• Non ci sono risultati.

Capitolo 2 Movimenti e associazioni: da e per l’infanzia

2.3 L’infanzia dei diritti e delle ONG

2.3.2 Idee attorno al lavoro minorile

Nel primo capitolo abbiamo affrontato in profondità quali sono le visioni ufficiali attorno al lavoro infantile, quelle sostenute dalle Convenzioni dell’ILO (138 e 182) e dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia dell’ONU, e quindi dal governo peruviano, che avendole sottoscritte ad esse deve ispirarsi.

Vorrei qui approfondire qual è l’atteggiamento delle diverse organizzazioni nei confronti del concetto e della realtà minorile, aspetto di fondamentale importanza dato che si trovano ad operare proprio con la porzione di infanzia lavoratrice, ed evidenziare i punti di contatto ma anche quelli di corto circuito con l’impostazione che si vorrebbe imporre a livello mondiale.

Anche in questo caso, come risultato di un’azione che è nata più di trent’anni fa proprio per sostenere le bambine e i bambini che lavorano, l’elaborazione più caratteristica è quella del MANTHOC. Viene definita da loro stessi come valoración critica (valorizzazione critica), “di cui sicuramente avrai letto”, traglia corto Ever durante l’intervista, senza specificare ulteriormente perché si tratta di un concetto ormai dato per assodato. Ritornando brevemente sulla questione affrontata precedentemente (cfr. 1.4), secondo la definizione che ne dà Schibotto (1997), valorizzare i lavoro infantile, nelle

76 manifestazioni che non ledono lo sviluppo psicofisico del bambino, significa riconoscere gli elementi positivi e le potenzialità dell’esperienza lavorativa come parte del processo di socializzazione di gran parte dell’infanzia contemporanea, specialmente nei paesi in via di sviluppo. Questa impostazione viene definita anche regulacionista, poiché “they are of the opinion that the focus should be on the amelioration of the conditions under which children work” (van den Berge 2009: 325), in modo che i ragazzi abbiano anche garanzie legislative che permettano loro di negoziare le condizioni lavorative (contratti di lavoro, sicurezza sanitaria, ecc.). In tal senso questa posizione si contrappone nettamente a quella di tipo abolizionista.

Quando parlando con Ever gli ho chiesto come fosse vista questa difesa e rivendicazione da parte del movimento del diritto al lavoro infantile, lui chiarì subito la situazione, “noi quello che difendiamo è il diritto a lavorare, no il diritto al lavoro, è questo che ancora loro [le istituzioni] non capiscono”. Quello che forse voleva sottolineare era non tanto che i bambini dovessero lavorare, quanto che quelli che lo fanno possano essere riconosciuti in quanto lavoratori, e che possano svolgere il loro lavoro in condizioni dignitose, “che possano apportare qualcosa alla loro formazione e non allo sfruttamento, questo nemmeno gli adulti lo vogliono”. Infatti il MANTHOC ha elaborato una proposta lavorativa (programa laboral) attraverso diversi laboratori produttivi in cui forniscono una formazione professionale ai ragazzi (Martinez Muños 2009). In particolare Ever mi racconta dei talleres de tarjeta (laboratori di biglietti d’auguri) e laboratori di stampa su magliette. Il primo è il più redditizio, grazie anche agli ordini importanti che provengono da “associazioni amiche” in Italia e Germania. Si tratta di biglietti che i ragazzi realizzano utilizzando materiali come carta riciclata, cartoncini e coriandoli. “Questa attività favorisce che i bambini abbiano condizioni degne di lavoro, che siano occupati per un paio di ore nella realizzazione dei biglietti e abbiano così la possibilità di generare anche un ingresso, seppur minimo”. Il lavoro di stampa di magliette si realizza nel gruppo Valle de Amauta e questa attività coinvolge prevalentemente adolescenti, i quali acquistano le polo e successivamente vi realizzano dei disegni a pennello. Con questo tipo di attività è già più difficoltoso il guadagno, in quanto gli ordini sono più sul lungo periodo: “se realizzano un ordine a gennaio, il secondo verrà fatto diciamo ad aprile o maggio”.

L’attività lavorativa intesa attraverso questa tipologia di laboratori mi sembra però ancora inserita nella logica delle associazioni di aiuto. Ovviamente si tratta di produzioni non competitive sul mercato e la loro distribuzione avviene all’interno del canale del commercio “equo e solidale”, al quale partecipano per lo più associazioni europee. Questo rappresenta tutt’altro che una garanzia, come ammette lo stesso Ever quando mi racconta dell’evoluzione della commercializzazione di giocattoli in legno, ma anche delle magliette e dei bigliettini, che era così fiorente per esempio in Italia e che è stata, purtroppo, bruscamente bloccata in seguito all’implementazione di norme che

77 vietano l’acquisto di prodotti realizzati da bambini-ragazzi (cfr. Edmonds 2009). In assenza di un percorso privilegiato, sia all’interno del mercato peruviano o estero, la commercializzazione di questi prodotti risulta veramente difficile, rendendo vane le buone idee di partenza.

Un altro punto di vista, diverso da quello del MANTHOC, ma anche molto peculiare in sé, è quello espresso da Gabriela, la coordinatrice di Qosqo Maki durante il nostro colloquio:

qui hanno la possibilità di lavarsi, di dormire bene, di parlare con altri adulti che li possono aiutare, che li possono accompagnare a cercare un lavoro più serio, più dignitoso, dove non siano sfruttati, dove non passino dei brutti momenti.

Sicuramente l’azione dell’associazione non cerca di combattere l’attività lavorativa dei loro utenti, ma anzi i servizi offerti dal dormitorio vengono visti come un modo per evitare l’esclusione sociale e lo sfruttamento dei ragazzi che lavorano e vivono in strada (cioè che sono usciti dal seno familiare). Il lavoro, nella spiegazione che fornisce Gabriela, appare legato a due questioni molto importanti: la necessità di uscire da una situazione familiare spesso conflittuale, per cui il lavoro in alternativa al furto, diventa l’unico modo per sopravvivere a questa situazione di improvvisa indipendenza, ma anche come questione culturale. È stata lei ad affermare per prima, tra tutti i colloqui che ho avuto con i responsabili delle associazioni, questo aspetto, che secondo me non è da tralasciare quando si parla di lavoro infantile in Perù. Come riportato in 2.2.1 nella concezione andina sulla società e sul lavoro è ben articolato anche il ruolo che dovevano svolgere i bambini e le bambine. Nella sua riflessione attorno ai concetti andini di infanzia e lavoro Domic Ruiz (2004) afferma che il lavoro è parte naturale del processo di socializzazione, il bambino viene considerato come parte indivisibile dell’ayllu67, il cui ruolo all’interno della famiglia e del gruppo sociale è considerato vitale, egli è “membro attivo e vivificante” (cit. p. 37). Gabriela lo esplicita così:

qui c’è un’abitudine culturale da moltissimi anni, che è che tutti quanti in famiglia devono lavorare, anche il più piccolo […] Alcuni hanno una problematica grave ed è per questo che escono [dalla famiglia] e altri vengono [in città] nelle vacanze, per esempio per portare soldi a casa e poi se ne vanno, ritornano alle loro case. […] In questo caso portano soldi a casa perché è una questione culturale, tutti lavoriamo qui, tutti diamo il nostro contributo e tutti lavoriamo per ottenere quello che vogliamo.

L’associazione lavora quindi nel massimo rispetto delle decisioni prese dai ragazzi e cerca di aiutarli a prevenire le situazioni di rischio che si possono verificare lavorando in strada e che riguardano lo sfruttamento, la violenza, l’uso di droghe, la manipolazione da parte degli adulti, la tratta. L’elenco

78 delle attività che svolgono i ragazzi è vario: “per esempio escono a lustrare scarpe, a vendere torroni, caramelle e ogni altro tipo di cose da mangiare…non so, cantano nelle combi68 o nei ristoranti o fanno i lavapiatti o aiutanti in cucina”. Altri lavano macchine o ne fanno i custodi. Queste attività non sono fisse né permanenti, possono anche svolgerne due contemporaneamente a seconda della stagionalità: per esempio abbandonare la scatola di spazzole e lucidi da scarpe, nelle giornate di pioggia, per fare i custodi di macchine oppure, nella stagione turistica, vendere cartoline e souvenirs nel centro storico di Cusco.

Come MANTHOC, anche Qosqo Maki ha implementato nel corso degli anni anche due laboratori d’impresa – piuttosto rinomati nella città di Cusco – uno di falegnameria e uno di pasticceria e panificio. In essi i ragazzi che lo desiderano possono imparare una professione, lavorano e ricevono un piccolo compenso, che basta per mangiare e qualche altra spesa e col tempo, con l’assunzione di maggiori responsabilità e il raggiungimento di un grado superiore di specializzazione, anche lo stipendio aumenta. La falegnameria è attiva dal 1996 e i ragazzi, sotto la guida del capo-laboratorio che dirige la produzione e la squadra insegnando il lavoro ai dipendenti, disegnano e producono mobilio per le case, materiale educativo, ricreativo (puzzle e giochi in legno) e decorativo. Il laboratorio di panetteria invece opera dal 2006, attraverso il ricavato, come avviene anche per la falegnameria, si autofinanzia il processo formativo, i ragazzi imparano i processi di panificazione e di elaborazione di pasticceria dolce; le loro specialità sono le ricette francesi e oltre a dedicarsi alla produzione, adiacente al laboratorio hanno aperto un punto vendita e bar per fare colazioni e merende, molto apprezzato dai turisti che visitano la città69. Nei laboratori sono impiegati prioritariamente i ragazzi del Dormitorio, quando si presenta l’opportunità di assumere un nuovo apprendista e qualcuno di loro è interessato, altrimenti l’offerta si rivolge ai giovani adolescenti in generale. La posizione del Centro Yanapanakusun, si desume dalla parole di Josefina, educatrice ed ex- lavoratrice domestica nella sua gioventù: “sarebbe bello un mondo senza lavoro infantile, ma in quale mondo è possibile? Non in questo mondo, non in America Latina per lo meno”. Le ragazze ospitate nell’hogar sono inserite nelle scuole, primaria o secondaria fino al raggiungimento del diploma, e a partire dai 13-14 anni, se lo desiderano, sono collocate progressivamente in famiglie o altri luoghi di lavoro, ma sono sempre controllate e seguite dal Centro, che le assiste anche dal punto di vista legale. Questo per certi versi rappresenta anche una garanzia per gli empleadores, i datori di lavoro, che si rivolgono a loro perché vedono una sicurezza nell’associazione, “sentono che le ragazze sono seguite e perciò sentono che si possono fidare di più”. Questo non vuol dire che non ci siano mai dei problemi,

68 Sono i furgoncini, diffusissimo mezzo di trasporto peruviano, che nelle strade urbane e di media percorrenza

sostituisce gli autobus.

69 Le informazioni sulla pasticceria sono consultabili presso il link http://www.qosqomaki.org/talleres/ (Ultimo accesso

79 delle incomprensioni, difficoltà di adattamento, da un lato perché “non sempre è facile per le ragazze accettare la loro condizioni, che non hanno sicuramente scelto”, ammette Josefina. Spesso le ragazze lavorano cama adentro, cioè ricevono vito e alloggio presso le case dei loro datori di lavoro; quando ci sono dei problemi legati alla convivenza, o le ragazze non si sentono a loro agio, sono tutelate dal contratto, che regolarmente firmano prima di essere assunte, e possono fare ritorno all’hogar in attesa di una sistemazione migliore o di un lavoro diverso. Nella scheda di inserimento lavorativo, oltre a essere riportate le indicazioni riguardanti il salario stipulato, gli orari di lavoro e quelli destinati allo studio e il giorno di riposo, si chiede di specificare anche il luogo in cui la ragazza dormirà e mangerà nella casa/sede di lavoro. In questo modo se non viene rispettato la ragazza può contestare eventuali situazioni di segregazioni e servitù. Un altro elemento fondamentale e condicio sine qua non è la prosecuzione degli studi, infatti tutte le ragazze che lavoravano durante la settimana erano impegnate per qualche ora o al massimo mezza giornata e andavano a scuola nel pomeriggio.

La linea seguita dal Centro Yanapankusun si può definire come una posizione che cerca di mediare tra ciò che si ritiene sia la condizione desiderabile, perseguita anche dalla visione ufficiale dell’UNICEF e definita pragmatica, per cui si ricorre al collocamento delle ragazze, che tuttavia non è mai obbligatorio, ma viene visto piuttosto come un mezzo utile per affrontare la situazione in cui esse si trovano a vivere per renderle progressivamente indipendenti e responsabili della loro vita, poiché l’associazione non potrà rappresentare per sempre una soluzione. L’occupazione delle ragazze nel lavoro domestico avviene sempre nel rispetto dei diritti umani e della “Legge della Lavoratrice Domestica” – Legge 27986, riportata nel contratto.

Questa linea di pensiero è condivisa anche da La Casa de Panchita. Blanca, durante il nostro colloquio affermò senza troppi giri di parole:

in realtà noi pensiamo che non dovrebbero lavorare ma è un dato di fatto che lavorano e mentre lavorano dobbiamo cercare di proteggerli. Non si può ignorare questa situazione no? Non si può nemmeno dire loro di smettere di lavorare se addirittura è il bambino a non volerlo. Perché il bambino può anche voler lavorare no? Allora bisogna vedere in che modo possiamo essergli di supporto.

Il loro intervento si rivolge sempre a bambine e ragazze che lavorano in ambito domestico, ma in un contesto diverso poiché per la maggior parte lo fanno a servizio dei propri parenti, come per esempio zie, nonne o sorelle maggiori, oppure dando un aiuto consistente nella propria casa.

Mentre le bambine erano occupate a realizzare una delle attività previste il giorno della mia visita, chiacchieravo con loro sulla scuola, la famiglia; io chiedevo a loro e giustamente loro chiedevano a me. Mi raccontarono della loro giornata, che andavano a scuola la mattina, pranzavano a casa e nel pomeriggio facevano i compiti, giocavano, ascoltavano musica. A questo punto non riuscivo a capire

80 in che senso queste bambine fossero considerate lavoratrici domestiche. Come anche la responsabile mi spiegava nel corso della nostra chiacchierata, molto spesso né le bambine né la famiglia vedono questi tipi di “aiuto” come lavoro:

la maggioranza delle ragazze che stanno lavorando nei quartieri della periferia, che lavorano nello stesso quartiere [dove vivono] lo fanno cama afuera […] e molti genitori non vedono che le loro figlie piccoline svolgono lavoro infantile domestico. Nemmeno le bambine…i datori di lavoro nemmeno. Cioè, parte del lavoro è far sì che loro stesse riconoscano che fanno un lavoro70.

Allora affrontando la questione in modo un po’ più diretto chiesi “qual è la cosa che meno ti piace fare a casa?” e le risposte che diedero le ragazze includevano attività che prima non avevano menzionato affatto: “badare al mio fratellino”, “badare a mio nipote”, “perché piangono sempre…fanno un gran casino”, il che indicava che si tratta di bambini spesso molto piccoli che vengono completamente affidati a queste ragazzine mentre le mamme o le sorelle maggiori-cognate sono al lavoro. Questo è un tipo di attività molto stressante per loro, per l’enorme responsabilità e anche pericolosità che comporta ed è solitamente il primo incarico che viene assegnato alle bambine all’interno della famiglia. Un’altra cosa che le ragazze fanno spesso è occuparsi della cucina. Ad alcune piace, sono brave con le pentole e la mamma si complimenta con loro perché lo fanno bene, ad altre piace un po’ meno. Iniziarono a dare versioni diverse sulle ricette che preparavano a casa e discutevano animatamente perché giustamente la propria era quella giusta. Marianna raccontò orgogliosa che lei era anche in grado di fare la pasta e quando le chiesi se era lei ad occuparsi della spesa rispose di no, “la mamma fa la spesa e decide le ricette e io cucino, perché lei deve badare al mio nipotino […] ho imparato da sola a cucinare, nessuno me l’ha insegnato” e Sally commentò puntigliosamente: “molte volte si impara guardano quello che fa la mamma”. Vanessa, una delle promotrici, una ragazza giovane, appena ventenne anche lei ex-tid (trabajadora infantil doméstica71) mi spiegò meglio la loro situazione: “fortunatamente tutte le ragazze che ci sono qui vanno a scuola ma lavorano a casa loro o per qualche vicino o parente, come la madrina o i fratelli maggiori”. Questo sottrae tempo ai compiti e allo studio, provocando molti casi di ritardo scolastico.

Stabilire quali siano i lavori da combattere e quali invece possano essere accettati, come abbiamo visto nel capitolo precedente (1.3), è una questione complessa, ma ancora di più lo è delineare le sfumature di ciò che debba essere considerato “lavoro” o semplice aiuto nell’ambito familiare. Blanca, la responsabile di La Casa de Panchita, è convinta che la questione del lavoro infantile vada oltre l’importanza che esso può assumere per l’economia domestica, può essere analizzato sotto

70 Commento riportato nel diario di campo. 71 Lavoratrice infantile domestica

81 questo punto di vista quando si tratti di un adolescente “che guadagnando almeno 300 s./ può pagarsi gli studi”, contribuendo in maniera rilevante, mentre il lavoro dei bambini al massimo “può significare un piatto di cibo [risparmiato]”. Anche lei quindi, ne dà un significazione più sociale e culturale che prettamente economica:

più che altro può significare che quel bambino sta sotto la supervisione di un adulto, cioè i bambini non lavorano solo per denaro. Lavorano perché lo si considera formativo, perché addirittura i bambini dicono che nelle loro case si annoiano quando rimangono da soli, o perché un adulto li può tenere d’occhio…ci sono molte ragione, ma economicamente non è così significativo.

Il tentativo dell’associazione è quello di contenere una situazione che sebbene non desiderabile è tuttavia reale. Fornendo spazi diversi di socializzazione alle bambine, attraverso le attività che realizzano nella Casa e servizi di supporto e orientamento, le educatrici lavorano affinché prendano coscienza della situazione in cui si trovano, con l’obiettivo di responsabilizzare anche le loro famiglie. Per quanto riguarda le opinioni sul concetto di lavoro infantile, la situazione di convergenza o contrasto con le visioni perseguite ufficialmente dalle agenzie governative o dalle Convenzioni internazionali si fa più critica, rispetto a ciò che si verificava nei confronti della definizione di infanzia. Durante diverse chiacchierate con Vittoria (Centro Yananapanakusun), per esempio, diventò oggetto di critica il fatto che alcune associazioni considerassero attività lavorative aiutare i propri genitori nelle loro attività commerciali o collaborare con le faccende domestiche. Lei operava perciò una distinzione tra attività realizzate per conto terzi e dietro un compenso stabilito, oppure attività realizzate autonomamente ma che prevedevano comunque un ingresso monetario, e attività svolte all’interno del contesto familiare come segno di partecipazione e appartenenza effettiva ad esso. Lei chiariva sempre che anche in quest’ultimo caso, nel momento in cui il carico di responsabilità assegnato al bambino o alla bambina va ad interferire con altre attività come socializzare e giocare con altri bambini, andare a scuola o dedicare tempo allo studio, si entra nell’ambito dello sfruttamento e della violazione dei loro diritti. In un certo senso, la stessa indeterminazione che si verifica a livello ufficiale nel tentativo di distinguere tra work e labour (1.3.1), si ritrova in termini un po’ diversi anche a livello di ONG e movimenti.

I diversi programmi e le attività che propongono le varie organizzazioni, di fronte all’impossibilità concreta di modificare certe situazioni socio-economiche dalla sera alla mattina, cercano almeno di contenere gli aspetti più pericolosi per bambini, bambine e adolescenti, il mancato rispetto dei loro diritti, le situazioni di violenza, di sfruttamento e di esclusione sociale.

82