Cristiano Castelfranch
3. È la mente ascritta che rende un atto altruistico o meno
3.1. Risultati ‘motivanti’
Per meglio capire in che senso un dato risultato atteso e gradito è inteso in senso stretto e piu’ precisamente motivante (ciò agisco per esso), si deve esaminare quali di questi ER “positivi” sono necessari e/o sufficienti per la decisione e per fare quella azione a.
I “Risultati Motivanti” (sub-set di quelli attesi positivi) sono quei risultati che determinano la decisione di agire e la scelta di quella azione/piano. Sono i risultati “in vista dei quali” agisco, nel senso che sono: necessari e/o sufficienti ad agire: l’agente sceglie ed esegue l’a- zione a se e solo se (e fintato che crede che) a produce quel dato R.
Se non ci fossero non agirei; basta che ci siano per determinarmi ad agire.
In Figura 1 i rapporti di inclusione e distinzione tra i vari sets di risultati (Lorini et al. 2005):
98 Fig. 1
3.2. Odio
Se non esiste (se non è possibile caratterizzare chiaramente) il vero altruismo, allora non esiste neppure l’odio, cioè il male dell’altro come fine in sé. Se il bene dell’altro lo si fa’ necessariamente per qualche tornaconto secondario (aggiuntivo) interno, per qualche sovrascopo puramente per sé, allora lo stesso vale anche per il male: esso non è terminale davvero ma lo facciamo per non sentire più rabbia o per approvarci, ecc. (pseudo-odio).17
Almeno teoricamente può non essere così. Si può agire terminal- mente motivati dal male dell’altro o dal bene dell’altro (e si può essere perfettamente razionali rispetto a ciò).
È del tutto ovvio che vi è una differenza tra sapere che dal mio atto ne verrà (collateralmente) un male/danno per te, e farlo per farti danno; così dovrebbe essere ovvio che sapere che ne verrà a me un dato beneficio non è uguale a dire che lo faccio per quel beneficio; esattamente come sarà ovvio che se so che me ne verrà (anche) un danno/dolore non vuol dire che lo faccio per procurarmi quel dolore.
Il tuo bene o il tuo male sono uno scopo meramente “strumentale” o “terminale”? E mi motivano o no ?
17 Quando voglio il male dell’altro per ragioni morali, il mio non è puro odio, il male dell’altro non è il mio fine; lo desidero per giustizia, per punizione. Naturalmente le due cose si possono mischiare e inquinare.
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4. Considerazioni (in)conclusive
Spero di avere dato convincenti argomenti per la tesi che ciò che dà una dimensione morale a comportamenti o emozioni sono le rappre- sentazioni mentali (doxastiche o motivazionali) da essi presupposte. E’ la mente che rende il nostro atto o emozione morale o immorale; ed il pensiero privato stesso, senza atti, senza parole, senza emozioni può essere morale/immorale.
Ci sarebbero molte altre cose da analizzare e discutere; dav- vero cruciali per una psicologia della moralità e delle sue emozioni. Concluderò analizzando molto brevemente due sole questioni. 4.1. Psicologia delle norme
Le N pretendono “obbedienza”, cioè non semplicemente una con- dotta conforme, ma una condotta conforme dovuta a specifici stati mentali e motivazioni. Se per caso o per ragioni private faccio quanto la N prescrive, non ho “obbedito” e la N non ha avuto efficacia. Se lo faccio perchè X mi paga per fare quanto prescritto, non ho “ob- bedito”; se lo faccio perché X vuole così, altrimenti mi picchia, non ho davvero obbedito alla N, ma ad X. Idealmente le norme hanno la pretesa sulla nostra mente, che noi aderiamo alla richiesta, adot- tiamo (facciamo nostro) un dato scopo, perché riconosciamo che è una norma (non una richiesta o imposizione personale), appropriatamente indirizzata, da parte della autorità normativa intitolata (gruppo, leader, madre, chiesa); che capiamo che è “giusta” (cioè rispondente ai valori e fini che quella autorità rappresenta) o che semplicemente la presup- poniamo tale. Idealmente io devo aderire perché è un dovere ed ho il senso del mio dovere; non per premi e sanzioni. Premi e sanzioni sono per la fase di “apprendimento” del processo di adozione, e nella pa- radossale costruzione di motivazioni intrinseche; e restano solo come rimedio in un mondo non voluto, sub-ideale, in cui la norma è stata violata (l’opposto di ciò che essa vuole).
Il senso del dovere – su cui le norme vorrebbero idealmente con- tare e costruire – è una struttura scopistico-motivazionale piuttosto particolare. Per certi versi simile a quella dei “valori”, che sono dei giudizi di valore (in sé in principio “strumentali”) che vengono termi- nalizzati, resi fini in sé, non giustificati (Miceli, Castelfranchi 1992).
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Il “devo/i” è in origine un concetto mezzo-fine, strumentale, con in più l’idea della “necessità”, del non avere alternative. Non solo T o fare A serve, è utile per raggiungere il tuo scopo S, ma se non fai A o usi T non lo puoi raggiungere. “Devi” strumentale/tecnico significa questo: “Se vuoi aprire quella porta, per aprire quella porta devi…”. L’atto è condizionato alla tua volontà e scelta libera: se hai quello scopo questo è il mezzo.
Il “devi” deontico non è più strumentale, tecnico; diventa un fine in sé, si terminalizza, e non è più condizionato a tuoi sovrascopi e pre- ferenze, al tuo condividere il fine cui strumentalmente serve. “Devi” e basta. “Non devi aprire questa porta!” “Questa porta non si deve aprire!”. Qui il sovrascopo (ciò a cui serve, il perché) è nella mente del “prescrittore”, la volontà è la sua e tu devi “aderire” ad essa. Fare una cosa perché “devo”, per senso del dovere, significa farla anche senza capire/sapere perché, a cosa serve, cosa la motiva; nell’avere fiducia nella “autorità” lasciare ad essa questo compito e ruolo. E persino ob- bedire anche se e quando non si concordasse sul senso o ragione della norma o ordine (fosse pure pendere la cicuta)18.
Il carattere doveristico della normatività implica una sorta di alie- nazione di nostre capacità cognitive e libertà; la costruzione di una autorità delegata, non riconosciuta come nostra creatura e da noi “em- powered”, con una riduzione eccezionale di costi di negoziazione, coordinamento, decisione, incertezza, ecc. un’accumulazione di pro- cedure, esperienze e soluzioni standard. La morale con le sue norme (ma anche la legge o le norme sociali) è anche uno strumento interna- lizzato di coordinamento e di bounded (social) rationality.