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Questioni geografiche: bambini dei paesi in via di sviluppo vs bambini dei paes

Capitolo 1 Organizzazioni Internazionali e discorsi ufficiali attorno al lavoro

1.3 Convenzioni e concezioni ufficiali sul lavoro infantile: ILO e UNICEF

1.3.3 Questioni geografiche: bambini dei paesi in via di sviluppo vs bambini dei paes

Un altro elemento che ha sùbito attirato la mia attenzione mentre leggevo la Convenzione 138 (sull’età minima) dell’ILO riguardanti il lavoro infantile che, a questo punto è stato detto e ridetto, promuove la sua totale abolizione, è stata l’eccezione che si fa nei confronti dei cosiddetti “paesi in via di sviluppo”. Al paragrafo 4 dell’articolo 2, si ammette la possibilità, per quegli stati membri “la cui economia e le cui istituzioni scolastiche non sono sufficientemente sviluppate” di spostare il limite a quattordici anni, invece che ai quindici stabiliti nel paragrafo prima. La stessa eccezione viene ammessa all’articolo 7 per i “lavori leggeri”, il cui limite può essere cambiato a dodici-quattordici

25 invece dei tredici-quindici. Sostanzialmente si abbassano di un anno. Quello che però non convince è che questa apparente comprensione della diversità di contesto, delle situazioni economiche e delle strutture sociali differenti rispetto a quelle di Ginevra (cioè il contesto europeo-occidentale) in cui tale Convenzione è stata prodotta, non ha dato seguito a una riflessione approfondita sulle cause che fanno sì che determinati paesi, nonostante siano spesso ricchi di materie prime e di una notevole quantità di manodopera, ricorrano all’impiego di minori (dato che è proprio nei “paesi in via di sviluppo” che gli indici di lavoro minorile sono più elevati 13).

La prima Convenzione in merito all’età minima risale al 1919 ed è la numero 514, ciò conferma l’intensificazione, dalla II metà dell’Ottocento in poi, delle battaglie per la salvaguardia dei bambini e della loro salute. Ma se il lavoro fa male ai bambini inglesi, francesi, europei e nord americani in generale, lo stesso non si può dire per i bambini delle colonie. Mentre erano sotto il controllo delle potenze occidentali, il lavoro infantile non faceva realmente parte dell’agenda politica (Lieten 2009), nonostante le Convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro fossero formalmente applicate anche in quei territori, con le dovute eccezioni. Questa prima Convenzione dopo aver stabilito una serie di principi regolanti l’ammissione dei ragazzi (già allora non prima dei quattordici anni) al lavoro in fabbrica, agli articoli 5 e 6 puntualizza che alcune disposizioni possono subire modificazioni nel caso del Giappone (ammessi anche a 12 anni purché abbiano assolto l’obbligo scolastico), o che addirittura nel caso dell’India, non devano essere applicate. Nel periodo coloniale il lavoro compiuto da parte dei bambini, che andava a contribuire all’economia familiare, era ritenuto un antidoto contro la povertà, sostiene Nieuwenhuys (1996). Forse, questa visione, prosegue l’autrice facendo riferimento ai lavori di Mead e di Whiting15, è stata in un certo senso favorita dagli antropologi che hanno descritto in maniera piuttosto romantica il lavoro dei bambini nelle colonie come una forma di socializzazione adatta al livello economico e sociale delle società preindustriali. D’altronde, come riporta lo stesso White (2009) alla fine del ‘800 circolava un manuale del Royal Anthropological Institute, il Notes and Queries in Anthropology, in cui si raccomandava agli ufficiali coloniali e agli antropologi di osservare e raccogliere dati circa l’età in cui i bambini erano tenuti a lavorare per il gruppo familiare o la comunità e se vi erano delle differenziazioni di genere in questo tipo di attività.

13 In testa alle classifiche si trova l’area Asia-Pacifico con 78 milioni di bambini lavoratori e l’Africa sub-Sahariana

dove essi rappresentano il 21% della totale forza lavoro.

14 Che per esteso si intitola Convention Fixing the Minimum Age for Admission of Children to Industrial Employment e

che entrerà in vigore il 13 giugno 1923. Consultabile al link:

http://www.ilo.org/dyn/normlex/en/f?p=1000:12100:0::NO::P12100_INSTRUMENT_ID,P12100_LANG_CODE:3121 50,en:NO (Ultimo accesso novembre 2013).

15 Rispettivamente di Mead M, Wolfenstein M, Childhood in contemporary Cultures (1955) e Withing B.B Six cultures:

26 Ad ogni modo questa visione che avvalla la partecipazione dei bambini e adolescenti alle attività del gruppo domestico, sia in casa che nelle attività economiche familiari, perché formative per il loro sviluppo è ancora presente all’interno dell’ILO16, ma si scontra con quella più forte per cui il lavoro infantile nei paesi in via di sviluppo deve essere soggetto alle medesime regole che in quelli più sviluppati: è soprattutto ad essi che si rivolgono i piani di azioni delle organizzazioni internazionali nel tentativo di renderlo un’attività illegittima. Questa impostazione porta a creare delle situazioni schizofreniche, in un certo senso, per cui Maria Rosa, che vedevo quasi ogni giorno, insieme alle atre ragazze del Hogar del Centro Yanapanakusun, impegnata durante la mattinata (nel pomeriggio andava a scuola) a preparare il pranzo per tutte coloro che vivevano lì, sbucciare kili di patate, sgranare montagne di pannocchie di mais e bollire pentoloni di riso – perché se c’era qualcosa che non mancava alle ragazze quella era l’appetito – compie un’attività che non è condannata, ma anzi, si riconosce il suo valore “formativo”. Maria Rosa, ad un certo punto, ha dovuto trovare un lavoro per ottenere qualche ingresso e potersi pagare la scuola e provvedere, per quanto possibile, alle spese quotidiane. Visto che, tutto sommato, le piace avere a che fare con pentole e padelle mentre non sopporta il piagnucolio continuo dei bambini, mi raccontava di aver optato per un lavoro come aiuto cuoco in un ristorante piuttosto che come domestica in una famiglia. Il suo lavoro al ristorante - racconta mentre continuava a tagliare verdure per la zuppa - consisteva prevalentemente nello sbucciare e tagliare cipolle, secchi di cipolle da tritare, per la preparazione del ceviche17, che, ammette, da allora le piace un po’ meno. Questo implica l’utilizzo di strumenti di lavoro, in questo caso coltelli, che sono considerati pericolosi, se li deve maneggiare una ragazza o ragazzo. Ma in cucina ci sono anche il gas e il fuoco, che sono indispensabile per cuocere gli alimenti; si tratta quindi di un ambiente potenzialmente pericoloso, non solo per i bambini, ma per chiunque (e infatti le statistiche anche in Italia confermano l’elevato numero di incidenti di cui si rimane vittime tra le mura domestiche). Stando alle raccomandazioni dell’ILO le situazioni sono molto diverse. Nel primo caso, quando ha a che fare con tutti questi strumenti nella cucina della sua casa, il suo lavoro è contemplato; nel secondo, cioè al ristorante, anche se tutelata da contratto che in caso di infortunio avrebbe dovuto garantirle un’assistenza, è illegittimo.

La situazione è ambigua: nell’accettare in determinati paesi un’età minima più bassa - anche se di un solo anno - per essere ammessi alle attività lavorative, da un lato si rimane incastrati nello stesso quadro concettuale del 1919 (per cui per essere bambini si deve rientrare in una determinata

16 “This includes activities such as helping their parents around the home, assisting in a family business or earning

pocket money outside school hours and during school holidays. These kinds of activities contribute to children’s development and to the welfare of their families; they provide them with skills and experience, and help to prepare them to be productive members of society during their adult life.” È riportato nella pagina web dell’ILO nel tentativo di rispondere a “What is child labour”. http://www.ilo.org/ipec/facts/lang--en/index.htm (ultimo accesso dicembre 2013).

27 definizione di infanzia, ma ad altri bambini, i più poveri, è concessa, ma solo per questioni economiche, un’infanzia in cui il lavoro è “più permesso”); dall’altro lato vi è un implicito riconoscimento di come, in certi casi, e ovviamente a determinate condizioni, il lavoro della porzione più giovane della popolazione possa avere un ruolo determinante, per lo meno dal punto di vista economico. Il vero “problema” del lavoro infantile, come ammette White (op. cit.) andando al nodo cruciale della questione, dovrebbe essere ridefinito:non ci si dovrebbe concentrare attorno al coinvolgimento dei bambini nel lavoro in quanto tale, ma sull’abuso perpetuato sulla capacità dei bambini di lavorare.