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I prodotti biologici nella distribuzione moderna

Nel documento Volume Rapporto 2001 (.pdf 1.5mb) (pagine 166-169)

6. LA DISTRIBUZIONE ALIMENTARE AL DETTAGLIO

6.3. I prodotti biologici nella distribuzione moderna

Il fatto che i prodotti biologici non costituiscano più una nicchia di merca-to è ormai assodamerca-to. Il volume d’affari di quesmerca-to segmenmerca-to, stimamerca-to tra i 1000 e 1200 milioni di euro nel 2000, è ormai arrivato a pesare per più dell’1% sul to-tale dei consumi alimentari, un dato che, se è ancora lontano dai valori medi di paesi come Germania o Danimarca, ne fa comunque un settore di grande inte-resse, anche perché tutti le analisi sono concordi nel prevedere tassi di crescita dei consumi molto consistenti. Tra l’altro, se limitiamo l’attenzione ai compar-ti in cui i prodotcompar-ti biologici sono più diffusi, le quote di mercato diventano molto più importanti, visto che, ad esempio, per l’ortofrutta si stima che l’incidenza del biologico abbia ormai raggiunto il 5%.

Con queste premesse, era scontato che la distribuzione moderna, dopo anni di approcci prudenti a questo segmento, iniziasse a manifestare un inte-resse molto più forte, che, se inizialmente riguardava soltanto la scelta se o-spitare o meno una quota di prodotti biologici nell’assortimento, ed even-tualmente quanto spazio dedicargli, oggi si manifesta tipicamente nella scel-ta se tratscel-tare solscel-tanto i prodotti delle principali aziende del settore o se varare una linea ad hoc di private label.

Negli ultimi anni, infatti, il mercato del biologico è cresciuto anche in termini qualitativi, visto che, in un settore che fino a pochi anni fa si basava su un tessuto di piccolissime imprese artigianali (sia agricole che di trasfor-mazione), con qualche azienda di grande successo, la cui politica di marca ha avuto un ruolo pionieristico (basti pensare alle Fattorie Scaldasole), oggi sono le imprese agro-alimentari medie e medio-grandi, con marchi consoli-dati nel convenzionale, a tentare l’avventura del “bio”. Basta citare nomi come Yomo, Carapelli, Invernizzi, Granarolo, Arrigoni, Cirio, Gallo,

Preal-pi, Citterio, per capire come il biologico sia diventato un terreno privilegiato per l’innovazione di prodotto. Tra l’altro, l’espansione del mercato ha avuto un’inevitabile conseguenza sui prezzi che, se fino a qualche anno fa poteva-no arrivare anche a +200% rispetto al prodotto standard, oggi poteva-non superapoteva-no il 30-35% in più, un livello che non costituisce più una barriera per i consu-matori non particolarmente motivati.

In questa situazione, e in analogia con quanto successo in passato per i prodotti convenzionali, il ruolo crescente della distribuzione moderna nelle vendite di prodotti biologici sta modificando radicalmente il quadro compe-titivo. Come è stato già menzionato, se da un lato ormai tutte le catene, al-meno nei punti vendita di dimensioni medio-grandi, dedicano uno spazio-scaffale ad hoc ai prodotti biologici, in particolare all’ortofrutta, le imprese distributive che hanno investito maggiormente in questo segmento sono quelle che hanno introdotto un proprio marchio di prodotti “bio” (Esselunga, presente già dal 1999, Coop e Conad, che hanno lanciato le loro linee nel 2000).

Da indagini recenti, emerge come queste catene abbiano iniziato la loro politica di assortimento con il cosiddetto “affiancamento”, cioè presentando ai consumatori sia un certo numero di prodotti di marca, almeno nei segmen-ti dove le marche sono conosciute, sia le proprie private label. Siamo quindi in una fase di assestamento, in cui le imprese, prima di puntare in modo de-ciso sui propri marchi, facendoli diventare il componente principale della lo-ro offerta, stanno selezionando i marchi industriali e/o agricoli da mantenere in assortimento anche in futuro. Questo ha dato luogo ad un notevole turn-over nelle marche trattate dalle catene in questione, con un saldo positivo tra ingressi e uscite.

Sembra quindi che la fase della cosiddetta “sostituzione” del prodotto di marca con le private label sia ancora piuttosto lontana, anche se queste ulti-me presentano una serie di caratteristiche che le ulti-mettono sicuraulti-mente in po-sizione di vantaggio. Se infatti per tutti i prodotti a marchio del distributore l’immagine della catena diventa elemento di garanzia per i consumatori, questo è ancora più vero per i prodotti biologici, che per loro natura devono essere certificati e garantiti da organismi ad hoc, ma per i quali il controllo da parte dell’impresa distributiva costituisce per il consumatore una sorta di certificazione generalizzata. Un elemento di ulteriore competitività è ovvia-mente il prezzo, che per le private label tende ad appiattire ancora di più la forbice rispetto al prodotto convenzionale, andando quindi alla conquista dei consumatori meno motivati.

Ma se, per segmenti come il lattiero-caseario o le paste alimentari ci si deve attendere, nel medio periodo, un equilibrio tra private label e prodotti

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di marca industriale, la situazione dell’ortofrutta è radicalmente diversa. In questo comparto, infatti, che attualmente è il più importante per il biologico, la sostituzione dei prodotti di imprese specializzate (molto spesso di natura cooperativa) da parte delle private label è stata molto più massiccia, non es-sendoci alcun problema nel sostituire marche che non hanno mai raggiunto un livello adeguato di notorietà. In Coop, ad esempio, dove le private label sono partite soltanto nel 2001, dopo un anno le referenze di queste ultime avevano già superato il 50% dell’assortimento specifico; in Esselunga, dove la marca del distributore ha un anno in più, si è raggiunto addirittura l’85%.

Un discorso a parte deve essere fatto per il segmento delle carni, dove lo sviluppo del biologico è ancora molto limitato, e le stesse catene sembrano muoversi con grande prudenza (in questo comparto, non vi sono ancora li-nee di private label). Il comparto zootecnico sconta alcuni importanti pro-blemi strutturali, primo fra tutti la carenza dell’offerta interna, visto che il grosso della produzione commercializzata viene dall’estero (in particolare dall’Austria), un elemento che condiziona anche la forbice di prezzo, ancora decisamente elevata (superiore al 40%). In queste condizioni, quindi, lo svi-luppo del settore è ancora limitato, nonostante gli effetti delle crisi alimentari creino proprio per le carni grosse potenzialità di mercato, ma la stessa espe-rienza del prodotto convenzionale, dove le private label si sono sviluppate con grande fatica, dimostra la delicatezza di questo settore particolare.

Di fronte a questo ingresso a tappeto della distribuzione moderna nel segmento del biologico, è logico chiedersi quale possa essere il destino delle rete di negozi specializzati. Anche qui, i primi segnali sembrano indicare un’evoluzione molto simile a quella dei piccoli negozi che commerciano prodotti convenzionali, caratterizzata da forme di vendita più aggressive e/o dalla crescita della qualità dei prodotti e dei servizi. Come esempio del pri-mo fenomeno si può citare la nascita del franchising, con la rete dei negozi NaturaSì che, oltre al tradizionale servizio del negozio specializzato, può avvalersi di una forte organizzazione alle spalle, che si occupa sia degli ap-provvigionamenti che del marketing. Tra i fenomeni di crescita della qualità del servizio possiamo invece citare l’ampiezza della gamma offerta dagli specializzati, che normalmente spazia su prodotti difficilmente reperibili nel-la distribuzione moderna, l’elevatissima competenza del personale, il cui consiglio può davvero fare la differenza, ma anche la gastronomia da asporto e le iniziative collaterali, come i corsi di agricoltura e di cucina. Insomma, di fronte all’avanzare della distribuzione moderna, sembra che anche la rete specializzata stia adottando delle contromosse efficaci, che porteranno pro-babilmente a nuovi equilibri nella struttura delle vendite.

Nel documento Volume Rapporto 2001 (.pdf 1.5mb) (pagine 166-169)