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Il lavoro come socializzazione e la capacità di marcare un’impronta nella propria

Capitolo 3 Le voci dei bambini, le voci dell’infanzia

3.4 Essere lavoratrice domestica del Centro Yanapanakusun a Cusco

3.4.4 Il lavoro come socializzazione e la capacità di marcare un’impronta nella propria

Un altro aspetto che vorrei considerare riguarda i percorsi di vita che Serena e Camila hanno intrapreso prima di arrivare al Centro Yanapanakusun. Essi, pur essendo diversi tra loro, possiedono degli elementi in comune che caratterizzano il loro itinerario lavorativo e le loro, più o meno libere, scelte abitative. Per fare questo mi avvarrò delle analisi compiute da due studiose sui bambini- adolescenti che hanno svolto le loro ricerche in Perù, precisamente a Lima e Ayacucho e che, con le dovute distinzioni dei casi, si prestano molto bene per fornire un inquadramento generale del contesto sociale e così comprendere meglio le vicende delle mie interlocutrici.

La sociologa Invernizzi ha realizzato la sua ricerca110 tra ragazzi e ragazze che lavorano nelle strade di Lima e ha analizzato le loro attività come agenti di socializzazione. Definendo “socializzazione” quel processo sia di interiorizzazione che di individuazione degli standard e dei ruoli sociali, ma anche di costruzione della propria identità, necessari per vivere in un determinato gruppo, l’autrice ritiene che il lavoro dei ragazzi possa essere considerato come parte integrante della pletora di interazioni che caratterizzano tale processo, piuttosto che essere in conflitto con esso (2003). Il lavoro avrebbe cioè la funzione di far acquisire alle ragazze e ai ragazzi nuove capacità, di imparare il valore del lavoro e della solidarietà familiare. Tale visione, secondo il suo punto di vista, deve essere considerata complementare a quella più diffusa che considera il lavoro infantile esclusivamente dal un punto di vista delle motivazioni economiche (1997, 1998). In questo modo, sostiene l’autrice, quelle attività che le ragazze e i ragazzi continuano a svolgere nonostante siano poco remunerative – e che perciò si definiscono marginali – possono essere comprese meglio se considerate per la loro valenza socializzante o in quanto rispondono ai bisogni dei ragazzi (per esempio il gioco, le relazioni, l’apprendistato).

Seguendo il loro proprio punto di vista, la tipologia di lavoro che svolgono e il modo in cui queste attività li coinvolgono nel tempo, Invernizzi analizza il lavoro in strada dei bambini e degli adolescenti nei termini di “carriera”. Questa nozione racchiude in sé sia l’evoluzione delle percezioni di sé sia l’idea sul contesto che li circonda; questa evoluzione ha luogo durante il processo di socializzazione attraverso il lavoro. Un bambino che è nella fase iniziale della sua attività lavorativa di strada (ma penso che possa essere esteso anche alle attività svolte in un contesto diverso, come nel nostro caso il lavoro domestico) non ha la stessa prospettiva nei confronti di tale attività di un altro ragazzo che, nella medesima attività, possiede più esperienza. Questo aspetto, secondo l’autrice non deve essere collegato esclusivamente all’età del bambino, quanto piuttosto alla sua identità, agli

110 Ricerca che definisce di tipo etnografico, condotta tra il 1993 e il 1997, attraverso osservazione partecipante e

131 strumenti in suo possesso e alle proprie motivazioni. È a tutti questi aspetti che si lega la “carriera”, il percorso lavorativo di un bambino, che Invernizzi divide in cinque fasi: introduzione al lavoro, lavoro di sussistenza, lavoro come gioco, lavoro come identità e vie d’uscita dal lavoro di strada (2003).

La sua analisi si concentra in maniera specifica sul lavoro svolto dai ragazzi nelle strade, tuttavia, ripensando alle narrazione di Camila e Serena sui loro percorsi di lavoro, ho trovato che alcune di queste fasi si prestassero per comprenderle, senza troppe forzature. Anticipo già che l’unica fase che non verrà presa in considerazione sarà la terza, cioè quella del gioco, semplicemente perché le mie interlocutrici non hanno mai parlato o inteso il loro lavoro, o situazioni ad esso legate, con questi termini.

Seguendo l’ordine cronologico l’introduzione al lavoro, nel caso delle due ragazze, è avvenuta secondo la modalità che Invernizzi afferma essere la più ricorrente: attraverso un ragazzo che ha una precedente esperienza nel settore o attraverso un adulto che spesso è un familiare.

Camila mi raccontò che a causa della precaria situazione economica della sua famiglia, in seguito all’abbandono del padre, sin da piccola accompagnava e aiutava il fratello maggiore a pulire le macchine in strada, perché sua madre lavorava “mattina, pomeriggio e sera e non sapevo con chi rimanere”. Successivamente quando

Avrò avuto circa cinque o quattro anni, […] mi dice, mi raccontano; mio fratello dice che vendevo dolciumi. Si sono dei preparati di uova che aggiungi vaniglia, zucchero…si sbatte e quello si vende. Allora vendevo quello […] era come una mini impresa che distribuiva, contrattavano un sacco di bambini e distribuiva quello nelle date in cui c’era…per esempio a Calca la data più importante è Natale e agosto, in agosto si vendono tantissimo, allora […] mio fratello mi ha messo in quello. Anche lui lavorava così, allora come lui era più grande di me cominciò a lavorare lì e mi tirò dentro. Certo, come io ero più piccola mi dava meno, allora quello vendevo.

La situazione di Serena è diversa, mi raccontò di essere stata sin da subito avviata al lavoro domestico, dopo il suo arrivo a Cusco, con gli zii, all’età di sette anni. Nel suo caso la figura centrale è lo zio; sebbene è chiaro che lui non aveva precedente esperienze in questo settore che è prevalentemente riservato alla sfera femminile, è lui che prende la decisione, contravvenendo a quelli che erano stati gli accordi presi inizialmente con la famiglia di origine:

Mi ha portato da casa mia e mi ha detto che sarei stata con lui, che mi avrebbe fatto studiare lui [sottolineando con la voce lui, il fatto che lo zio si era assunto la responsabilità] ma dopo una settimana mi ha mandato da una signora a lavorare…non so, mi ha detto che era sua mamma e tutto. Allora in quel caso io, io sono andata normale. La signora era buona, ma le sue figlie erano cattive.

132 La seconda fase individuata, spesso parallela alla prima, è quella del lavoro di sussistenza, dove gli sforzi compiuti sono destinati all’immediata sopravvivenza e la visione che prevale è quella meramente utilitaristica. Spesso, questa è la condizione di chi si è ritrovato da un giorno all’altro a dover lavorare a causa di una improvvisa emergenza in famiglia. Questa situazione, già accennata da Camila mentre mi raccontava di quando aveva iniziato a lavorare, fu ulteriormente confermata dal passaggio successivo nella sua narrazione. Diventata più grande, aveva ormai sette o otto anni circa, iniziò ad aiutare nei mercati “perché sempre mancava qualcosa”, il lavoro della madre, che a volte si recava persino in campagna a lavorare i campi, bastava solo per pagare l’affitto e le bollette di casa. Il suo lavoro, anche se lei lo chiama solo contributo, era “per ottenere qualcosa di cibo”, per rispondere quindi ad un bisogno primario urgente.

La situazione di Serena è simile, ma allo stesso tempo diversa. Lei è già fuori dal contesto familiare, e quando si rompe la relazione con quella che le era stata presentata come la madre dello zio, questo decide di rispedirla a casa. Dietro il suo rifiuto, il padre decise di portarla dalla madrina: «anche se io non sapevo che fosse la mia madrina, ma lui così mi ha detto è la tua madrina [e lì lavoravo] per me. Mi sono messa in una juguería111, mi disse “così ti mantieni, perché io non ti posso mantenere”». Vivere dalla madrina le garantisce sì un posto dove stare, ma la donna non si fa carico del suo mantenimento; per questo motivo si vede costretta ad impegnarsi ancora in un’attività lavorativa che questa volta si rivelerà di fondamentale importanza per lei.

Già in questa seconda esperienza di lavoro, sebbene improntata alla sussistenza, si intravedono i caratteri che Invernizzi identifica più propriamente con la quarta fase, quella del lavoro come identità, in cui si cerca attraverso di esso un riconoscimento positivo di sé e l’accrescimento delle proprie competenze. Serena affermò fieramente che è andata avanti così, in quella situazione, tre o forse sei mesi, “in quel piano di lavorare e andare alla mia scuola”. Quei soldi dunque non servono solo per sopravvivere, ma anche per consentire alla ragazza di proseguire i suoi studi. Anche Camila, a un certo punto del suo percorso va a vivere da un parente, una zia, nella convinzione che, dopo una poco felice esperienza presso una famiglia affidataria, ed essendo la “sua” famiglia avrebbe ricevuto un trattamento molto migliore. Ma anche per lei, la fiducia riposta nella famiglia viene disattesa e racconta la sua delusione quando le chiese di essere iscritta a scuola:

Allora io le chiesi che mi immatricolasse alla scuola notturna perché come di giorno dovevo aiutarla così, non potevo. Allora non ha voluto immatricolarmi, allora sono andata lo stesso per conto mio. Quello sì, io non mi sono mai persa la scuola […] mi sono immatricolata da sola. Facevo collanine, sono delle collanine

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di ceramica e cose così e […] era come una mini impresa che distribuisce […] Allora da bambina io avevo lavorato con mia mamma in quello allora già mi conoscevano. Ho ricominciato a lavorare in quello. Ed ecco, mi davano…ogni giorno guadagnavo, a volte ogni settimina guadagnavo 20 S./ allora li mettevo da parte e con quello mi sono immatricolata.

Camila riesce a mettere da parte i soldi, grazie al piccolo introito quotidiano che le frutta questa attività, e ad immatricolarsi alla scuola serale. Per raggiungere questo obiettivo riattiva un contatto che aveva stabilito precedentemente, quando lavorava con la madre, gestendo così le capacità acquisite e le relazioni intrecciate durante altre esperienze.

Anche il lavoro domestico, con le sicurezze e il riconoscimento che le ragazze acquisiscono in quanto lavoratrici nel momento in cui cominciano a lavorare attraverso il Centro Yanapanakusun, può essere inserito in questa fase. Ora che si sentono tutelate da un contratto che sancisce anche l’obbligo per il datore di lavoro di lasciare loro il tempo libero necessario per andare a scuola e per studiare, si sentono anche più decise nel far rispettare i loro diritti.

Nel suo articolo sul lavoro domestico Blagbrough avverte sull’azione di erosione che esso può compiere sull’autostima delle giovani lavoratrici. Quando vengono intervistate sui loro piani per il futuro, continua l’autore, “sono incapaci di considerare che potrebbero fare qualcos’altro piuttosto che continuare la loro vita nel servizio domestico” (2009: 88). Ma per tutte e tre le ragazze con le quali ho avuto modo di parlare in maniera più approfondita, così come anche per le altre, con cui spesso si parlava del più e del meno quando le incontravo al hogar, non è così. Il lavoro domestico non rappresenta una “condanna a vita”; loro hanno piani più o meno concreti da realizzare per il loro futuro, come proseguire gli studi universitari o addirittura emigrare lontano. Esso viene visto sì come un elemento fondamentale perché è ciò che garantisce l’ingresso economico, permette di mettere da parte i soldi per realizzare i propri progetti, ma non rappresenta per loro il punto d’arrivo delle loro carriere lavorative. In questo senso sono introiettate nella quinta ed ultima delle fasi individuate da Invernizzi, che quella della via d’uscita dal lavoro, “di strada” nel caso della tematica della sua ricerca, “domestico” nel nostro, perché è questo il filo rosso che collega le vite di Camila, Serena e anche Lorena.

Vorrei proseguire analizzando un aspetto che è stato brevemente anticipato nell’excursus delle “carriere” di Camila e Serena, cioè quello dei loro spostamenti, i cambiamenti di residenza e il ruolo che le ragazze hanno avuto, in maniera più o meno diretta, nel determinarli.

All’inizio pensavo che le ragazze che trovavano accoglienza nel Centro Yanapanakusun fossero state affidate all’istituzione a causa di situazioni familiari più o meno vulnerabili. Invece, dai racconti di Lorena, Camila e Serena emerse una situazione ben più complessa. Sicuramente in tutti e tre i casi, e anche in quelli delle altre ragazze del hogar, vi sono a monte situazioni di abbandono familiare,

134 frequentemente da parte del padre, che in molti casi viene identificato dalle ragazze stesse come una persona che beve, che è violenta o che ha nei loro confronti un atteggiamento machista, un termine che descrive molto bene il peso del potere patriarcale all’interno della famiglia112:

[A] mio papà non interessa perché è machista, perché tutte le donne dice che non serviano a niente, quello dice […] e dopo che beve ci offende. […] Mi dà collera, mi infastidisce che mi dica così ed…è per non discutere con lui…mia mamma sempre quando arrivo si mette a piangere, mi dice “rimani qualche giorno in più”. Ma per mio papà dico no (Serena).

Anche Camila, sebbene sia orfana di madre e il padre li abbia abbandonati quando lei era ancora piccola, mantiene rapporti con la sorella maggiore che vive con la loro sorella più piccola. Mi disse anche di non avere più relazioni con il resto della famiglia, ma in un secondo momento parlò di alcune promesse, poi disattese, che le avevano fatto il fratello e il padre.

Perché Camila è all’hogar mentre, come dimostra il caso di sua sorella più piccola, avrebbe altri familiari che possono prendersi cura di lei? Anche le vicende di Serena che prima è andata a vivere dallo zio e poi dalla madrina sono difficili da comprendere secondo i parametri che la legislazione dovrebbe stabilire per le ri-collocazioni familiari e l’affidamento dei minori. La descrizione di un’infanzia costruita, mobile e non esclusivamente controllata dagli adulti, che l’antropologa Leinaweaver usa per analizzare il suo caso di studio (2007b), si rivela particolarmente utile per chiarire questi aspetti. Rifacendosi alla nozione di child circulation113 (utilizzata precedentemente da Fonseca 1986), l’autrice sostiene che, nel contesto peruviano, è pratica comune che i bambini siano ricollocati dai loro legittimi tutori (i genitori), o che decidano essi stessi di spostarsi, solitamente nella casa di una persona di famiglia, un vicino o un membro della comunità. In questo modo si allevia il carico della famiglia di origine (spesso molto numerosa) incrementando quello della famiglia ospitante e rafforzando così le relazioni tra gli adulti coinvolti. Anche lo stato e gli attori civili possono avere un ruolo all’interno di questi spostamenti inter-residenziali, per esempio attraverso la sottrazione della custodia del bambino dal parente ritenuto inappropriato. Nel caso di Camila, dopo un po’ di tempo che viva con la zia, mi raccontò che gli insegnanti la denunciarono:

Si sono accorti che in quella casa mi stava andando male, che mia zia mi stava maltrattando […] perché a volte andavo con…mi picchiava per quello che non facevo no? E allora denunciarono, hanno fatto una denuncia e mi hanno fatto entrare al hogar.

112 Come si è detto in modo più ampio nel capitolo 2.

135 Così Camila viene affidata a un istituto, si tratta in realtà già del secondo episodio nella sua giovane vita, dato che dal primo se ne era andata proprio per vivere con la zia, dopo una precedente esperienza fallimentare di affido familiare.

Gli spostamenti sono complessi e gli adulti spesso hanno un ruolo centrale, avviando e incitando le ricollocazioni dei bambini in nuove case, afferma Leinaweaver. Nonostante questo, i bambini riescono in qualche modo ad articolare le loro preferenze. Come nel caso di Serena, che ogni qualvolta fallisce una convivenza (prima con la madre dello zio, poi con la sua madrina) riesce sempre a fare in modo di convincere gli adulti, nel primo caso lo zio, nel secondo il padre, a non farla ritornare a Paruro, la sua città di provenienza.

Successivamente anche Serena viene inserita in un istituto, forse attraverso la mediazione di una signora che ha adottato la sua sorellina appena nata, con la quale lei entra in contatto e che preoccupata per la situazione in cui si trova – viveva ancora con la madrina – la porta a un hogar di suore. Camila era entrata sempre in un hogar di suore dopo l’episodio accennato sopra. Ad un certo punto, entrambe, che però non si trovano nello stesso istituto, hanno valutato la loro situazione abitativa e l’hanno trovata carente, lasciava a desiderare, e perciò agiscono:

Prima mi portò a un hogar di suore, là sotto. Sono stata lì ma non mi sono abituata perché era molto chiuso, [a scuola] avevo così…feste, attività da fare in gruppo…non mi lasciavano uscire. Mi dicevano “no, prima devi portare la firma del direttore, del professore”. […] E dopo mesi che stavo lì, veniva a visitarmi, allora dopo mesi le ho detto no, non riesco ad abituarmi. È molto chiuso, era carino ma anche molto rigoroso. In più come erano suore dovevi pregare ad ogni momento […] Prima di guardare la tele…a orare il rosario, non so cosa…un po’ per rispetto dovevo farlo tutto perché stavo sotto il tetto loro no? […] e dopo ho detto “no, non posso stare” y mi hanno portato a questo hogar (Serena).

Io sono del tribunale e quando voglio qualcosa per esempio come trasferirmi di hogar, con l’assistente sociale vado no? al tribunale e si fa un tramite per il trasferimento […] Io studiavo in un’altra scuola, nell’altro hogar. Allora io e una mia amica volevamo studiare in una scuola da lunedì a venerdì […] nell’altro hogar era solo di sabato e domenica […] Allora hanno trovato questo Yanapanakusun [NA: la

scuola del Centro] e ci hanno cambiato lì, tutte le ragazze, un gruppo di dodici – tredici andavamo. Allora

in mezzo a quello io avevo delle amiche d’infanzia, di quando ero ancora bambina e mi parlavano di qui, erano state qui, mi parlavano […] e lì è stato dove ho preso coraggio per cambiare hogar. [Qui] È più libero perché là non potevi uscire mai, tutti i giorni vedi le stesse persone, tutti i giorni…se oggi hai mangiato alle 9 domani continui mangiando alle 9, cioè…non cambia nulla […] persino il cibo! I lunedì tocca una cosa, il martedì un’altra…tutto è controllato (Camila).

136 Questa loro scelta di chiedere il trasferimento presso una struttura diversa rispetto a quella dove si trovavano, come nel caso della ragazza114 esaminato da Leinaweaver nell’ articolo “Choosing to

move”, indica un uso consapevole del dominio istituzionale associato allo stato peruviano, alle

associazioni non governative ma anche che sono attivamente coinvolte nelle visioni globali della protezione e dell’assistenza infantile. Le ragazze, nella costrizione della struttura istituto, che giudicano troppo rigida per le loro necessità, non pretendono di poter gestire autonomamente la propria vita, ma consapevoli dei limiti loro imposti dall’essere minorenni e in condizione di vulnerabilità chiedono e ottengono il trasferimento presso un altro hogar, in questo caso il

Yanapanakusun. Sanno della sua esistenza e quali sono le possibilità che esso può offrire loro per

aiutarle a migliorare le proprie condizioni di vita. Seguendo il ragionamento Leinaweaver, Camila e Serena sono state in grado di implementare le modalità esistenti della child circulation raggiungendo in questo modo un significativo controllo sul corso che ha seguito la loro esistenza. La loro azione o

agency, che coinvolge anche quegli adulti che hanno un potere sui loro spostamenti, è alquanto

esplicita nelle narrazioni che fanno le due ragazze: sono stata lì ma non sono riuscita ad abituarmi…

dopo ho detto “no, non posso stare” e mi hanno portato qui… quando voglio qualcosa come per esempio trasferirmi di “hogar”, vado con l’assistente sociale no? in tribunale e si fanno le pratiche… allora è stato lì che ho avuto il coraggio di cambiarmi di “hogar”.

Un breve accenno alla particolarità dell’espressione usata da Serena, “riuscire ad abituarmi”. In spagnolo si traduce col verbo riflessivo acostumbrarse e indica un impegno, un azione nel tentativo di abituarsi a qualcosa che prima era diverso, o che comunque non corrisponde alle proprie aspettative, come per esempio la sistemazione, le regole che si devono rispettare, ma anche il tipo di