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Capitolo 1 Organizzazioni Internazionali e discorsi ufficiali attorno al lavoro

1.4 In opposizioni alle visioni ufficiali: la valorizzazione critica

Ammettere che determinati bambini e ragazzi possano lavorare per contribuire alle spese familiari o che questo sia l’unico modo che consente loro di poter studiare, significa, come ho affermato anteriormente, riconoscere il mero valore economico del lavoro che continua comunque a rappresentare una situazione eccezionale, determinata dalla precarietà della condizione socio- economica di quei bambini e ragazzi che si trovano costretti a farvi ricorso. L’ideale sarebbe che si dedicassero ad altro. Questa è la posizione che Schibotto ha definito “realismo selettivo” (1997). L’ILO e la maggior parte delle organizzazioni internazionali e delle ONG che si interessano della tematica lavoro infantile prendono come assunto di partenza che esso sia determinato da fattori economici e che in un certo senso sia una risposta alla povertà. Se così fosse, i bambini lavoratori dovrebbero esistere solo nei paesi in via di sviluppo, eppure c’è un gran numero di bambini e adolescenti che svolgono delle attività, in un contesto più o meno formale, dall’aiuto sporadico a qualche familiare o vicino nelle attività domestiche dietro un compenso volontario a lavori come camerieri, commessi negli esercizi pubblici dietro compenso pattuito, quindi attività regolate, per le quali esiste un accordo almeno verbale tra datore di lavoro e lavoratore. Sicuramente i ragazzi coinvolti in queste attività non lo fanno per contribuire alla spesa alimentare del nucleo familiare e molto probabilmente nemmeno per comprare penne e quaderni.

Vi è un terzo approccio al lavoro infantile, oltre a i due presentati in precedenza e che si colloca in una posizione di rottura nei loro confronti; si tratta della “valorizzazione critica” ed è quello sostenuto dai movimenti di bambini lavoratori organizzati presenti in America Latina, Asia e Africa. Schibotto l’ha definita come una “postura dialettica” in quanto essa accetta la problematicità della tematica e si confronta, da un lato con l’elemento della coercizione, sfruttamento e violenza che spesso si cela dietro il lavoro infantile, non lo nega, e dall’altro riconosce il potere del lavoro come reazione individuale o collettiva contro la situazione di povertà ed esclusione e soprattutto valorizza “i bambini lavoratori in quanto potenziali attori di una critica ai meccanismi dell’ingiustizia, attori della loro emergenza storica e il loro diritto a essere riconosciuti come gruppo sociale e non soltanto come sommatoria di disperazioni individuali.” (1997: 94, traduzione mia).

30 La tendenza sembra essere quella di considerare il lavoro compiuto da parte dei bambini o ragazzi come attività esclusivamente negative, invece di pensarlo come un continuum di forme e relazioni diverse in cui si va dalla subordinazione totale ad una relativa autonomia, a situazioni di sfruttamento e di rispetto e attenzione nei loro confronti. White parla a tal proposito di bambini e ragazzi per i quali, trovandosi in situazioni particolarmente difficili (conflitti, in condizione di profughi, estrema povertà), il lavoro rappresenta un modo di auto affermarsi, una prova del proprio valore e della capacità di essere riusciti a “ottenere un certo controllo sulla propria vita in quei contesti dove il mondo degli adulti non è riuscito a proteggerli” (2009:13). Secondo me, questo può ritenersi valido anche per tutti coloro che non devono lavorare solo per sopravvivere.

Ragazzi e bambini continuano, tuttavia, a essere solitamente visti come attori passivi, in balia di adulti che sfruttano questa loro incapacità, attribuita dalla minore età. Quello che spesso si tralascia è di considerarli come attori sociali, che anche quando sono sfruttati fanno parte della società e sono sottoposti a determinate condizioni di povertà e violenza strutturale (così come definita da Farmer 2003, in Quaranta 2006) proprio perché fanno parte di tale società. Ancor meno si pensa che possano essere in grado di agire attivamente, di intervenire sulle proprie esistenze e sulla società (Delgado 2004).

Quando invece si cerca di comprendere più da vicino il fenomeno del lavoro minorile e si spende un po’ di tempo per parlare direttamente con i ragazzi che lavorano si percepisce come le cose siano diverse. Nella piazza centrale di Cusco ci trovammo con un’amica a chiacchierare con un ragazzo che faceva il lustrascarpe e nelle sue parole non ritrovammo alcun tentativo di impietosirci; ci disse chiaramente che lui lavorava durante il fine settimana per contribuire alle spese della sua istruzione e mentre lustrava le scarpe alla mia amica (io avevo le scarpe da ginnastica che poco si prestano a queste cure), descrivendo con molta precisione ogni passaggio del processo di pulitura e lucidatura, ci chiese quale era il nostro paese di provenienza; con gran sorpresa da parte nostra cominciò a declamare, in modo evidentemente mnemonico ma suscitando senz’altro la nostra curiosità, la capitale del nostro paese, i fiumi e il nome del Presidente del Consiglio. Senz’altro un ottimo espediente, che indicava come i ragazzi (episodi simili mi sono stati raccontati da altre persone, turiste e residenti) sappiano destreggiarsi tra numerose strategie “commerciali” per attirare l’attenzione dei passanti e rubare clienti alla concorrenza, ma anche nello spiegare in cosa consistevano le sue azioni e gesti mentre lucidava le scarpe, una consapevolezza e valore del proprio lavoro, per cui il prezzo sale nel momento in cui il cliente acconsenta all’utilizzo del brillantante. Questi ragazzi non sono di sicuro quelli descritti dall’OIL nelle sue numerose pubblicazioni, dalle cui parole riecheggiano solo protezionismo e poca disponibilità a considerarli come soggetti attivi.

31 Il paradigma della “valorizzazione critica” intende quindi riconoscere il valore del lavoro come un’attività positiva per lo sviluppo dell’identità dei bambini stessi e anche un mezzo per il loro inserimento a pieno titolo come membri della società in cui vivono. Senza negare i peggiori casi di sfruttamento, che tuttavia si verificano, i movimenti di bambini lavoratori e le associazioni che appoggiano questa visione chiedono che siano soprattutto i bambini, in quanto soggetti che svolgono un’attività lavorativa, a essere riconosciuti come soggetti protagonisti. In tal senso, accusano chi si batte per la totale abolizione del lavoro minorile di dimenticarsi troppo spesso delle persone che costituiscono la categoria “minorile” e che vengono ancora una volta criminalizzati perché bambini, perché lavoratori.

In un certo senso questa è la via che, da qualche anno a questa parte, sta percorrendo la ricerca sociale, ammette White (2009), attraverso le critiche nei confronti di quella visione dell’infanzia che “reduce children to the status of objects rather than social subejcts, by structurally excluding them from the sphere of socially relevant work or the production of value” (p.14). Su questo aspetto ritorna anche Nieuwenhuys (1996, 2004, 2005), le cui analisi riguardo i bambini lavoratori in India (1996, 2004, 2005) pur essendo inserite nel contesto concettuale dell’antropologia, trovano accordo con le conclusioni dell’economista Levison (2000). Nel suo articolo “Children as Economic Agents” l’autrice sostiene che l’esclusione formale dei bambini dal lavoro retribuito (che troppo spesso risulta essere solo di facciata), ma non da quello non retribuito è la conseguenza diretta della loro relativa mancanza di potere.

Se la tendenza nelle ricerche sociali sull’infanzia e i giovani negli ultimi vent’anni è stata quella di considerarli come agenti piuttosto che come passivi beneficiari o vittime delle decisione adulte (White, op. cit.), bisogna riconoscere che non tutti gli studiosi sono d’accordo sull’ampio utilizzo che della nozione di agency si è fatto in esse, specialmente in antropologia. Lancy lamenta in un suo articolo (2012) come tale concetto sia diventato un dogma e abbia subito una sorta di istituzionalizzazione nel processo relativo all’ottenimento di fondi e approvazione delle ricerche con i bambini. I vari metodi e prospettive che normalmente facevano parte degli strumenti di lavoro dell’antropologo, accusa, si sono ridotti a un “applied, advocacy undertaking in which the children themselves must be accorded the authority to determine the course of the study” (p.3). L’autore individua altri sette “child agency problems” a sostegno della sua critica, che possono essere così riassunti: 1) è davvero difficile ottenere che i bambini esprimano i loro punti di vista e le loro opinioni; 2) tale concetto nega la realtà della cultura e l’utilità dell’antropologia, dato che i bambini secondo i fautori della loro agency “per natura, si ribellano apertamente alle tradizioni culturali e sono ansiosi di stabilire le propri” (p.5, traduzione mia); 3) l’agency è etnocentrica perché costituisce l’elemento centrale del modello educativo appannaggio delle classi medio-alte nelle società occidentali. Quindi,

32 insistere nel concederla a tutti i bambini affinché possano esprimere le proprie opinioni significa ignorare il ruolo tradizionale assegnato a essi e comportarsi in modo profondamente etnocentrico; 4) è classista, perché come accennato dal punto 3 affonda le sue radici nella tradizione di un modello parentale particolare, che Lancy definisce “well-to-do intelligencia”; quindi, collegandosi al punto 5) sarebbe anche egemonica e 7) contro-producente perché lederebbe l’autorità genitoriale che sopravaluterebbe le opinioni e disposizioni dei figli. L’autore in conclusione del paragrafo sostiene che si potrebbe imputare all’accusata anche il preoccupante e rapido aumento dell’obesità infantile, delle difficoltà nell’apprendimento e della depressione medicata, che si verificano quando i bambini crescono nell’opulenza (p.12). Il punto 8) della sua critica si basa sull’indeterminatezza del concetto, che non viene inteso o definito in modo chiaro da chi aderisce al suo utilizzo.

La mia personale impressione è che Lancy intenda l’agency come la capacità che si vuole attribuire ai bambini di opporsi, di andare contro le leggi, le decisioni, i comportamenti socialmente stabiliti; sostanzialmente di opporsi, nel tentativo di sovvertire l’autorità adulta, ciò che pensano e fanno i loro genitori, insegnanti o gli adulti in generale. Nonostante vi sia un reale rischio che essa, insieme ad altre nozioni come quella di “cittadinanza attiva”, diventino solo delle categorie generali in cui accogliere una pluralità di fenomeni anche molto diversi fra loro; sono però convinta che parlare di soggetti dotati di agency, secondo la definizione che ne dà Jourdan, cioè di “individui che interagiscono con il loro mondo (sociale, culturale, politico, economico, ecc.)” (2010: 165), e che ne sono mai pienamente determinati da esso possa rappresentare un interessante punto di vista per evitare le trappole sentimentaliste in cui si cade troppo facilmente quando si parla di infanzia e lavoro.