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Psicoterapia, neuroscienze, simulazione: una storia antica

Lo statuto scientifico e la legittimazione sociale della psicoterapia si basano sulle possibilità di validazione empirica dei suoi risultati e dell’efficienza delle specifiche tecniche. Ai fini della ricerca mirante a questa validazione, uno dei problemi più importanti è il reperimento di strumenti attendibili per valutare sia l’esito degli interventi che l’an- damento del processo terapeutico, basandosi su epistemologie e meto- 1 L’intervento presentato al convegno AISC (Enna, 22-24 aprile 2014) era inserito in un panel coordinato da Bruno Bara, sul tema: “Dalla psicoterapia cognitiva alla scienza cognitiva, e ritorno”.

dologie che consentano di caratterizzare come scientifiche le pratiche terapeutiche (Lambert, 2004).

Mediante i progressi compiuti dalla ricerca valutativa sulle psicote- rapie evidence-based, sappiamo tanto sull’efficacia delle psicoterapie, poco ancora su come questa efficacia venga raggiunta; molto resta da conoscere su come le psicoterapie funzionano nei diversi contesti reali di pratica (Kazdin e Weisz, 2003). Eppure questi aspetti sono essenziali per costruire un modello non solo di verifica ex-post, ma anche predittivo, cioè in grado di prevedere cosa ci si può aspettare dal trattamento per uno specifico paziente, e su questa base formulare una affidabile prognosi e una mirata programmazione; e per accertare periodicamente se il trattamento procede secondo le attese o bisogna modificarne in itinere obiettivi e strategie. Questo approccio viene de- finito “expected treatment response” (Lueger, Howard, Martinovich, Lutz, Anderson, Grisson, 2001; Lutz, 2002), e costituisce una delle attuali frontiere della scientificità delle terapie psicologiche.

Questi avanzamenti della ricerca sulla validazione scientifica della psicoterapia sono però resi difficili dalla grande complessità delle va- riabili in gioco – a quelle relative alle specifiche caratteristiche del ‘cliente’ si aggiungono le variabili implicate nella relazione terapeutica e nelle influenze del contesto – e dalla inadeguatezza delle metodologie a disposizione dei terapeuti-ricercatori per gestire tanta complessità.

Quale contributo può venire dagli sviluppi delle neuroscienze? Il passaggio dai modelli cognitivi alle teorie neuroscientifiche della mente e dell’intervento terapeutico sulle sue patologie (Bara e Tirassa, 2000; Petrini e Zucconi, 2001; Etkin, Pittenger, Polan, Kandel, 2005; Gabbard, 2009; Mundo, 2009) ha consentito approcci nuovi in linea con i risultati della scienza cognitiva attuale.

I risultati delle neuroscienze, e le possibilità di simulazione delle funzioni cerebrali deputate alla percezione, all’immaginazione e all’a- zione, aprono nuove vie esplicative non solo sul funzionamento della mente (Bara, 1995; O’Reilly, Munakata, 2000) ma anche sulle forme patologiche del comportamento umano e sul loro trattamento. Ne sono state presentate implicazioni anche nelle terapie ipnotiche di tipo erik- soniano (Balugani, 2008).

Non sono però mancate critiche alle applicazioni di questi approcci alla ricerca empirica sulle psicoterapie, in quanto giudicati anch’essi

riduttivi rispetto alla complessità della realtà oggetto di studio e delle molteplici variabili in essa implicate. Questi approcci hanno spesso il limite di trascurare le grandi differenze esistenti all’interno delle diverse sindromi su cui l’intervento terapeutico agisce, differenze re- lative non solo ai sintomi ma alle funzioni cognitive, emotive e di relazione e adattamento sociale; e di sottostimare fattori non secondari quali il tempo decorso dall’insorgenza, il supporto sociale, le terapie prestate, l’eventuale cronicizzazione (Andreasen, 2011).

Un contributo all’attuazione di pratiche psicoterapeutiche scien- tificamente fondate viene dai tentativi di modellizzazione consentite dalle simulazioni che le scienze cognitive mettono a disposizione anche della clinica.

Va rilevato però che il rapporto fra simulazione e psicoterapia ha riguardato finora quasi esclusivamente l’uso di tecnologie di supporto, o addirittura di sostituzione, del terapeuta; oppure nell’introduzione della realtà virtuale per coadiuvare il trattamento terapeutico.

Esempi di questi approcci furono, in anni lontani, il software tera- peutico virtuale ‘Eliza’ (O’Dell, Dickson, 1984), e l’uso dell’intelli- genza artificiale in terapia (Hand, 1987).

L’uso della simulazione al computer per indicare le modalità pre- ferenziali di intervento terapeutico è stato presentato da De Giacomo, Pierri, Lefons, Mich (1990), ed esteso alle terapie di gruppo (Bruce- Sanford, 1998). In una logica di simulazione si colloca il contributo di Gallese e Goldman (1998) centrato sui neuroni-specchio; l’approccio di embodied cognition apre la strada ad interessanti prospettive anche in psicoterapia.

L’uso delle tecnologie in psicoterapia è stato oggetto di uno special issue della rivista Psychotherapy. Nella presentazione, Wolf (2003, 3) afferma che “la psicoterapia usa i computer sia per accedere ad Internet come mezzo di comunicazione, sia come strumenti di simu- lazione, creando realtà virtuali che possono essere manipolate con be- neficio terapeutico”.

Sono note da tempo le applicazioni terapeutiche della realtà vir- tuale sia nella simulazione di aspetti fisici dell’ambiente (per esempio come ausilio a tecniche di desensibilizzazione per il trattamento delle fobie), sia per la simulazione di ambienti sociali in cui è possibile l’interazione con personaggi virtuali (Glantz, Durlach, Barnett, Aviles,

1996, 1997). Queste applicazioni estendono il raggio di azione delle terapie assistite dalla tecnologia a diversi tipi di disturbi.

Secondo Vincelli e Molinari (1998) il grande potenziale offerto dalla realtà virtuale in psicoterapia consiste nell’uso estensivo di fun- zioni di immaginazione e memoria. I mondi creati nel virtuale sono vividi e realistici, e possono introdurre cambiamenti nel tradizionale modo di intendere il rapporto fra cliente e terapeuta. Il paziente speri- menta il vantaggio di ricostruire e usare un mondo esperienziale all’in- terno del setting terapeutico.

Gorrindo e Groves (2009, 2012) propongono l’uso della realtà virtuale (inclusi strumenti euristici derivati da Second Life) non solo per il miglioramento della diagnosi e del trattamento di patologie psi- chiatriche, ma anche per avanzare e testare modelli teorici, generare ipotesi, fornire nuovi contesti per l’insegnamento delle psicoterapie. Anche concetti molto complessi come il transfert trovano utili model- lizzazioni per la formazione dei terapeuti.

Una rassegna sull’uso della realtà virtuale nel trattamento dei di- sturbi psichiatrici, e in particolare della schizofrenia, ha concluso che queste tecniche – coinvolgendo i pazienti in compiti complessi e situazioni simili a quelle della vita quotidiana – possono aumen- tare l’accuratezza della diagnosi funzionale integrata con l’assessment neuro-cognitivo e psico-sociale e l’efficacia della terapia (La Barbera, Sideli, La Paglia, 2010). Ad analoghe conclusioni arrivano altri studi meta-analitici riguardo i disturbi d’ansia e fobici (Parsons, Rizzo, 2008; Powers, Emmelkamp, 2008). Mediante la realtà virtuale sono stati trattati svariati disturbi: paura di volare in aereo, fobie delle al- tezze, fobie sociali e ansia da prestazione, agorafobia, disturbi dell’im- magine corporea, obesità: mancano però adeguati studi controllati sull’efficacia di queste tecniche confrontate con quelle tradizionali (Gregg, Tarrier, 2007).

Infine, un aspetto specifico dell’uso di nuove tecnologie come sup- porto alla psicoterapia è l’uso della robotica, avvalendosi di umanoidi capaci di comunicare, interagire socialmente, stimolare l’apprendi- mento di abilità relazionali (Libin e Libin, 2003). Anche nella terapia di persone con disabilità e autismo l’uso di mini-robot come mediatori del rapporto con l’operatore e con altre persone dell’ambiente è ri- sultato proficuo (Diehl, Schmitt, Villano, Crowell, 2012; Scassellati,

Admoni, Matarić, 2012). Piccoli robot utilizzati per supportare il trat- tamento dell’autismo diventano intermediari tra i bambini e il mondo esterno, che per loro risulta troppo complesso per essere percepito e gestito adeguatamente; proprio per la loro artificialità chiaramente ri- conoscibile, i robot possono fungere da intermediari per generalizzare con le altre persone i comportamenti appresi. Il terapeuta può sfruttare la gamma di interazioni sociali, comunicative, collaborative e ludiche che questi umanoidi consentono di stimolare, creando programmi fi- nalizzati di intervento per ricostruire specifiche funzioni deficitarie, come quelle di interazione socializzante.

Al termine di questa sintetica rassegna sulla simulazione in psico- terapia, concludendo che essa è stata finora utilizzata prevalentemente come mezzo ausiliario del trattamento, ci chiediamo se sono possibili usi diversi, specialmente nella ricerca valutativa degli esiti e dei pro- cessi psicoterapeutici.