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Cristiano Castelfranch

2. Basi Cognitive delle Emozioni Moral

2.1.1. La Pena/Compassione

La pena è un’emozione a tre elementi: chi la prova (X); la persona per cui la prova, che la suscita (Y); e l’oggetto: la condizione di Y che commuove (O).

E si basa su questa struttura:

Cosa c’è nella mente di chi prova pena?

> La credenza di una grave mancanza di potere/impotenza di qual- siasi tipo6 (malattia, povertà, bruttezza, stupidità, solitudine, etc.). Ti

può fare pena anche l’analfabeta, perché non può leggere la lettera del figlio. Questa mancanza di un potere (risorse /capacità), comporta l’impossibilità di raggiungere un qualche scopo S1 importante per Y (credenza), che è escluso, frustrato. 7Quindi:

> X crede/sa che Y soffre o potrebbe soffrire.

Se di fronte alla sua sofferenza X va in empatia e sente il suo dolore, prova compassione, pena.

Ci sono diversi tipi di empatia. Non c’è solo il contagio affetti- vo-emozionale. Vedo che stai vomitando => mi viene da vomitare; sbadigli => sbadiglio; ridi => rido anch’io. Ma ci sono forme ben più sofisticate di empatia negli esseri umani, che potremmo chiamare “per immedesimazione”. Io mi immagino (la mente consiste nella capacità di simulare, di pensare l’inesistente, di lavorare su tale mondo rappre- sentazionale, irreale) nei tuoi panni. E in questo immaginarmi nei tuoi 5 Vi sono poi altre componenti o dimensioni delle emozioni: la componente “espressiva” (posture, facce); la componente edonica (emozioni gradevoli o sgradevoli e sofferenti); la componente valutativa (l’emozione rappresenta un intuitivo ed implicitio giudizio sul fatto come buono o cattivo per me); la funzione/ utilità dell’emozione per l’individuo o il gruppo.

6 Per questo serve un concetto astratto e unificante, come appunto quello del “potere” rispetto ai propri scopi; capacità e risorse; ovvero “risorse” “poteri” interni ed esterni. 7 Vi è una forma basica di pena suscitata già da questa grave mancanza di poteri, dalla triste condizione dell’altro; soffro io per lui anche in assenza o impossibilità di sua sofferenza.

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panni, provo un’emozione, e così te la attribuisco.

Quindi, primo, per provare pena e compassione, non è necessario che veda l’altro soffrire e piangere. Posso solo immaginare: “Pensa quella poveretta come deve star male, perché gli è morto il figlio in questo modo!”. Posso provare compassione e pena anche senza osser- vare il dolore; anzi, se penso che prova dolore e lo nasconde, provo ancora più pena.

Secondo, come abbiamo già detto, in questa operazione di trasferi- mento e immedesimazione, noi non siamo completamente decentrati. Ci trasferiamo nei panni dell’altro con la nostra testa e quindi pos- siamo provare una grande pena, anche quando non c’è reale dolore.

Le emozioni sono sistemi di allerta su nostri scopi. La pena sembra sorvegliare

> lo scopo che non ci sia gente gravemente priva, che soffre o po- trebbe soffrire.

E questa situazione di immedesimazione o quest’empatia mi attiva uno scopo/impulso:

> lo scopo di aiutare, soccorrere, fare qualcosa: “Oh, poveretto! Ma che si può fare!”.

La pena morale però si aggancia su un principio etico: essa è rego- lata dal pensiero (credenza) “è giusto, se lo merita, se l’è cercato”. Per provare la pena devo

> pensare che non se lo merita, non è giusto.

Se penso che è giusto, che ben gli sta mi si blocca tale senso di pena.

Questa pena morale sembra sorvegliare un meraviglioso scopo degli esseri umani che è

> “Che non vi siano sofferenze, privazioni ingiuste, immeritate” Un principio di equità sul versante delle perdite; il più grave. E noi avremmo quest’impulso d’aiuto.

È vero che viviamo in un Bellum omnium contra omnes ma è anche vero che abbiamo importanti basi altruistiche. Ci sono tutte e due queste anime. Siamo animali duramente competitivi, questa è una faccia, ma anche gruppali e scambievoli.

Dobbiamo però anche capire perché questa meravigliosa emozione umana ha – sorprendentemente – anche una altra faccia: può essere infatti una offesa, usata per ferire. “Mi fai pena!”, “Fai pietà!”. Questo

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può essere un insulto. Si può nascondere la propria difficoltà e soffe- renza e rinunciare anche ad aiuti pur di non fare pena e suscitare pietà. La nostra analisi in termini di potere e sua mancanza, e quindi di- svalore, valutazione negativa, e inferiorità, ci spiega perché. Questa faccia insultante, mortificante della medaglia sta nascosta in quel giu- dizio: “Y è privo di potere per raggiungere S1” cioè “non è in grado di.., non è atto a.., manchevole, inadeguato ...” e quindi inferiore, sub-standard, privo di valore.

Infatti, tutto ciò che suscita scherno e derisione può suscitare pena (e quasi viceversa8). Un signore goffamente inciampa e casca

per strada: ci verrà prima da ridere e poi da aiutarlo, o viceversa uno slancio di aiuto e poi una risatina tra noi e noi?

2.1.2. Vergogna

La vergogna è l’emozione legata allo scopo dell’immagine sociale: X si vergogna di O (oggetto della vergogna) di fronte/verso Y (indi- viduo o gruppo).

La vergogna è un’emozione sofferente. È un’emozione sia post hoc che anticipatoria, sia a cose fatte, sia pensando che succederà o po- trebbe succedere.

Analizziamo la mente di chi si vergogna:

Credenza1: Y potrebbe sapere di O (sa/ saprà/…) È interessante perché è anche meramente ipotetica. C2: Y valuta O negativamente

X crede che questa cosa (O) sia una cosa brutta per l’altro (Y), ai suoi occhi.

E quindi

C3: Y valuta negativamente X per O

Non è che l’altro semplicemente vede negativa quella cosa (O); sono io (che ho (fatto) O) che ci faccio una brutta figura: “Che pen- serà(nno) di me!?”. E’ il mio scopo della buona immagine (stima) che viene compromesso; lo scopo S1 che Y mi valuti(no) positiva- mente

S1: Y valuta X positivamente.

8 Non tutto ciò che può suscitare pena (ad esempio un signore investito da un’auto e gemente per terra) può suscitare derisione. Dipende dalle attribuzioni interne/esterne, e dalla caratteristica cui è attribuita.

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Questa è la frustrazione fondamentale e lo scopo vigilato dalla emozione di vergogna.

Anche se qui esaminiamo la vergogna nella sua dimensione e fun- zione morale, la vergogna non è una emozione necessariamente ed intrinsecamente morale. E l’evidenza è piuttosto ovvia. Ci possiamo vergognare non solo per atti e comportamenti, ma anche per mere caratteristiche; e anche per condotte o situazioni di cui non abbiamo alcuna responsabilità (fuori dal nostro controllo) e che non pertengono alla sfera morale. Posso vergognarmi per essere negro, o strabico, o basso; o per avere vomitato per un malore improvviso.

Vergogna è solo timore (o evidenza) di essere oggetto di un giudizio negativo non necessariamente morale, ma anche estetico o di altre norme. Sono oggetto di valutazioni negative,9 sono non rispondente a

valori e standard, e quindi inferiore. Naturalmente posso vergognarmi per cose che ho fatto o pensato e che sono moralmente non accettate, oggetto di norme e giudizi morali; ad esempio per avere bestemmiato o per aver ceduto il passo ad una donna che – mi spiegano - qui non si usa perché è maschilista (valore sociale etico). E nel vergognarmi io sto ammettendo la mia manchevolezza/inadeguatezza morale.

Si noti che la morale (e la religione) non prescrive o proscrive solo atti (come fortunatamente fa la legge, almeno in paesi moderni), ma anche contenuti e stati mentali: pensare o desiderare o provare una data cosa può essere per se “male” o “bene” indipendentemente dall’agire. Il desiderio/ fantasia pedofila anche se non agito è ignobile e immorale; non persegu- ibile penalmente ma condannabile socialmente ed anche possibile fonte di autobiasimo e senso di colpa o vergogna per il valore interiorizzato. Questo vale anche nella colpa senza una “vittima” da me ingiustamente e irresponsabilmente danneggiata; il senso di colpa per mera violazione di norme morali. Infatti noi vediamo il violare le norme (che stanno lì per tutelare i diritti di qualcuno o il bene comune) come un atto “nocivo”, lesivo del bene altrui, anche se le specifiche vittime non sono – data la complessità della società – immediatamente visibili/comprensibili. 9 Anche nella colpa sono oggetto di valutazioni negative, ma di altro tipo: non sono manchevole e privo di poteri (doti, capacità, ..); bensì ho poteri ma perversi; sono cattivo, nocivo, dannoso (da punire o evitare). E sono responsabile del male che ho prodotto o produco, e vengo meno quindi a norme e valori morali. Faccio del male “ingiusto” e quindi “ingiustificato”.

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Ma per una anatomia della vergogna manca una altra componente fondamentale. Per provare la vergogna veramente, devo condividere il valore di O: anche per me O deve essere una brutta cosa. C’è un’altra credenza (C4), in cui io valuto negativamente ciò di cui mi vergogno O:10

C5: X valuta X negativamente per O

E quindi anch’io mi valuto negativamente, e anche il mio scopo dell’autostima S2 è in parte lesionato, frustrato

S2: X valuta X positivamente.

Nella vergogna provata è frustrata sia l’immagine sociale che l’au- toimmagine/ autostima (buona valutazione di sé).

Se io non condivido la valutazione negativa, posso andare in un vissuto di provocazione opposto della vergogna, fino al polo dell’or- goglio. Anziché vergognarmi e nascondere la caratteristica che tu di- sprezzi, io posso esibirla, posso andare in atteggiamento di sfida di valori. E questa provocazione è di due tipi:

- C’è una provocazione tipo: “Non me ne frega niente dei vostri giudizi e dei vostri valori, siete dei benpensanti pietosi! Io non sono uno di voi né voglio esserlo”. Esempio: un punk; messaggio di mene- freghismo totale nei confronti dei vostri valori; un messaggio di scis- sione e disprezzo.

- Vi è un secondo messaggio di provocazione: “Dovete cambiare i vostri valori! Ma che pregiudizio è questo?! Non è che io non ci tengo al vostro giudizio, è che non condivido il vostro ben pensare, i vostri valori, dovete cambiare la vostra testa!”. Come nel caso delle manife- stazioni gay.

Quando sono oggetto di disprezzo, di disvalore, il problema è che spesso io condivido, avevo introiettato per ragioni culturali o intro- ietto ora, questo disvalore. La vergogna è un fatto intimo; non posso veramente vergognarmi se non condivido. Questo fatto del valore interiorizzato, dà luogo a una partita importante: io ho dentro di me questa valutazione negativa, cioè di essere oggetto di disprezzo e di marginalità, ed è una emozione, un sentire, non un semplice giudizio. 10 Su questo sbagliano Margaret Mead e Ruth Benedict. Non nel distinguere interessantemente tra “culture della colpa” (controllo interiore) e “culture della vergogna” controllo della opinione degli altri, di cosa direbbero di me, ecc. Ma nel dire che il valore nelle seconde non è interiorizzato e chiamarle culture della “vergogna” e non della “reputazione” o simili. La vergogna richiede intima condivisione del valore.

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Il problema è come riesco a liberarmene. Io potrei vergognarmi di una cosa che a livello di giudizio (testa) non giudico più negativa, ma nonostante questo è interiorizzata, quindi mi vergogno ugualmente, perché in realtà non sono riuscito a rieducarmi emozionalmente. E a questo servono le comunità, l’orgoglio, l‘esibizione. Cambiare opi- nione è facile, cambiare il vissuto è più difficile.

Qui nasce una domanda importante: ma dal momento che anch’io mi vedo negativamente, la mia autoimmagine è lesa; dato che mi posso vergognare anche se voi non sapete niente, non sarà che la vera essenza della vergogna è davanti a se stessi e basta? Non sarà che la vergogna è in realtà un’emozione dell’autoimmagine? Scopo S2. A mio avviso non è così; la vergogna è un’emozione dovuta all’esposi- zione sociale, al rischio di un giudizio esterno; quindi c’è comunque un occhio che mi guarda, seppure dentro di me. Anche se nessuno lo sa, e anche se mi vergogno di fronte a me, in realtà io mi sento un po- tenziale occhio che mi giudica, esterno.

Non abbiamo delle grandi prove su questo: è un fatto, diciamo così, fenomenologico. Vedremo delle piccole evidenze nell’impulso attivato dal vergognarsi (sotto).

Ma prima dobbiamo chiarire che mentre la condivisione del valore è essenziale per vergognarsi veramente (e qui abbiamo semplificato su O, ma potrebbe essere più sofisticato: cioè l’oggetto della vergogna essere il fatto stesso di essere oggetto della valutazione negativa, me- ta-livello) assurdamente non è necessario per vergognarsi che io con- divida il fatto, cioè che io sia convinto di aver fatto una mancanza. C’è la vergogna dell’innocente: posso arrossire per una cosa che non ho fatto ma gli altri mi attribuiscono. Quindi l’arrossire non è una confes- sione! Errore molto diffuso.

Completiamo il quadro. La vergogna, di cui lo scopo da sorve- gliare è lo scopo della figura, dell’immagine, dell’essere ben valutato (S1), attiva, come tutte le emozioni, un impulso.

S3: X vuole sprofondare/togliersi dallo sguardo

Questo scopo è alquanto buffo, ma per certi versi rivelatore: “Avrei voluto scomparire, sotterrarmi, sprofondare”. E’ una piccola prova a favore della tesi che la vergogna è un’emozione davanti agli altri, c’è un occhio che mi guarda. Cosa vuol dire infatti sotterrarsi, sprofon- dare? Sottrarsi alla vista, sottrarsi a qualcuno che mi guarda o mi può

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guardare. Di per sé non è che sia uno scopo che ha grande conse- guenza agita11 salvo nei segnali espressivi come nascondere o abbas-

sare lo sguardo, ecc.

La vergogna serve all’individuo e al gruppo, in modo chiarissimo. Al gruppo perché ribadisce come condivisi i valori del gruppo, riba- disce la superiorità del gruppo e la sottomissione al suo giudizio, ri- badisce che tu sei un membro, vuoi rimanere un membro e ci tieni. Quindi rafforza i valori del gruppo e a questo il gruppo ci tiene. Per questo esso dice “Almeno vergognati!”. Ma serve anche all’individuo perché riduce l’aggressione verso di lui, riduce l’ostracismo. Come dire “Mi dispiace, sono uno di voi”. Questo messaggio lo mantiene in- tegrato, pur essendo difettoso, essendo stato inetto, inadeguato, goffo, inadatto, risibile. Quindi riduce lo specifico tipo di aggressività che è l’aggressione sui principi e sui valori (“Sei diverso da noi, vattene fuori, sei pericoloso per i nostri canoni o privo di valore”).