenze e concetti) in termini di capacità linguistiche, cosa che renderebbe sempre possibile estendere forme di pensiero, seppur solo in modo analogico, anche a soggetti prelinguistici. In realtà, sostiene Mejers, Sellars abbraccerebbe la versione più ra- dicale di questa tesi, secondo la quale è impossibile avere credenze se non si padroneggia un linguaggio (Meyers 1981, 73). A mediare 4 Per un’analisi esauriente dell’approccio deflazionistico proprio di chi vuole ridurre l’autocoscienza alla competenza linguistica, cfr. Perconti 2008.

tra le espressioni linguisticamente articolate e le occorrenze di stati mentali intenzionali si troverebbe un Mentalese5. Il problema dunque

sarebbe: quanto il formato rappresentazionale e le proprietà seman- tiche di questo linguaggio sono sovrapponibili a quelle del linguaggio naturale? Se Sellars abbraccia una versione di Mentalese che lo rende un linguaggio stricto sensu, allora il nominalismo psicologico, col quale cercavamo di dar conto di quello che accade nella mente quando si cerca di afferrare strumenti concettuali, sarà di fatto riducibile a una forma di nominalismo linguistico in cui le entità semantiche an- dranno intese come type linguistici i cui token, per ciascun compor- tamento linguistico esplicito, saranno vincolati a una normatività di natura strettamente sociale. Difficilmente Sellars sembra sfuggire allo sciovinismo antropocentrico, almeno nella sua versione linguistica. Come osserva Dale Jacquette: “il vero problema che divide Chisholm e Sellars è se la natura del pensiero richiede che esso sia sempre reso nella forma del linguaggio” (Jacquette 1994, 104).

La questione del ruolo del linguaggio per la possibilità di un pen- siero articolato non è separata da quella relativa all’acquisizione del linguaggio stesso. L’idea di concepire una teoria della mente che rifiuti il fondazionalismo, e consenta, allo stesso tempo, di legare il natura- lismo di tale prospettiva con un approccio normativo derivante dalla dimensione sociale delle pratiche del dare e chiedere ragioni, tutto questo conduce Sellars a negare che l’origine del linguaggio possa essere formulata in termini innatistici. Se è il contesto sociale a deter- minare chi è in grado di articolare il linguaggio ne consegue che ani- mali e bambini prelinguistici sono tenuti lontani da questa categoria6.

Una volta adottata l’ipotesi del nesso pensiero-linguaggio, sono evi- 5 Il riferimento non è necessariamente alla tesi contenuta in The Language of Thought di Jerry Fodor (1975). È sufficiente l’impegno a un’ipotesi di medium quasi-linguistico che, quantomeno, tra i desiderata di una Teoria rappresentazionale della mente, produca sensi che accomunano le forme linguistiche e gli episodi interni. Sellars usa l’espressione ‘linguaggio del pensiero’ in The Structure of Knowledge (1975). 6 Risulta addirittura paradossale che Sellars recependo, in parte, le spinte cognitiviste degli anni ’70, se da un lato arriva ad allentare il legame tra linguaggio e pensiero, dall’altro, però, mantiene inalterato un assai rigido approccio anti-innatista, infatti: “Se si lega, in modo troppo stretto, il pensare al linguaggio, l’acquisizione delle abilità linguistiche da parte dei bambini diventa misteriosa in modi che generano discussioni su ‘teorie della grammatica innata’” (Sellars 1975, 303).

denti le conseguenze per la definizione dello status epistemico e etico di tutti i soggetti prelinguistici7.

Tra i problemi che la teoria dell’osservazione sopra presentata si trova ad affrontare, il più insidioso, forse, è rappresentato da un requisito che, in origine, Sellars ha posto come condizione perché si possa parlare di autentico stato epistemico e di autentici soggetti in grado di avere conoscenza. Si tratta della vincolo della ‘riflessività8: così come appli-

care un concetto ad uno stimolo prossimale richiede che le condizioni di successo, che ne fanno uno stato epistemico, siano raggiunte non per puro caso o in virtù di semplice addestramento, ma con consapevolezza, allo stesso modo chiunque avrà l’abilità di fare resoconti osservazionali dovrà essere capace di riflettere sull’affidabilità del suo comportamento, e offrire possibili giustificazioni. Nel caso di animali e bambini, è evi- dente che tale standard determini a priori l’impossibilità del successo, con la conseguenza di escludere che essi possano avere conoscenza. Willem deVries ha evidenziato due modi in cui è possibile interpretare tali conclusioni. Il concetto di norma che Sellars adotterebbe parlando di giustificazione non sarebbe il dover-fare del comune ragionamento pratico, infatti anche un termostato potrebbe ‘sapere’ cosa fare in certe condizioni. Per Sellars a contare sarebbero invece le regole del giudizio critico, del dover-essere, regole apprese all’interno della comunità lin- guistica, che fanno sì che la nostra condotta sia giustificabile in virtù di esse, perché sono tali regole a giustificare il fatto che le cose rosse siano chiamate ‘rosse’ (deVries 2005, 127). Secondo deVries è possibile intendere tale concetto di regola e la relativa conoscenza, ma forse qui 7 James Rachels, nel noto manifesto Creati dagli animali (1990), ha evidenziato come il legame, di natura cartesiana, tra linguaggio e razionalità, ha consentito il diffondersi di uno specismo caratterizzato da evidenti pregiudizi relativi alle questioni morali. Rachels sostiene che solo una trattazione scientifica, nella forma della teoria evolutiva, possa spingerci a riconsiderare certe credenze e a rivedere la prospettiva etica che su tali credenze si fondava.

8 L’espressione originale, dovuta a deVries e Triplett (2000) è epistemic reflexivity

requirement. In precedenza, William Alston (1989) aveva utilizzato la formula level ascent requirement per indicare, in modo più generico, l’approccio internalistico

di Sellars. Parlare di forme di riflessività pare appropriato, considerata la costanza con la quale Sellars, in parecchie occasioni, ha evidenziato come la metaconoscenza deve accompagnare diverse abilità cognitive, come l’uso di concetti, la conoscenza osservazionale, l’uso del linguaggio e l’agency.

è meglio parlare di metaconoscenza, o in modo esplicito, e in questo caso i nostri soggetti prelinguistici sarebbero realmente esclusi sia dalla pratica, il dare e chiedere ragioni, sia dal fine, il sapere-che, oppure in modo implicito, così come, per esempio, noi conosciamo la sintassi e la semantica del nostro linguaggio o le condizioni interne ed esterne dell’attività percettiva. Attività, queste, che difficilmente saremmo in grado di formulare linguisticamente in modo esauriente. Adottare la seconda lettura consentirebbe di salvare l’epistemologia di Sellars. Di recente, per esempio, deVries ha sostenuto la plausibilità del modello di conoscenza osservazionale di Sellars applicato ai bambini in età pre- scolare (Triplett, deVries 2007). In particolare, adottando la information theory of knowledge sviluppata dallo psicologo evolutivo Josef Perner9,

secondo deVries sarebbe possibile dimostrare come tra i 4 e i 5 anni, i bambini, a partire da una iniziale sensibilità per le regole dei giochi in cui sviluppano conoscenza tramite il potenziale induttivo del materiale quotidiano, incomincerebbero a manifestare i rudimenti di un apparato critico, anche nella forma delle gestualità, del sorriso e del diniego, con tutta l’evidenza della mimica facciale, dunque non necessariamente in modo articolato. Lo sviluppo linguistico consentirebbe di rendere espli- cito, magari tramite la forza espressiva dei primi operatori logici, quel sapere che prima era solo un saper fare10. Infine, fattore non trascurabile,

9 Secondo Perner, all’età di 4 anni i bambini incomincerebbero a sviluppare una comprensione della conoscenza nei termini di un sistema di rappresentazioni fedeli al modo in cui la realtà è lì fuori. A partire da quel momento “la rappresentazione può essere intesa come un medium che rappresenta qualcosa (referente) in un certo modo (senso)” (Perner 1991, 155). Tale sistema funzionerebbe solo presupponendo che esista un meccanismo causale affidabile che metta in corrispondenza il medium rappresentazionale con la situazione reale.

10 In effetti, nella fase più avanzata delle sue riflessioni Sellars torna su questi argomenti, concedendo parecchio a spiegazioni di tipo bottom-level per dar conto dei sistemi di rappresentazione degli animali. Come nota James O’Shea, in Mental

Events (1981) Sellars attribuisce agli animali e ai bambini prelinguistici forme di

proto-cognizione strutturate in modo quasi-proposizionale, complice il contributo della selezione naturale. Sarebbe ‘perfettamente intelligibile’, per Sellars, una forma prelinguistica di consapevolezza ‘di riferirsi a un oggetto e caratterizzarlo come X’. Se, però, “la forma proposizionale è più primitiva di quella logica” (Sellars 1981, 336), solo chi è dotato di strumenti logici (dunque linguistici) sarà in grado di prendere parte alle pratiche razionali superiori, quelle legate al vincolo del seguire le regole.

l’errore che sarebbe più facile commettere dinanzi ai dati sperimentali accumulati nelle ricerche sullo sviluppo evolutivo, sarebbe quello di in- terpretarli secondo i nostri standard, ad esempio interpretando le buone capacità di discriminazione riportate dai bambini in situazioni speri- mentali come se fossero esercizio di concetti o di conoscenza.

Come si può notare, il problema del senso dell’altezza giusta alla quale fissare l’asticella che consente di attribuire conoscenza, dipende non solo dalla received knowledge, che fa di noi soggetti della co- noscenza, ma anche dai distinguo che occorre fare quando si parla di livelli di conoscenza, pena il rischio di imbattersi in conclusioni controintuitive, e, infine, dipende anche da considerazioni relative al modo in cui le norme di razionalità, di successo epistemico, ma anche pratico, fanno il loro ingresso nel mondo naturale, cosa che, relativa- mente agli animali umani, non accadrebbe se, come insegna Sellars, non fossero costruite socialmente attraverso il fenotipo umano esteso.

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