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Lavoro domestico: quando “mamma casetta” diventa più di un gioco da

Capitolo 3 Le voci dei bambini, le voci dell’infanzia

3.3 Lavoro domestico: quando “mamma casetta” diventa più di un gioco da

Oltre alla la questione dei diritti dell’infanzia, il binario parallelo che ha orientato la mia ricerca sul campo è stato il lavoro infantile. Perciò in questa parte vorrei affrontare più nello specifico il tema del lavoro domestico e dare un breve resoconto della mia esperienza tra le ragazze lavoratrici domestiche a Cusco, in particolare attraverso le interviste più in profondità che ho realizzato con tre di loro.

Il venerdì è una giornata particolare alla biblioteca del Centro Yanapanakusun diversamente dagli altri giorni il venerdì non si fanno i compiti ma si va tutti al parco a giocare. I bambini giocano con le altalene, gli scivoli, le corde per arrampicarsi e quando si stufano corrono dalla maestra che porta sempre corde e palloni. Di solito i maschi giocano a calcio, con le trottole, a fare a gara chi resiste più tempo senza cadere dalla calecita, una specie di altalena giratoria, mentre le ragazze fanno il gioco dell’elastico o saltano la corda intonando le stesse canzoni di quando ero piccola anch’io94 – “manzanita del Perú ¿cuántos años tienes tú?”. Poi si organizza un gioco tutti insieme “juguemos en

el bosque mientras el lobo no está…”. Si aggiungono anche gli altri bambini che stanno lì per i fatti

loro, il gioco è aperto a tutti, anche a fratelli, cugini e nipoti più piccoli che i più grandi spesso portano con sé in biblioteca, ovunque, perché i genitori magari lavorano tutto il giorno. Mi colpisce subito

116 Helena, che dice di avere otto anni e oggi acarrea, si tira dietro, la sorella più piccola e la nipotina. Sua sorella, mi racconta Helena, ha due anni e l’ho vista girovagare spesso per la biblioteca quella settimana; la maestra dice che praticamente è una studentessa in più, che viene dall’anno scorso. Sulla nipotina invece Helena non sa dirmi quanti anni abbia ma a guardarla non avrà più di un anno. Tutto questo la limita. Non appena si allontana per giocare assieme agli altri bambini, la nipotina, che siede sulla panchina con me e la maestra, inizia a piagnucolare. Helena abbandona il gioco e viene a sedersi con noi, la prende in braccio, la porta con se ovunque.

Così ripenso a quello che era successo il giorno prima in biblioteca. Giovedì Helena era venuta con la sorella e il cugino; stava giocando nella sala di fianco quando d’un tratto la vedo passare dove stavamo facendo i compiti e chiedere preoccupata alla maestra se li aveva visti. Esce, si affaccia alla strada che scende…niente. Li chiama ma non risponde nessuno e un altro bambino si aggrega alla ricerca. “Vado a vedere se sono a casa mia”, scende le scale e se ne va. Helena ha otto anni, non solo è in grado di badare a se stessa ma si occupa anche dei più piccoli della famiglia e questo condiziona in maniera evidente il modo in cui spende il suo tempo libero e anche la possibilità di disporre di esso. Quando giocare a “mamma casetta95” diventa più di un gioco.

Diversi sono gli studiosi che hanno dimostrato come sia attraverso il gioco e l’assegnazione di piccoli lavori da compiere che i bambini imparano progressivamente a far parte del gruppo sociale all’interno del quale sono nati, assimilando così le loro specificità culturali (LeVine 2009). Questo è ancora più vero se si pensa a come, sin da piccoli, attraverso i giochi si imparano i ruoli di genere, perciò le bambine, generalmente nell’infanzia europeo-americana, giocano con bambole e pentoline in miniatura e i bambini con attrezzi da lavoro di plastica, macchine e, paradossalmente, armi giocattolo. Riflettendo sui momenti di gioco che ho condiviso con le bambine dell’hogar o che ho osservato tra loro, non credo che sia casuale il fatto di non aver mai sentito nessuna di loro chiedere di giocare a “mamma casetta”, cioè quel tipo di giochi di ruolo in cui una bambina prende le veci della mamma, le altre del papà o delle figlie e si mettono in atto scenette di vita familiare. Loro queste cose le fanno sul serio al hogar, dove tutte collaborano, anche solo portando fuori il sacchetto della spazzatura, alle attività e al mantenimento della pulizia delle strutture. Questo diventa ancora più evidente nel caso delle ragazze più grandi che ora quelle attività le svolgono per lavoro, in case altrui.

Quello del lavoro domestico è tra le questione più controverse legate al lavoro infantile. Da un lato perché fa parte di quelle attività che si svolgono nella sfera dell’household, il contesto familiare, per cui è contemplato come un’attività formativa e di primaria importanza per la riproduzione familiare (Abebe, Kjørholt 2009) e in questo senso non è visto come lavoro in sé (né dalle ragazze o dai ragazzi

117 che lo compiono né dalle loro famiglie, né dagli altri adulti che li impiegano) e quindi non è retribuito. A tal proposito risulta significativa l’affermazione di Camila, una delle ragazze che ho intervistato. Quando mi raccontava delle volte in cui aiutava la madre, che lavorava al mercato, specificò che quello che faceva lei era “solo aiutare, così…lavorare lavorare no”; mentre qualche minuto dopo, quando raccontava della sua esperienza di collocazione familiare, dopo essere rimasta orfana di madre, puntualizzò: “no, [lì] lavoravo praticamente. Perché aiutare è diverso”. In questo modo, Camila individuava una sostanziale differenza tra il lavoro svolto per aiutare il proprio nucleo familiare (rappresentato dalla madre e dai fratelli) da un lato, e le faccende domestiche di cui si occupava nella famiglia affidataria, riconosciute come lavoro, dall’altro.

Ma dove si stabilisce il limite tra lavoro e aiuto? Nemmeno l’ILO fornisce una definizione univoca, perché, come si legge dalla pagina web dedicata a tale questione96, per lavoro infantile domestico si intende il lavoro che i bambini realizzano nel settore domestico nella casa di terzi o datori di lavoro e che può essere caratterizzato da forme di lavoro permissibili e non. In un secondo punto si affronta la questione sollevata da Camila durante il nostro colloquio: le faccende domestiche eseguite dai bambini nelle proprie case rientrano nella definizione di “lavoro infantile domestico”? La risposta è tutt’altro che chiara. Nonostante le attività che svolgono i bambini in entrambi i casi possono essere molto simili, se sono svolte nella propria casa “rappresentano una parte integrale della vita familiare e della crescita, quindi qualcosa di positivo” e poiché “manca l’elemento dell’impiego”97 non si dovrebbero definire tali attività come “lavoro domestico”. Seguendo il ragionamento dell’ILO, solo qualora il carico di lavoro domestico cui sono sottoposti i bambini siano tali da gravare sulla loro salute o interferire con la frequenza scolastica esso potrebbe essere equiparato al child labour, con tutto quello che comporta questa particolare accezione in lingua inglese98. Un ulteriore aspetto contraddittorio in questa faccenda è che non si riesce a capire che cosa sia questo “elemento

dell’impiego”, poiché nella definizione iniziale di “lavoro infantile domestico” non vi è alcun accenno

all’aspetto remunerativo; così facendo lo si relega alla sfera delle attività produttive familiari non remunerate e lo si esclude dall’ambito economico (ILO 2013 – Base document).

Il lavoro domestico si caratterizza inoltre per una forte distinzione di genere, per cui quelle maggiormente coinvolte in questo tipo di attività sono ragazze che lavorano per la propria famiglia o da qualche parente o vicino di casa, come per esempio nel caso delle bambine che prendono parte alle attività de La Casa de Panchita, presentate nel precedente capitolo. Secondo Nieuwenhuys (1996) questa particolare caratteristica fa sì che esso sia poco considerato, anche dal punto di vista

96 http://www.ilo.org/ipec/areas/Childdomesticlabour/lang--en/index.htm (ultimo accesso dicembre 2013) 97 Corsivo mio, nella versione in inglese si legge testualmente “the employment element is missing” 98 Vedi quanto esposto in 1.3.1 Questioni linguistiche: l’importanza delle parole

118 legislativo perché l’ideologia di genere – che in questo caso, trattandosi di ragazze, si lega anche all’ideologia dell’età – avvalla la persistenza di un sistema iniquo in cui le donne restano escluse dalle attività più importanti (sia economiche che politiche) e il loro status è perciò considerato inferiore rispetto a quello degli uomini. Questo porta l’autrice ad affermare che “la valutazione del lavoro delle ragazze è così bassa che esso è stato scoperto dalle antropologhe femministe99 che hanno scelto consapevolmente di includere il lavoro domestico e la cura dei bambini nella loro definizione di lavoro” (1996: 243). Poiché si tratta proprio di minori e per di più donne, secondo il paradigma della protezione dell’infanzia, le ragazze lavoratrici dovrebbero essere i principali soggetti destinatari degli interventi degli stati e delle associazioni che si occupano di queste tematiche. Tuttavia, il palese ritardo della legislazione internazionale in materia non fa che confermare l’affermazione di Nieuwenhuys: nonostante il riconosciuto interesse dimostrato nei confronti dello sradicamento del lavoro infantile e la lotta per un lavoro dignitoso, solo nel 2011 l’ILO adotta la Convenzione 189100 denominata, appunto, “Convenzione sulle lavoratrici e i lavoratori domestici”. Nel caso specifico dei minori essa non fa che indicare come i limiti di età quelli stabiliti dalle precedenti Convenzione 138 e 182, esaminate qui nel primo capitolo.

Uno degli aspetti più ambigui di questo tipo di attività è rappresentato dal fatto che si svolge entro le mura domestiche, quindi in un contesto di isolamento dalla vita pubblica ed è perciò molto difficile anche da indagare, perché non si lascia penetrare da esterni (o estranei) all’ambito familiare. Per le ragazze che lavorano cama adentro, cioè che vivono nella casa dei loro datori di lavoro, la situazione è ancora più complessa. Allontanate spesso dalla famiglia di origine, affidate a persone di fiducia dietro promesse, false, di un futuro migliore in città, di poter proseguire con gli studi, si ritrovano da sole, rinchiuse nelle abitazioni, senza contatti con l’esterno, in mancanza di punti di riferimento all’infuori della famiglia che le ospita e ai quali rivolgersi in caso di necessità. In questo caso gli stessi datori di lavoro spesso non considerano che ciò che fanno le ragazze sia vero e proprio lavoro e non le considerano lavoratrici: pensano di fare un gesto caritatevole nei confronti delle ragazze, di essere quasi i loro salvatori, mi spiegò Josefina101 la prima volta che parlai con lei del lavoro domestico infantile. Allo stesso tempo però, il fatto che vivano con la famiglia non le rende membri effettivi di essa. Come sostiene Blagbrough, coordinatore di Anti-Slavery International, i datori di lavoro si sentono i genitori sostitutivi delle ragazze (in quanto spesso sono affidate loro proprio dai familiari) e quindi anche legittimati a intervenire nel caso in cui si ritenga che le regole e le gerarchie familiari siano state disattese da parte loro (2009). Questa situazione pone le ragazze in una condizione di

99 Nella versione inglese “feminist anthropologists”

100 Consultabile al link http://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/---europe/---ro-geneva/---

ilorome/documents/normativeinstrument/wcms_157904.pdf (ultimo accesso dicembre 2013).

119 subordinazione ulteriore nei confronti del datore di lavoro, adulto, dove può trovare spazio la perpetuazione di violenze fisiche, psicologiche, sessuali.