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Capitolo 2 Movimenti e associazioni: da e per l’infanzia

2.3 L’infanzia dei diritti e delle ONG

2.3.1 Sguardo all’infanzia: tra partecipazione e protezione

Avendo continuamente a che fare con certi aspetti che il diritto vorrebbe – e in parte ci è riuscito – internazionalizzare, tutte le organizzazioni che lavorano con questa particolare popolazione si incontrano e scontrano inevitabilmente con la Convenzione sui Diritti dei Bambini per diversi motivi, in primis per la definizione di infanzia. Comprendere la definizione che ne dava ognuna di esse non è stato semplice in tutti i casi, se escludiamo quella il MANTHOC che è stata ampiamente esplicitata in diverse pubblicazioni. Per quanto riguarda le altre associazioni ho riscontrato che abbordare direttamente la questione durante le interviste non era il modo più adatto, perché portava a una veloce e superficiale conferma di ciò che afferma la Convenzione. Ho cercato, quindi, di dedurla dalle relazioni tra adulti e bambini al loro interno e dal modo in cui sono organizzate le attività.

La posizione più elaborata da un punto di vista teorico è quella del MANTHOC, che si caratterizza per una concezione dell’infanzia come protagonista. Ciò che il movimento sostiene è la necessità di valorizzare le capacità dei bambini come soggetti attivi della società, il loro essere in grado di esprimere un proprio punto di vista sulla loro condizione, che deve essere preso in considerazione per riuscire così a migliorare gli aspetti del vivere civile che li riguardano (Cussiánovich 1997b). Questo, che viene definito “paradigma del protagonismo integrale”, procede dalla valorizzazione dei bambini lavoratori con l’intenzione di rivolgersi alla più ampia valorizzazione dell’infanzia in generale. In tal senso, il MANTHOC non si rivolge esclusivamente all’infanzia lavoratrice, ma a partire dell’esperienza con essa opera per migliorare le condizioni anche dei bambini non-lavoratori nell’affermazione e difesa dei loro diritti.

Concretamente come si realizza il protagonismo all’interno del Movimento? Le spiegazioni di Ever sono state un po’ confuse, o per lo meno molto generali, e non ho riscontrato in esse indicazioni pratiche della partecipazione attiva dei bambini nel Movimento. Confermando la descrizione di “movimento dal basso” che dà anche van den Berge (ivi), egli spiega:

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attualmente il movimento conta più o meno sei delegati nazionali che rappresentano tutto il movimento, sono bambini e adolescenti di età tra i 13 e i 15 anni, uno di 16 più due delegati che noi avevamo designato per appoggiare la coordinazione nazionale.

I ragazzi, stanno alla descrizione che ne dà Chauca Sabroso (1988), collaboratrice del Movimento, dovrebbero essere coinvolti in tutti i livelli organizzativi: i gruppi di base si riuniscono con cadenza settimanale, preferibilmente i sabati e le domeniche, e sono accompagnati da un collaboratore (giovane o adulto) dello stesso quartiere. Ogni gruppo sceglie un delegato, alcuni anche un tesoriere e un segretario e si sceglie un nome che preferisce. A loro volta, i delegati di ogni gruppo formano la coordinazione regionale, che sceglie un collaboratore affinché li accompagni per un periodo che va dai due ai tre anni, a seconda di come stabilito da ogni regione. Annualmente si svolgono degli incontri a livello nazionale dove i bambini raccontano e spiegano le attività che svolgono nelle varie località e riflettono sulla situazione dei bambini lavoratori nel paese. È questo il punto di partenza per proporre azioni comuni a livello nazionale che poi andranno a confluire in un Piano di Lavoro. Come ho ripetuto più volte lungo queste pagine, non ho avuto modo di accedere di persona a incontri o attività organizzate dai bambini in compagnia dei collaboratori; questo procedimento mi è stato più o meno spiegato dal mio interlocutore, ma attraverso le sue parole non si riesce a comprendere bene quali sono i temi concreti oggetto di discussione e di azione all’interno dei gruppi:

Noi come MANTHOC, una volta all’anno abbiamo le nostre assemblee nazionali dove si convocano tutte le regioni, affinché possano venire tutti i rappresentanti scelti in ogni comunità, in ogni regione e allora lì si stabiliscono i vari punti d’agenda e uno di quelli è l’elaborazione del piano di lavoro. E chi ha l’incarico di portarlo a termine o realizzarlo è la coordinazione nazionale delegati, con l’accompagnamento dei suoi delegati. E così si vanno articolando in tutte le regioni.

Come accennavo prima, in questo caso è visibile come l’elaborazione teorica sia stata ben interiorizzata, ma a mio avviso manca un riscontro nelle pratiche della realtà, non si riesce bene a capire quali siano i “vari punti dell’agenda” e quale il “piano di lavoro”, che tipo di attività concrete realizzino i ragazzi per dare visibilità alle loro idee; non si riesce cioè a vedere le pratiche di partecipazione. Forse questo è legato al fatto che non sono riuscita, mio malgrado, a parlare direttamente con i bambini e ragazzi facenti parte del Movimento, in quell’occasione per questioni di tempistica. Durante la mia permanenza a Cusco ho cercato invano di contattare il gruppo locale, ma inspiegabilmente l’unica volta che sono riuscita a parlare con qualcuno mi hanno detto di non avere idea cosa fosse il MANTHOC. A quel punto era “scomparso” anche il mio interlocutore di Lima, che non ha più risposto alle mail e telefonate.

68 L’idea di infanzia enfatizzata dal Movimento, poggiandosi sul principio del protagonismo mette in discussione anche la relazione, prettamente gerarchica tra bambini e adulti. Gli adulti partecipano al Movimento come collaboratori e mediatori per risolvere questioni complesse e spesso di natura burocratica-organizzativa. Gli adulti dunque accompagnano, ma è il volere dei bambini-adolescenti quello che deve sempre prevalere, come riporta anche Cremaschi, vicepresidente del MLAL61: “sono i bambini che decidono e dibattono e criticano, anche il coordinatore se rischia di cadere nella facile trappola del verticalismo, del dirigismo” (1988: 77, traduzione mia). Le stesse riunioni mensili dei collaboratori necessitano della presenza dei bambini delegati, che valutano i piani di lavoro degli adulti. Questa pratica di orizzontalità nelle relazioni tra adulti e ragazzi è favorita dal passaggio di consegne che si ha con l’uscita dall’infanzia-adolescenza da parte dei membri. Essendo stati formati come membri a far ascoltare la propria voce, quelli che decidono di rimanere nell’orbita del Movimento sono in possesso degli strumenti per lavorare come collaboratori al fianco dei nuovi giovani delegati senza rischiare di imporre la propria presenza. Come mi ha spiegato Ever, anche lui è stato un ex delegato quando era ragazzo e ora collabora con loro, per far sì che in futuro siano altri giovani ad assumere tale responsabilità

Il concetto di infanzia proprio del MANTHOC si identifica in parte con quello della Convenzione sui diritti dell’Infanzia dell’ONU, per quanto riguarda la questione della partecipazione, anche se ne prende le distanze affermando che il riconoscimento che ne viene fatto è puramente di facciata, poiché tale diritto viene vincolato - secondo quanto affermato all’articolo 12 della suddetta Convenzione - al grado di discernimento del fanciullo, alla sua età e al suo grado di maturità, ancora una volta caratteristiche tutt’altro che facilmente valutabili e ancor meno secondo caratteri universali. Perciò il MANTHOC, pur riconoscendo il notevole passo avanti compiuto attraverso il riconoscimento di tale diritto, ne denuncia la persistente matrice protezionista e vittimizzante.

Un’altra idea molto forte dei bambini e ragazzi come soggetti principali del proprio sviluppo e soggetti in grado di produrre cambiamenti nel contesto sociale, come bambino/a e non solamente come futuro adulto, è quella sostenuta da Qosqo Maki e dalla sua filosofia della co-gestione, come viene definita nel sito dell’associazione e anche dalla sua fondatrice Isabelle Baufumé (1999). La co- gestione è il principio che sta alla base dell’organizzazione del Dormitorio, con l’obiettivo di garantire la partecipazione di tutti, educatori e utenti. Forse non è stato oggetto di un’elaborazione teorica così efficace come quella verificatasi per il protagonismo del MANTHOC, ed è circoscritto alla gestione delle attività quotidiane dell’associazione e ai rapporti tra responsabili e ospiti, più che rivolgersi ai

69 rapporti adulti-infanzia in generale. Esso si può avvertire in maniera concreta specialmente nello svolgimento delle assemblee, dove tutto viene negoziato.

L’assemblea si svolge ogni sabato alle 20 fino alle 21-21.30 circa. Persino la decisione di quando svolgere l’assemblea è una decisione mutua e fino a un mese prima della mia vista a Qosqo Maki era il martedì sera, dalle 21 alle 22-23. Ora è il sabato e l’orario è stato anticipato, “perché tutti stanno studiando e altrimenti non riescono ad arrivare in tempo all’assemblea”. Gabriela, una coordinatrice, mi invitò ad assistere a una serata di riunione, che si rivelò un’occasione realmente interessante per poter vedere i ragazzi in azione. Il Dormitorio si nasconde dietro un antico portone di legno, una piccola insegna sul muro destro. Ho spunto la porta che era appena socchiusa e mi sono ritrovata sul grande cortile interno, in penombra. Era molto meno accogliente di come lo ricordavo di giorno, anche se vuoto. La struttura dell’edifico è tipicamente coloniale, cortile centrale e stanze che sorgono tutto intorno, al piano terra e al primo piano, con un ballatoio e un balcone in legno, che si dispiegano lungo il perimetro del cortile. Quando sono arrivata all’associazione avevo dieci minuti di ritardo, ma non c’era molto movimento, il custode mi accompagnò verso una stanza illuminata, erano già tutti appostati nella sala riunioni. Seduti in semi-cerchio sulle sedie di plastica semi-bianche, tutti infagottati negli strati di maglioni e magliette, ma con i pantaloncini da calcio. La prima sensazione che mi colse fu la delusione, in quello stanzone con due tavoli molto lunghi e con pile di sedie di plastica incassate una sopra l’altra eravamo in totale otto persone, tra cui quello che capisco essere l’educatore di turno, Dany, sotto il suo chullo colorato e con in mano il registro; due ragazzi in un angolo, che a giudicare da un veloce sguardo non erano utenti del Dormitorio; un uomo altissimo che non sembra nemmeno essere peruviano e tre ragazzi, uno più grande che sembra avere 15 o 16 anni, seduto alla destra di Dany, un altro più piccolo, 13 anni circa, alla sua sinistra e un altro, sempre più o meno della stessa età, che dorme su una sedia di fronte a lui.

Mentre si attende l’arrivo di qualche ritardatario, l’educatore propone ai ragazzi di pensare agli argomenti che vogliono affrontare per stabilire una sorta di ordine del giorno, che lui segna sul registro. I ragazzi sanno che tutti hanno il diritto di parola, che lo possono chiedere alzando la mano e che è il coordinatore di turno dell’assemblea, uno degli ospiti a rotazione, che accorda il permesso di parlare. Ma sembra che lo dimentichino spesso e si deve richiamare l’attenzione diverse volte. Nel frattempo si aggiungono al gruppo altri due ragazzi; qualcuno si lamenta perché gli altri sono in ritardo, Dany controlla nel verbale della precedente assemblea in cui si era deciso di iniziare alle 20, annuncia chi sarà il coordinatore della serata e si inizia. A quel punto le porte sono “chiuse” e ai ritardatari non sarà permesso prendere parte alla riunione. Prima di iniziare il dibattitto i “nuovi” siamo chiamati a presentarci: iniziano i due ragazzi seduti all’angolo esterno, sono studenti di scienze della comunicazione venuti per proporre ai ragazzi dei laboratori e vogliono sapere quali sono gli

70 argomenti e le attività che interessano loro e anche gli orari in cui sarebbe meglio per loro organizzarli. Durante l’assemblea anche l’educatore deve alzare la mano per parlare e noto che si rivolge ai ragazzi chiamandoli “compañeros”, ancora una volta per sottolineare che nel contesto “assemblea” tutti hanno lo stesso diritto di parola:

nell’assemblea capita una cosa molto interessante, come c’è un esigenza reciproca, diciamo che uno dei ragazzi dice qualcosa a un altro, e il gruppo non lo vuole ascoltare, allora l’educatore difende la parola [e il ragazzo] si sente protetto in qualche modo, per dare la sua opinione, per essere ascoltato, anche se dice la scemenza più grande di questo mondo, no? Tu, come educatore non hai nessun diritto di smettere di ascoltarlo…ha diritto a dire la sciocchezza che vuole, o la cosa più importante, la riflessione più filosofica…perché lo fanno! Lo dicono, e allora significa avere fiducia in loro […]

Allo stesso tempo, si richiede anche che tutti partecipino attivamente alle discussioni, non si va all’assemblea solo per fare presenza e infatti ad un certo punto l’attenzione è rivolta verso Coche, che dorme rannicchiato sulla sedia: “se non ti interessa realmente non venire più e vai a dormire!”; un altro dei ragazzi invece è sveglio ma ha le cuffie alle orecchie, dalle quale nonostante la confusione delle chiacchiere si riesce a percepire la musica che sta ascoltando, “più serietà compañero” lo richiama all’ordine il coordinatore dell’assemblea, “non è rispettoso nei confronti di chi sta parlando né degli altri compañeros”.

Arriva il turno della mia presentazione, dico il mio nome, spiego un po’ il lavoro che sto facendo e ringrazio per avermi permesso di assistere all’assemblea anche se non faccio parte dell’Associazione. L’educatore e il coordinatore mi danno il benvenuto e lo fa anche un altro dei ragazzi, quello che poco prima era stato sgridato per le cuffiette, ma le sue parole non sono certamente gentili, deve aver detto qualcosa di volgare, perché alcuni ridono sotto i baffi e l’educatore e qualcun altro lo sgrida immediatamente. Sfortunatamente non sono riuscita a capire quello che mi ha detto e mi rimetto a sedere. I ragazzi in effetti parlano molto velocemente e utilizzano un linguaggio ricco di parole gergali e di espressioni idiomatiche tipiche dello spagnolo peruviano.

Così ha inizio l’assemblea vera e propria, dove si pianificano e si valutano tutte le attività portate a termine nel dormitorio, come chiarisce Gabriela durante il nostro precedente colloquio: “il ragazzo può dire non mi piace l’attitudine di tale educatore, perché mi ha detto questo, mi ha fatto

quello…non voglio che sia così. Cosa dice il gruppo? E si cambia. C’è questa possibilità”.

La diversità dei temi affrontati dall’ordine del giorno e la partecipazione di chi è coinvolto in prima persona nella vita del Dormitorio, gli utenti stessi, la rendono uno strumento insostituibile, con cui questi ultimi controllano e partecipano attivamente della trasformazioni del DIM e nel processo educativo, imparando anche a rafforzare le proprie capacità di comunicazione; anche per gli adulti

71 rappresenta un’occasione per imparare ad ascoltare e rispettare il punto di vista dei ragazzi come un elemento complementare alle proprie idee e in questo modo riescono a rivalutare ed adattare costantemente le strategie educative (ivi).

Una delle questioni che attirarono maggiormente la mia attenzione durante l’assemblea è stata l’assegnazione di punizioni a coloro che non si erano presentati alla riunione. Richieste con impeto dai partecipanti perché “noi abbiamo fatto tutto di fretta, anche se siamo stanchi, siamo arrivati di corsa per essere qui alle otto e non c’è nessuno”. Qualcuno inizia a fare delle proposte: “che lavino tutte le coperte, anche quelle che stanno nell’armadio”. L’educatore è d’accordo che gli assenti devano ricevere una sanzione, ma interviene a frenare gli animi. Allora insieme riflettono sul fatto che più che una punizione si debba trattare di una sanzione, perché i ragazzi che non si sono presentati all’assemblea in realtà non sono obbligati ad andare a “la chocita62”, tuttavia

quando decidono di farlo ci sono alcune norme da rispettare e loro in questo momento non si stanno preoccupando del dormitorio, vengono solo a dormire, per avere la colazione e farsi una doccia. Se non sono interessati se ne possono anche andare, ma che non vengano solo per ciò che conviene loro (Dany, trascrizione diario campo).

Quindi ci si accorda per la seguente soluzione: chi non prenderà parte alle assemblee dovrà occuparsi del lavaggio delle coperte di tutti gli ospiti e per un po’ di tempo non potrà avere accesso alla televisione né partecipare alle attività ricreative. Il tutto viene messo a verbale e si procede col prossimo punto in scaletta. La discussione affronta temi come il comportamento di alcuni ragazzi a scuola e il problema dei “pigri” che la mattina si alzano in ritardo e poi saltano la doccia e la colazione. Alla fine il coordinatore della seduta formula la frase di chiusura: “se non ci sono altre questioni, l’assemblea è terminata, potete andare…”, ma ancora prima che finisca di pronunciarla si sono tutti dileguati.

Per quanto riguarda invece le altre due associazioni, cercare di cogliere quale idea di infanzia si celasse dietro le loro pratiche è stato un po’ più complesso, di fronte alla mancanza di una elaborazione teorica che le sostenesse. Tuttavia sia il Centro Yanapanakusun che La Casa de

Panchita, sono quelle che a mio avviso possono rientrare nella definizione più canonica di ONG,

intesa come un’organizzazione di adulti che “lavorano per”, l’infanzia in questo caso; tuttavia entrambe si pongono in un particolare ambito della cooperazione, che lavora alla ricerca di un cambiamento sociale attraverso le persone stesse che risultano essere i destinatari delle loro attività.

72 L’impressione avuta osservando brevemente le attività svolte con le ragazze nella Casa de Panchita è che si tratti di un’associazione di appoggio. Le ragazze frequentano l’associazione la domenica, secondo uno schema di turni ben precisi perché sono in troppe e la Casa, che è effettivamente una vera casa, non riesce ad ospitarne molte, al massimo trentacinque per volta, per via degli spazi ridotti e delle leggi in merito alla sicurezza dei locali. A me in realtà non era sembrata così piccola. Quando sono arrivata le bambine erano impegnate nelle loro attività, divise in due stanze più piccole, dove c’erano tavoli, sedie e lavagne. Oltre l’ingresso, dove alcune signore chiacchieravano e guardavano la tv, c’era una grande stanza con un tavolo lungo e pesante, dove Blanca, una delle fondatrici e ora presidente del consiglio direttivo, mi fece accomodare mentre chiacchieravamo. La stanza aveva dei finestroni che davano su un corridoio esterno che la collegava ad una stanza separata dove c’era una cucina, è lì che si prepara il pranzo per tutti gli ospiti della domenica. In totale, mi spiega, attualmente stanno lavorando con 180 ragazze.

L’associazione si pone l’obiettivo di prevenire una situazione considerata negativa per l’infanzia, quella del lavoro, ma soprattutto attraverso le attività che le ragazze realizzano la domenica, “apportare qualcosa di concreto per le bambine”. L’idea che sottostà a questo tipo di azioni si ricollega quindi a quella precedentemente analizzata di un infanzia da proteggere, alla quale deve essere restituita una condizioni di “normalità” che le viene negata (cfr. 2.1). Questo si vede anche nelle relazioni tra le bambine e gli adulti dell’associazione, che sono per la maggior parte donne e vengono definite promotoras (promotrici) e cercano di rappresentare per le bambine modelli positivi e “sani” di relazioni con gli adulti, rispetto a quelle più complicate in famiglia e forse troppo superficiali a scuola. L’impressione, osservando le promotrici mentre assegnavano alle bambine i compiti o svolgevano insieme le attività, era comunque quella di un rapporto tra qualcuno che sta insegnando e qualcuno che sta imparando, ancora nel segno della verticalità dei rapporti. Alla fine della giornata alle bambine veniva distribuito un fogliettino con delle domande in merito alle attività svolte, alcune aperte in cui dovevano rispondere cosa avessero imparato quel giorno e altre affermazioni a cui assegnare una faccina più o meno felice per esprimere il proprio gradimento. Non so dire però quale possa essere il grado di attendibilità di questo tipo di riscontro perché mentre seguivo le bambine che completavano i loro foglietti, si notava come molte di loro non erano nemmeno in grado di comprendere quello che era richiesto o si vergognavano di scrivere, mentre altre si facevano suggerire