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Il pianeta irritabile di Volponi, romanzo del 1978, è il traguardo di un lungo percorso di ricerca ideologica e sperimentazione letteraria che parte dal microcosmo fondato mitologicamente ed esperito con “una passione primordiale, viscerale, pre-razionale e pre-industriale”151 che anima le prime raccolte di poesie, per giungere infine allo scenario post-apocalittico, di desolazione totale, in cui si muovono i quattro esseri viventi protagonisti dell’allegoria fantascientifica volponiana.

La poesia giovanile di Volponi è principalmente all’insegna dell’idillio, di un’immersività lirica a volte pacata a volte sfrenata con l’ambiente, in cui si riscontrano appena

gli accenni a un’apertura (sempre contrastata e rientrata, ma ben presente) verso il mondo esterno, il progressivo delinearsi di un «paesaggio umano» prima e di una vera «vicenda umana» poi, con un iter narrativo e dei personaggi; l’espandersi di quella mitologia al di là dei confini di un idillio

naturale e sentimentale tutto risolto in se stesso; la crisi di questo idillio e così via152.

Se non si può dire che il periodo di Volponi lirico sia privo di un’evoluzione tematica e formale, è pur vero che il brusco cambiamento di poetica avviene, per lo scrittore urbinate, col passaggio al romanzo, segnato, come in Levi, dalla tematica dell’estromissione dell’uomo – in un ambiente di moderna produzione industriale (il campo di prigionia o “l’universo concentrazionario della fabbrica”153) – dalla sua natura animale e culturale e il suo appiattimento su un indifferenziato mondo di cose.

Albino Saluggia, il protagonista di Memoriale (1962), è un reduce di guerra con un passato di emigrazione e di prigionia e un presente di tubercolosi e di fragilità psicologica. Saluggia esperisce il mondo attraverso quelli che chiama i suoi mali154. Se all’inizio vede nel suo nuovo lavoro in fabbrica una possibilità di riscatto da questi, poi ne individua una fonte di aggravamento e, dalla sua prospettiva paranoica, cerca di volgere gli stessi suoi mali a danno della fabbrica.

Quando nel 1959 Volponi comincia a scrivere il romanzo, sorretto dalla lettura di veri memoriali di operai che leggeva in quanto responsabile dei servizi sociali dell’Olivetti, la fabbrica è un oggetto nuovo, ancora non

152 Ferretti, Volponi, cit., p. 25.

153 Cfr. Giuseppe Zaccaria, Ivrea e Vigevano: la letteratura industriale, in Letteratura

italiana. Storia e geografia, III. L’età contemporanea, Torino, Einaudi, 1989, pp. 162-167:

“Ma il punto di vista non è più, adesso, quello esterno del l’osservatore scientifico, bensì appare interiorizzato dall’io narrante, in cui il passaggio dalla condizione contadina a quella operaia è mediato dall'esperienza della guerra e della prigionia. Il rapporto è suggerito in più luoghi del romanzo, a stabilire un’omologia simbolica che si innesta sul tema più generale della malattia, quasi una condizione sveviana applicata all'universo concentrazionario della fabbrica”.

interpretato, estraneo a qualsiasi canone estetico. Il primo impatto con la fabbrica, per Albino è straniante:

La fabbrica era così grande e pulita, così misteriosa che uno non poteva nemmeno pensare se era bella o brutta. Ed anche a tanti anni di distanza, dopo tanti anni durante i quali vi ho lavorato, non so dire se la fabbrica sia bella o brutta, perché per tanti anni questo interrogativo anche se mi è venuto in mente non è mai stato decisivo, proprio come per una chiesa o per un tribunale. Oggi posso dire che la fabbrica è sempre stata in un ordine perfetto anche durante i lavori d'ampliamento o di riparazione, sempre pulita e sempre sconosciuta. Questo vuol forse dire che la fabbrica è bella; ma io non posso dire che la fabbrica sia bella, guardandola da fuori o da dentro: cioè bella davanti a me, come una casa o un albero155.

Inizialmente paragonati a luoghi artificiali, come la chiesa, il tribunale, la casa, ma dotati di quella sacralità e confidenza che consente un’associazione ai paesaggi naturali, la fabbrica, i suoi ambienti e componenti vengono percepiti ben presto come un organismo vivente – “la macchina strideva piano e perdeva in una bacinella un olio, un latte e sembrava che in realtà soffrisse come un animale ferito”156 – e infine i fenomeni naturali vengono ricondotti alla fabbrica:

La fabbrica non dava distrazioni a tale pensiero: un albero, un uccello, una parola, un passante. Non bastava levar gli

155 RP, I, pp. 14-15.

occhi dal lavoro e muoverli in giro: non c'era nulla che non fosse un pezzo della fabbrica157.

Uno dei primi giorni di ottobre, nel pomeriggio, scoppiò un temporale con molti tuoni, grandi per tutto il cielo e scrosci di pioggia a raffica. Eravamo ancora al lavoro e il temporale sembrava un guasto enorme della fabbrica158.

Incapace di percepirla come cosa artificiale – forse per una difficoltà generalizzata a concepire l’artificiale – il campagnolo inurbato e trasformato in operaio non può che associare la fabbrica a un dato di natura e, abituato a trarre dalla natura i valori che guidano la sua vita, non può che assumere il ritmo e il meccanismo della fabbrica; le ragioni della produzione, a fondamento del suo autorappresentarsi e del suo agire, e man mano che si appassiona alla fabbrica, ne diventa parte integrante.

Il rumore della fresatrice mi tirava nella lotta e più la sentivo mordere più m'infervoravo nel lavoro. Il suo rumore i suoi tagli, mi convincevano aspramente di saper lavorare; davano alle mie mani una forza che non avevano mai avuto,

157 RP, I, p. 124.

158 RP, I, p. 135. Secondo Calvino, in Memoriale, “Volponi arriva a una prosa d’invenzione tutta intessuta di immagini e modi lirici, che tende all’assimilazione del mondo meccanico nel mondo naturale. […] A conti fatti, la tensione lirico-trasfigurativa che Volponi raggiunge, risulta essere la più adatta a esprimere la contraddittoria e provvisoria realtà attuale: tra tecniche produttive avanzate e situazione social-antropologica arretrata, tra fabbriche tutte vetri acciaio human relations e un’Italia oscuramente biologica” (La

«tematica industriale», SS, I, p. 1767, originariamente in «Il menabò di letteratura», 5,

anche se mi ero accorto che le mie mani più che guidarla erano trascinate dalla macchina159;

Il rumore mi rapiva; il sentire andare tutta la fabbrica come un solo motore mi trascinava e mi obbligava a tenere con il mio lavoro il ritmo che tutta la fabbrica aveva. Non potevo trattenermi, come una foglia di un grande albero scosso in tutti suoi rami dal vento160.

Assumendo i ritmi della produzione industriale, scanditi dalla razionalità procedurale e quindi in opposizione alla coesione sociale, intrinsecamente sistemica, Albino si aliena da ogni rapporto umano161:

Amavo a poco a poco la fabbrica, sempre di più man mano che m'interessava meno la gente che vi lavorava. Mi sembrava che tutti gli operai avessero poco a che fare con la fabbrica, che fossero solo degli abusivi o dei nemici, che non si rendessero conto della sua sovrumana bellezza e che proprio per questo, lavorando con più fracasso del necessario, parlando e ridendo, la offendessero deliberatamente. Mi sembrava che si divertissero a guastarla e a sporcarla, a voltarle le spalle ogni momento162.

L’incapacità a confidare nella solidarietà umana deriva anche dall’attribuzione alle macchine della capacità di cooperare e lavorare autonomamente, senza l’intervento degli esseri umani, come in questa

159 RP, I, p. 45.

160 RP, I, p. 47.

161 Cfr. a tal proposito D. Forni, Le figure della fabbrica, AA. VV. Paolo Volponi: Scrittura

come contraddizione, a cura del Gruppo Laboratorio, Franco Angeli, Milano 1995. in pp.

109-111.

scena in cui le due scavatrici che operano in sinergia vengono descritte da Saluggia senza alcun riferimento ai macchinisti che le stanno guidando:

Mentre il motore della prima andava al minimo, l'altra guardò indietro lasciando riposare la pala. Capì subito; voltò e si diresse verso la compagna. Si avvicinò con il suo corpo giallo a quello dell'altra. Quando furono insieme sospesero per un momento ogni rumore. Poi una, la prima, cominciò a strepitare regolarmente, quasi cantando; l'altra la seguì più piano. I rumori aumentarono insieme e le due macchine si abbracciarono, sempre più strette. Capii che l'una aiutava l'altra e che insieme facevano forza nella stessa direzione. Con la sua pala, una spingeva l'altra sotto il sedere e rincalzava al fianco. Finalmente furono libere, si voltarono le spalle e ripresero il loro lavoro163.

Dopo il rientro dalle ferie, durante le quali ha potuto assaporare il proprio ambiente naturale originario, Albino comincia a manifestare insofferenza per la fabbrica, per i colleghi operai ma anche per le macchine, per l’assistenzialismo e l’umanitarismo che, anche autentici, non sono meno parte del sistema i cui danni tentano di bilanciare164 e dietro i quali

163 RP, I, p. 76.

164 E l’assistenzialismo e l’umanitarismo erano proprio i compiti a cui doveva dedicarsi Volponi, a capo dei servizi sociali dell’Olivetti. Di quella sua esperienza, molti anni dopo, in contemporanea alla pubblicazione di Corporale, avrebbe scritto: “Io vivevo una «cieca» stagione di fiducia, negli anni ’57-60, lavorando tutto il giorno per far andare bene la fabbrica nella quale credevo come fonte di benessere, di energia civile, di insegnamenti per la pubblica amministrazione, per l’università, per i comuni, che si avviassero a una revisione delle loro strutture, sistemi e risultati proprio per la giustizia e per la libertà. Ho incominciato dopo a intravedere, anche se dal primo giorno ho capito la sofferenza e l’umiliazione che accompagnavano molti lavori della fabbrica, e anche se lavoravo

Saluggia riesce a immaginare solo complotti atti a perpetuare i suoi problemi: “Dietro il motore della fresa andavo ordinando i miei pensieri; ma, come sempre, l'ordine peggiorava la mia attuazione perché i miei pensieri in fila s'indirizzavano fatalmente verso i miei mali”165.

In questo contesto, Albino matura una ribellione – a tratti cosciente, a tratti spontanea – contro il sistema industriale, ribellione che, fino a quando è solitaria viene accolta dalla dirigenza come un “caso” da trattare adeguatamente attraverso strumenti opportuni, come il demansionamento del protagonista. Ma la situazione continua a peggiorare e Albino scrive, nel Memoriale che a questo punto ha cominciato a redigere: “Il sentimento più vivo che mi accompagnava nelle ore di piantonamento era proprio quello di essere diventato una proprietà della fabbrica166”.

Così, infine, decide di passare alla ribellione politica e aderisce a uno sciopero, unica deviazione dalla norma che la fabbrica non riesce a riassorbire. Alla fine del romanzo, Albino, tornato a casa, nell’attesa della lettera di licenziamento e insieme dell’arrivo degli stormi di uccelli, s’incammina attraverso il proprio paesaggio natio, di cui non riesce più a vedere la bellezza.

Anche il secondo romanzo di Volponi, la Macchina mondiale, si conclude con una ribellione, per quanto di natura molto più eclatante. Come si vedrà nel terzo capitolo, il problema della reificazione dell’uomo è

appunto per attenuarne almeno le conseguenze, la logica del tutto interiore, autoalimentata ed autoesaltantesi, del potere industriale. Di come tale potere fosse solitario, egemone, e di come ogni suo gesto fosse proprio per la sua natura oltre che per la sua meccanicità contrario ad ogni bene sociale” (Officina prima dell’industria, RP, I, pp. 1068-1069).

165 RP, I, p. 110.

affrontato da un protagonista che cerca di ricomporre l’identità macchineo-industriale (molto simile a quella di Memoriale) e l’immersività nell’ambiente naturale, estremizzando la prima in senso escatologico, di modo che l’artificiale, eletto a strumento del progresso universale, inglobi ogni aspetto del naturale.