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Capitolo 2 Movimenti e associazioni: da e per l’infanzia

2.1 L’infanzia, un concetto in costruzione

La tendenza più diffusa attorno all’infanzia è quella di considerarla come un fatto naturale. Stando alla definizione del vocabolario Treccani essa è la prima età dell’uomo, che in passato, in senso generico, si faceva giungere sino all’acquisizione dell’uso completo della parola, e oggi comunemente si fa partire dalla fine del periodo neonatale e si divide in prima infanzia (primi due anni), seconda infanzia (dai 2 ai 6 anni), terza infanzia (dai 6 anni all’inizio dello sviluppo puberale). Un’altra definizione autorevole è quella fornita nella Convenzione sui Diritti dell’Infanzia dell’Unicef, che all’art. 1 recita: “Ai sensi della presente Convenzione si intende per fanciullo ogni essere umano avente un’età inferiore a diciott’anni, salvo se abbia raggiunto prima la maturità in virtù della legislazione applicabile”. In entrambi questi casi essa viene trattata come un fenomeno unitario che indica una categoria necessaria e universale (Jenks, 2004), tuttavia nel primo essa appare legata a questioni dello sviluppo fisico, che sono tutt’altro che definibili in maniera chiara per tutti i bambini, mentre nel caso della Convenzione il limite netto che separa l’infanzia dall’età adulta è l’età, cioè il raggiungimento della “maggiore età” che in molti stati è fissata ai 18 anni, ma è comunque

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riconosciuta una differenziazione a seconda delle disposizioni legislative nazionali che per certi ambiti prevedono limiti più bassi o più elevati (16 o 21 anni).

Eppure gli antropologi si sono interessati all’infanzia sin dalla nascita dell’antropologia, apportando numerosi esempi che dimostrano come l’infanzia non sia qualcosa di univoco. Inizialmente, forse non rappresentava l’aspetto principale dei loro interessi, tuttavia dagli anni Venti essa diventerà una costante negli studi sulle società non-occidentali. Diversi sono gli esempi di studiosi illustri che attraverso i loro resoconti etnografici hanno descritto modalità alternative di crescere i bambini; da Boas e le sue allieve Mead - la prima a specializzarsi sui temi dell’infanzia e dell’adolescenza - e Benedict, passando per Malinowski, il padre della ricerca sul campo, che affronta le questioni dello sviluppo infantile, legato soprattutto alla teoria freudiana del complesso di Edipo, nel testo Sesso e

repressione sessuale tra i selvaggi (1927) e che descrive, la vita infantile alle Trobriand e la relazione

padre-figlio in La vita sessuale dei selvaggi nella Melanesia nord-occidentale (1929). Senza tralasciare il contributo di Fortes, la cui monografia Social and Psychological Aspects of Education

in Taleland (1938) descrive dettagliatamente i contesti e i modelli di apprendimento e conoscenza dei

bambini tra i Tallensi del Ghana, e che Robert LeVine definisce “un classico dell’antropologia dell’infanzia” (LeVine 2009). Possiamo dire che l’infanzia è stata una tematica sempre presente nella trattazione antropologica, sebbene in maniera piuttosto frammentata e discontinua (si pensi al corposo filone di studi su classi di età e riti di passaggio) fino ad una “focalizzazione” più sistematica ad opera del particolarismo storico, con gli studi condotti all’interno della corrente “cultura e personalità”. Tuttavia con il tramonto di tale corrente, anche la presenza infantile nella produzione accademica assunse nuovamente un ruolo secondario (Szulc 2006), che le parole di Scheper-Hughes e Sargent descrivono, con una punta di ironia, in maniera decisamente efficace:

by and large, children appear in ethnographic texts the way cattle make their appearance in Evans- Pritchard’s classic, The Nuer – as forming an essential backdrop to everyday life, but mute and unable to teach us anything significant about society and culture (1998: 13-14).

Come accade spesso, le riflessioni antropologiche fanno un po’ fatica ad uscire dagli ambienti accademici e diffondersi in modo ampio nella società e nemmeno il dialogo interdisciplinare sembra essere stato sempre incentivato, come dimostra il fatto che solo molto più tardi la riflessione attorno alle infanzie interesserà altre scienze sociali. Un contributo importante nel tentativo di rendere evidente il carattere sociale e costruito dell’infanzia è venuto dalla storia, che Szulc collega in particolare all’ École des Annales e al nuovo interesse per la storia “dal basso” che si fece sempre più pressante a partire dalla seconda metà del Novecento. Uno degli autori principali è stato Philippe Ariès, che con il suo studio sull’infanzia medievale l’ha da principio definita come un prodotto

51 (quindi non una condizione naturale) della modernità occidentale (quindi ancor una volta, non un aspetto con caratteristiche universali). Nel medioevo, secondo Ariès i bambini non facevano parte di un mondo a sé, staccato da quello adulto, con caratteristiche e modalità organizzative peculiari, erano piuttosto coinvolti in una “esistenza collettiva”, dove insieme ad adulti e anziani occupavano gli stessi spazi e, insieme, davano luogo allo svolgimento della vita produttiva e riproduttiva (Ariès 1994). Nei secoli successivi, con la progressiva affermazione e diffusione delle istituzioni scolastiche e di una nuova affettività, privata, la famiglia si trasforma, per cui si rivolgono maggiori attenzioni ai bambini e il buon genitore diventa proprio colui che si occupa dell’educazione e della formazione morale e spirituale dei suoi figli. In questo modo si viene a creare uno specifico “arco di tempo in cui il bambino doveva sottostare a un percorso di formazione che lo preparasse alla vita” (Jourdan, 2010: 39), che viene organizzato seguendo ritmi e attività distinte da quelle adulte. A questa nuova fase della vita umana vengono assegnate anche caratteristiche proprie, quali l’innocenza e la vulnerabilità, e necessita quindi di protezione. La svolta decisiva per l’affermazione dell’infanzia come categoria formale si ha nel XIX secolo, in seguito alla confluenza di una serie di trasformazioni che si danno a livello sociale, molte delle quali originatesi già in epoche precedenti, ma che in questo particolare periodo storico di sovra-produttività e positivismo vanno a condizionare anche l’esistenza della fascia infantile della popolazione. Per Cunninghan, è nell’introduzione dell’obbligo scolastico che risiede il fattore più significativo per la trasformazione dell’infanzia (in Jourdan 2010), infatti esso fu spesso utilizzato come escamotage per limitare sempre più, fino alla proibizione, l’accesso dei bambini al mercato del lavoro. Altre trasformazioni importanti hanno riguardato il gruppo familiare, passato dalla famiglia allargata a quella nucleare e una crescente preoccupazione per l’igiene, l’alimentazione e la salute dei più piccoli, nel tentativo di combattere gli elevati tassi di mortalità infantile, che porterà all’istituzionalizzazione della pediatria e della puericultura successivamente (Szulc 2006). Ma non solo, gli ambienti delle scuole e delle case stesse vengono progressivamente adattati alle esigenze dell’infanzia e alcune stanze sono riservate al gioco e allo studio, si sviluppa un’industria legata al mondo infantile, che ora ha una moda propria, e anche l’editoria si adatta ai suoi gusti e alle sue necessità educative, per non parlare del mondo dei giocattoli. Queste nuove materialità e aspetti simbolici legati all’infanzia sono in questo periodo riservate a una particolare sezione dell’infanzia, quella delle famiglie borghesi cittadine, ma indicano senz’altro un cambiamento di sguardo nei confronti dei bambini che, dall’educazione (che diventerà nella seconda metà del secolo, progressivamente gratuita e di migliore qualità) si estenderanno successivamente anche ai bambini delle altre classi sociali (cfr. Becchi 1996).

L’infanzia è diventata così oggetto di particolari programmi di cura, di educazione e di assistenza che le hanno assegnato uno status specifico nella società; in un certo senso è uscita dall’ambito esclusivo

52 della famiglia ed è diventata “un affare di stato”. Si configura così un primo paradigma di infanzia che la identifica romanticamente come momento felice e spensierato, in cui il bambino deve dedicarsi allo studio e al gioco. Tuttavia nel corso dell’Ottocento (e oltre) l’industria e le altre attività produttive impiegano ancora elevate quantità di manovalanza infantile che lavorano quasi quanto gli adulti e in ambienti insalubri. Trattandosi di bambini e quindi, secondo il paradigma di cui sopra, indifesi in questi casi spetta allo Stato prendersene cura, visto che le loro famiglie non sono interessate o in grado di farlo. Si creano così nurseries, ospedali, istituti per bambini poveri e orfanotrofi per quelli abbandonati; come segnala puntualmente Jourdan (2010), si afferma in questo periodo una nuova etica che recita “saving the child” e tra fine Ottocento e inizi Novecento nascono anche le prime organizzazioni filantropiche/umanitarie per la tutela dell’infanzia: una delle prime per creazione e per la rilevanza del suo operato, anche a livello internazionale, è proprio e non casualmente Save the

Children (1919).

Nella definizione di “childhood” rientrano dunque tutti i bambini che, godendo della protezione, sia da parte della famiglia o dalle istituzioni educative e dallo Stato, avrebbero preso parte al processo di socializzazione. Poi c’era il rovescio della medaglia, i bambini considerati pericolosi, che avevano come dimora e luogo di inculturazione la strada, coloro che vivevano di piccoli furti, elemosina e che si sottraevano ai tentativi dello stato di normalizzarli tra i banchi di scuola o tra le mura di un orfanotrofio. Questa fascia di bambini faceva comunque parte della riflessione politica del tempo, soprattutto a livello giuridico. C’era già all’epoca un fiorente dibattito per un adeguamento del regime delle pene da commissionare ai bambini e giovani che commettevano azioni criminose, che dovevano avere la funzione di rieducarli e non solo punirli; tuttavia si produce una marginalizzazione di questi bambini, che vengono esclusi dal paradigma childhood e più che destinatari di protezione diventano oggetto di controllo sociale, entrando a far parte di un paradigma specifico, quello dei “minors” (Szulc, Cohn, 2012). La tendenza che prevale, anche in questo caso è di considerarle come vittime innocenti di adulti senza scrupolo, quindi bisognosi di protezione e cure per ristabilire la loro mancante condizione infantile. Questa visione dell’infanzia per certi versi è presente ancora oggi ed è fonte di non poche controversie quando la ricerca sociale, il diritto e l’azione umanitaria si trovano di fronte a particolari situazioni come quella dei bambini lavoratori e, ancora di più, nei casi dei bambini soldato (cfr. Rosen 2007).

Un ulteriore trasformazione del concetto d’infanzia si è verificato nel corso del XX secolo, quando diventa soggetto di diritto, prima con la Dichiarazione dei Diritti del Bambino (1959) e in maniera ancora più decisa con la Convenzione dell’Onu (1989). L’applicazione della filosofia dei diritti umani al mondo dell’infanzia ha avuto dei risvolti tutt’altro che trascurabili: ha provveduto alla diffusione di una visione “universale” del bambino, senza però fare opportune riflessioni attorno a dove e in

53 quale epoca era stato elaborato tale diritto infantile, saltando a piè pari tutta la riflessione storico- socio-antropologica che gli scienziati sociali hanno realizzato fin qui, e stabilendo come assoluto principio guida per l’organizzazione e gestione di tutto ciò che concerne l’infanzia, la cosiddetta posizione “straight eighteen” che ingloba l’infanzia nell’intervallo che va dai zero ai diciotto anni

(Rosen 2007, vedi anche Jourdan 2010). Rosen in particolare, parla di “politics of age” nel riferirsi all’ utilizzo delle categorie di età da parte dei diversi attori (internazionali, regionali e locali) nel proporre particolari posizioni politiche ed ideologiche legate, appunto, all’infanzia.

Comprensibilmente ciò è dovuto alle necessità di applicabilità del diritto, ma non sempre si rivela essere la soluzione migliore. Questa netta distinzione crea non poche difficoltà e tensioni all’interno delle organizzazioni che lavorano con l’infanzia, perché nel momento in cui i loro beneficiari compiono il diciottesimo anno di età sono costretti a escluderli dai loro programmi. Un giorno mentre ero a Cusco, ebbi a riflettere sulla situazione di una ragazza del Centro Yanapanakusun che era rimasta incinta. Come si deve comportare in quel caso l’organizzazione? La ragazza è ormai da considerarsi adulta (solo) perché è rimasta incinta? Sarà una ragazza madre solo per qualche mese fino al compimento dei diciott’anni? Lei era una delle più grandi, lavorava come domestica in una casa privata e qualche volta tornava al Centro, specialmente durante il suo giorno di riposo, per salutare le responsabili e trascorrere la giornata con le altre ragazze; aveva diciassette anni al momento dei fatti, per cui il suo percorso di avviava progressivamente verso l’indipendenza economica. Ero nell’ufficio della responsabile a chiacchierare con lei ed altre due ragazze, quando una di loro chiese chiarimenti sulla situazione. La responsabile rispose che si erano date delle situazioni spiacevoli, commenti e dicerie tra ragazze del Centro e della scuola riguardo la gravidanza di Roberta, per cui avevano affrontato apertamente la questione la domenica precedente, quando prima di dare inizio al pranzo tutte, piccole e grandi insieme, discutono dei problemi avuti nel corso della settimana. Angelica puntualizzò la posizione che avrebbe assunto l’organizzazione quando disse che nonostante Roberta avesse deciso di essere abbastanza adulta e prendere determinate decisioni (avere cioè un rapporto sessuale), adesso si sarebbe assunta la responsabilità delle sue azioni. Né le ragazze del Centro, né le responsabili avrebbero cresciuto il suo bambino, ma nessuno le avrebbe voltato le spalle: “se un giorno non ha da mangiare bussa alla nostra porta e noi l’aiuteremo, ma non ci occuperemo del bebè. Quello lo farà lei e lei vedrà come comportarsi col padre”. Le cose andarono diversamente e qualche settimana dopo Angelica affrontò ancora e per l’ultima volta il discorso con le ragazze; Roberta si era sentita male e portandola in ospedale avevano scoperto che si trattava di una falsa gravidanza, cioè di un disturbo di natura psicosomatica. Rimane però il fatto che stabilire un limite di età, determinato dallo sviluppo fisico è una scelta tutt’altro che univoca e neutrale. Come ammette apertamente Jourdan, se “definire un diciassettenne ‘bambino’ può sembrare (ancora) strano

54 per noi occidentali, figuriamoci per un abitante del Malawi dove l’aspettativa di vita è di trentotto anni” (2011:100).

Le ambiguità insite nel concetto straight eighteen e in generale nella definizione di infanzia promossa dalla Convenzione36 non hanno nemmeno risparmiato il mondo antropologico: nel 2006, il Consiglio Direttivo della Società di Antropologia Medica (SMA), come riportato da Bluebond-Langner e Korbin

approved a policy statement urging “immediate ratification of the UN Convention on the Rights of the

Child” (SMA 2006). This resolution proceeded despite recognition that the UNCRC has at its core a

universalized view of “the child” based on Western assumption about children’s best interests and a single standard of age (18 and under) (2007:244).

Anche se una tale visione universalizzata è antitetica al pensiero propriamente antropologico, la logica della protezione dei bambini, in questo caso, ha prevalso.

La Convenzione delle Nazioni Unite si basa su tre principi: protezione, dalla violenza, dall’abbandono, dagli abusi e dallo sfruttamento; provvisione, che riguarda i diritti alla sicurezza sociale, l’accesso alle cure mediche, all’educazione, a un nome e una nazionalità, e partecipazione, che implica il diritto ad esprimere la propria opinione, ad avere accesso all’informazione, ad associarsi. Mentre i primi due stavano già alla base di ogni tipo di azione nei confronti dell’infanzia, la partecipazione viene per la prima volta riconosciuta in modo ufficiale all’esperienza dell’infanzia. Infine, ma non meno importante, per quanto riguarda il paradigma della protezione, la Convenzione opera una sorta di upgrade, se vogliamo, inaugurando la stagione della “protezione integrale” del bambino, per cui attraverso essa ci si impegna ad intervenire non soltanto nel caso specifico di violazione o di crisi, ma in modo complementare nelle cause, nei fattori di rischio dei diversi fenomeni che comportano un danno per l’infanzia.

Nonostante la creazione della Convenzione e la sua successiva ratifica da quasi tutti i paesi (ancora oggi mancano all’appello Stati Uniti e Somalia) rappresenti un importante passo avanti nel riconoscimento dell’infanzia, è mia opinione che la Convenzione non debba essere interpretata come l’atto conclusivo di un’epoca. Essa ha senz’altro dei limiti sui quali si può e si deve ancora lavorare. Le riflessioni attorno all’infanzia devono continuare, perché sono indispensabili per ogni tentativo di ricerca sociale che abbia a che fare con i bambini e ciò che li riguarda. L’antropologia non può venire

36 Vorrei inoltre far notare che nella versione italiana della Convenzione, così come approvata nel 1991, si traduce la

parola inglese child con quella italiana fanciullo. In una ristampa del 2008, a margine, UNICEF Italia sottolinea che sarebbe preferibile rendere la traduzione attraverso tre termini “bambino, ragazzo e adolescente”. Data la scarsa praticità dell’utilizzo di tale espressione, nel presente elaborato, quando non specificato diversamente, l’utilizzo del termine bambino si deve intendere riferito ai tre distinti gruppi di età.

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meno nel suo compito di combattere l’omogeneizzazione e l’essenzializzazione dell’infanzia, che la sottrae alla storia e al contesto socio-economico e politico nel quale è inserita; come indica anche LeVine:

The ethnography of childhood, then is based on the premise – constantly reexamined in empirical research – that the conditions and shape of childhood tend to vary in central tendency from one population to another, are sensitive to population-specific contexts, and are not comprehensible without detailed knowledge of the socially and culturally organized contexts that give them meaning (2007: 247).

Szulc e Cohn (2012), che hanno svolto le loro ricerche sull’infanzia in America Latina, segnalano che nonostante molti paesi della regione abbiano condiviso un medesimo passato coloniale e in essi siano presenti diverse popolazioni native (le quali però si differenziano tra di loro per caratteristiche e percorsi), vi è una diversità nelle storie nazionali che ogni paese ha conosciuto nel post- indipendenza e anche altri aspetti che indubbiamente condizionano le vite dei bambini (ineguaglianze sociali ed economiche, composizione etnica e linguistica del paese, processi migratori, ecc). Per questa ragione penso che per comprendere meglio gli aspetti legati all’operato dei movimenti e delle ONG locali (paragrafo 3) e le percezioni dei bambini stessi riguardo i loro diritti (capitolo 3) si riveli utile comprendere quali sono i temi che hanno accompagnato le riflessioni sull’infanzia lungo le distinte fasi storiche in Perù.