• Non ci sono risultati.

Memoria e monito. Fragilità e potere del meme

Nonostante la rilevanza della sua produzione fantascientifica e più in generale finzionale, Primo Levi è conosciuto soprattutto per la sua letteratura testimoniale e per il valore etico che attribuisce alla facoltà della memoria. Lo stesso autore spiega che essa sola, assieme alla sua personale esperienza di deportazione e prigionia, lo distingue dall’uomo comune92.

Il rifarsi di Levi a un codice etico, che Robert Gordon individua in una serie di virtù simili a quelle della tradizionale letteratura moralistica93, non si risolve quasi mai in un appello diretto alla sensibilità e alle emozioni del lettore al fine di far accettare tale codice attraverso la “piccola violenza” della persuasione retorica94. La moralistica leviana consiste viceversa nell’astenersi dal richiedere al lettore simpatia ed empatia, mantenendo

92 “Sono un uomo normale di buona memoria che è inca ppato in un vortice, che ne è uscito più per fortuna che per virtù” (Premessa a Racconti e saggi, Opere, II, p. 859).

93 Si veda a tal proposito R. S. C. Gordon, Primo Levi’s ordinary virtues: from testimony to

ethics, Oxford University Press, Oxford 2001, tr. it. D. Bertucci, B. Soravia, Primo Levi: le virtù dell’uomo normale, Carocci, Roma 2004. Cfr. anche il contributo di Gordon, Per un’etica comune: le virtù quotidiane di Primo Levi, in E. Mattioda (a cura di), Op. cit., pp.

87-107.

94 Cfr. A. Scurati, Op. cit., p. 33. “A riguardo dell'idea di piena razionalità, la persuasione retorica è precisamente quella piccola violenza con cui l'umanità si sottrae alla violenza indiscriminata”.

una prospettiva esterna, distaccata e quanto possibile scientifica95. Ciò contribuisce alla forza del discorso etico di Levi non meno delle strategie e caratteristiche che in genere gli studi su etica e letteratura individuano come atte allo scopo96. Levi vuole esplorare assieme al lettore tutte le fasi che concorrono alla formulazione di un giudizio etico: dalla raccolta di informazioni alla valutazione delle stesse, dall’esercizio dell’empatia alla discussione sulla possibilità e sulla liceità del giudizio.

Nella costante ricerca di un equilibrio tra dimensione emotiva e razionalità procedurale, Primo Levi si rivela uno scrittore molto esigente nei confronti del suo pubblico: non ambisce a scrivere per un semplice lettore di romanzi per cui la lettura sia inconsapevole palestra di empatia, ma a un giudice-letterato, per il quale tale empatia sia soltanto uno degli strumenti necessari ad esercitare una funzione civile e politica97.

In genere, Levi non vuole catturare l’attenzione del lettore in modo men che corretto. “Perciò questo mio libro” – spiega nella prefazione a Se questo è un uomo –

95 Cfr. M. Porro, Op. cit., pp. 33-35.

96 Cfr. M. C. Nussbaum, Giustizia poetica. Immaginazione letteraria e vita civile, a cura di E. Greblo, Mimesis, Milano-Udine 2012. Secondo Nussbaum, la narrativa ha “la tendenza a descrivere gli eventi della vita non da una prospettiva esterna, distaccata (come descriverebbe l’attività e il movimento di formiche o parti di una macchina), ma dall’interno, come se tali eventi rivestissero i complessi significati che gli esseri umani attribuiscono alle loro stesse vite” (p. 70) e attraverso di essa “veniamo sollecitati a interessarci ai destini altrui come fossero i nostri, che vincoliamo ad essi mediante un’amicizia simpatetica e un’identificazione empatica” (p. 73). A tal proposito si vedano anche M.C. Nussbaum, Love’s Knowledge, Oxford University Press, Oxford 1990 e W. C. Booth, The Company We Keep. An Ethics of Fiction, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1988.

in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo sull’inquietante argomento dei campi di distruzione. Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi d’accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano98.

Il tono delle opere testimoniali di Levi è spesso misuratamente didascalico e il romanzo procede con richiami al lettore del tenore di “Si immagini ora un uomo a cui”99; “Si comprenderà allora”100 e ancora “giudichi ognuno, in base al quadro che abbiamo delineato e agli esempi sopra esposti”101. Infine – spiega l’autore nell’appendice del 1976 – “Come mia indole personale, non sono facile all’odio. Lo ritengo un sentimento animalesco e rozzo, e preferisco che invece le mie azioni e i miei pensieri, nel limite del possibile, nascano dalla ragione”102.

E lo stesso evidentemente auspica per il suo lettore, al quale d’altra parte, dieci anni dopo l’appendice a Se questo è un uomo, fornisce nuovi spunti di riflessione con I sommersi e i salvati, opera saggistica di cui sarebbe ridondante riportare gli esempi di tono didattico e moderato, ma forse utile sottolineare un caso di indecidibilità:

Vorrei invitare chiunque osi tentare un giudizio a compiere su se stesso, con sincerità, un esperimento concettuale: immagini, se può, di aver trascorso mesi o anni in un ghetto, tormentato dalla fame cronica, dalla fatica, dalla

98 SQU, p. 5. 99 SQU, p. 21. 100 Ibid. 101 SQU, p. 82. 102 SQU, p. 174.

promiscuità e dall’umiliazione; [...] e di trovarsi infine scagliato fra le mura di un inferno indecifrabile. Qui gli viene offerta la sopravvivenza, e gli viene proposto, anzi imposto, un compito truce ma imprecisato. [...] Ogni individuo è talmente complesso che è vano pretendere di prevederne il comportamento, tanto più se in situazioni estreme; neppure è possibile antivedere il comportamento proprio. Perciò chiedo cha la storia dei «corvi del crematorio» venga meditata con pietà e rigore, ma che il giudizio su di loro resti sospeso103.

Voler persuadere il lettore con fatti e ragionamenti piuttosto che con la brutalità della sua esperienza e con l’autorità morale derivante dal suo status di sopravvissuto costituisce per Levi una forma di rispetto, una sensibilità più vicina alla deontologia di una professione scientifica che a una dichiarazione di poetica.

Ma Levi è anche autore dalla schisi centauresca104 e, con una determinazione di segno opposto rispetto alla consueta pacatezza, pone la

103 SES, pp. 1036-1037.

104 Il topos del dimezzamento è ricorrente nell’opera di Levi e frequente oggetto di attenzione critica. “Io sono un anfibio, [...] un centauro [...]. Io sono diviso in due metà. Una è quella della fabbrica, sono un tecnico, un chimico. Un’altra, invece, è totalmente distaccata dalla prima, ed è quella nella quale scrivo, rispondo alle interviste, lavoro sulle mie esperienze passate e presenti. Sono proprio due mezzi cervelli” (CI, p. 107) – sostiene Levi – e ancora “Io credo proprio che il mio destino profondo (il mio pianeta, direb be don Abbondio) sia l’ibridismo, la spaccatura. Italiano, ma ebreo. Chimico, ma scrittore. Deportato, ma non tanto (o non sempre) disposto al lamento e alla querela” (CI, p. 186). Cfr. a tal proposito A. Cavaglion, Primo Levi era un centauro?, in E. Mattioda (a cura di),

poesia Shemà a epigrafe del suo primo romanzo testimoniale105. Il componimento, forse l’opera in assoluto più nota di Levi, è un inno alla memoria storica e un appello a tramandarla. Il titolo della poesia corrisponde in ebraico all’imperativo “ascolta” ed è l’inizio di una delle preghiere fondamentali dell’ebraismo; alcuni versi, inoltre, sono tratti dall’undicesimo capitolo del Deuteronomio e parafrasati. Sarà opportuno citarla almeno in parte.

Voi che vivete sicuri Nelle vostre tiepide case, Voi che trovate tornando a sera Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo […] Considerate se questa è una donna, […]

Meditate che questo è stato: Vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore Stando per casa andando per via, Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, La malattia vi impedisca,

I vostri nati torcano il viso da voi106.

105 Sul rapporto tra la poesia Shemà e la narrazione testimoniale di Se questo è un uomo, si veda M. Barenghi, La memoria dell’offesa. Ricordare, raccontare, comprendere, in E. Mattioda (a cura di), Op. cit., pp. 146-148.

In termini di pragmatica della comunicazione, la poesia si configura certamente come monito107. L’ammonimento, considerato come atto linguistico, è un modo comunicativo adottato spesso dalla parola profetica, specie quella di sventura: la sua forma (quando non sintattica, almeno logica) è il periodo ipotetico con il quale si stabilisce un nesso causale tra una situazione o un comportamento presenti o futuri e le loro conseguenze, descritte come indesiderabili. Scopo del monito, anche profetico, è indurre l’interlocutore a mettere in atto o a evitare un determinato comportamento: per questo motivo il soggetto della protasi deve essere chi riceve il monito; o perlomeno il destinatario del monito deve essere nella condizione di influire sul verificarsi della premessa. Quanto all’apodosi, l’agente non può essere colui che ammonisce, altrimenti si rientrerebbe nel caso della minaccia; né può essere l’ammonito, a meno che l’ammonizione non implichi elementi che, togliendogli ogni possibilità di scelta, lo rendano un soggetto non agente bensì agito. Il soggetto della frase principale è al di fuori del contesto comunicativo in cui si realizza il monito e può anche avere natura trascendente, collettiva o impersonale: anzi, sono questi i casi in cui il monito assume una maggiore forza illocutoria, ovvero viene riconosciuto compiutamente come tale.

Ma l’ammonizione è un atto linguistico intrinsecamente incompiuto: così come avviene per una sfida, il monito può essere “lanciato” e riconosciuto, ma non sortisce l’effetto pratico (perlocutorio) desiderato se non viene debitamente raccolto dall’interlocutore. Affinché l’ammonito accolga un monito, deve poter riscontrare nel monitore un certo livello e un certo tipo di autorità108.

107 Monito, memoria e meme hanno tra l’altro la stessa radice etimologica.

108 Sulla trasmissione “da uno a molti” nel quadro dell’evoluzione culturale cfr. Cavalli Sforza, Op. cit., pp. 85-86.

Nel caso del monito profetico-religioso il soggetto dell’apodosi è la divinità o una manifestazione della sua volontà; dalla divinità, inoltre, discende anche l’autorità del profeta. Quanto al monito laico o semplicemente civile, l’agente è un sistema complesso che può essere sociale o naturale, mentre l’autorità del monitore deriva dalla sua esperienza e dall’esercizio di conoscenze e competenze finalizzate a formulare correttamente una previsione.

Nella prima parte della poesia, Levi individua quelli che verosimilmente sono i suoi lettori, definendo così l’interlocutore a cui è rivolto il monito. Al contempo, pone un abisso, proprio in termini di autorità, tra un voi e un io, distanza che deriva dall’esperienza del lager, descritta nei dieci versi della seconda parte assieme al verbo dantesco “considerare”109 che, unitamente a “ripetere” costituisce il punto cruciale della protasi. Gli ultimi tre versi rivelano le terribili conseguenze nel caso in cui il lettore non dia alcun seguito al monito. Il modo è il congiuntivo, in questo caso ottativo, ma è evidente che la collocazione temporale è il futuro.

È importante osservare come in Shemà le azioni alle quali Levi esorta i lettori siano tutte di natura memetica, ovvero relative alla sopravvivenza, all’elaborazione e alla replicazione di un messaggio: considerate, meditate, scolpite nel vostro cuore, ripetete. La struttura e il linguaggio dell’ammonizione sono di una forza morale che raramente l’autore oserà riproporre in maniera così diretta e vibrante, e questa eccezione alla consueta moderazione leviana non è volta all’imposizione di un comportamento concreto, o all’accettazione di un giudizio prestabilito dell’autore, ma a predisporre il lettore a valutare a ragion veduta e a

109 Non a caso quello degli ultimi versi del Dante dell’“orazion picciola” illustrata da Levi ad uno dei suoi compagni di prigionia nel capitolo Il canto di Ulisse (SQU, p. 109): “considerate la vostra semenza” / “considerate se questo è un uomo”.

giudicare per conto proprio l’opera testimoniale che segue, nonché a ripetere l’ammonizione stessa. Di fronte alla fallacia della memoria, a quello che chiamerà molti anni dopo il “buco nero di Auschwitz”110, Levi è disposto a dotare il suo meme di tutto ciò che è necessario per perpetuarsi: la forma dell’ammonizione, la richiesta esplicita al lettore di farsi veicolo di sopravvivenza del meme, l’autorità del superstite che quasi si fa profeta, ruolo che a Levi dev’essere costato molto assumere, se in una delle sue ultime interviste spiega: “È molto difficile distinguere fra buoni profeti e falsi profeti. A mio parere i profeti sono falsi tutti”111.

La preoccupazione di conservare e trasmettere la memoria è una costante della letteratura leviana e accomuna lo scrittore ad alcuni suoi personaggi, come ad esempio il dottor Montesanto, protagonista de I mnemagoghi, i “suscitatori di memorie”112. Relativamente al problema della memoria, lo “strano vecchio” ha un atteggiamento che appartiene un po’ anche all’autore: “Io, per mia natura, non posso pensare che con orrore all’eventualità che anche uno solo de miei ricordi abbia a cancellarsi, ed ho adottato tutti questi metodi [la scrittura, il ricordo materiale], ma ne ho anche creato uno nuovo”113.

Attraverso Montesanto, Levi, assecondando anche una particolare inclinazione per uno dei cinque sensi già manifesta nella sua produzione autobiografica (Il sistema periodico) ed esplicitata in quella saggistica114, si

110 Il buco nero è tale perché non emette l uce: inghiotte anch’essa, negando qualsiasi informazione diretta su di sé. L’efficace metafora è il titolo di un articolo sul revisionismo storico tedesco, Buco nero di Auschwitz, pubblicato su «La Stampa» il 22 gennaio 1987, ora in PS, pp. 1321-1324

111 CI, p. 245

112 SN, p. 405.

113 Ibid.

114 Nel saggio Il linguaggio degli odori Levi scrive: “Sono diventato chimico non (o non solo) per il bisogno di comprendere il mondo intorno a me; non come reazione alle verità

interroga sulla possibilità di affidare memorie concrete a strumenti alternativi. Il dottor Montesanto, abile chimico come Levi, ha sintetizzato e classificato una cinquantina di odori e li ha conservati in altrettante boccette115, che dovrebbero rievocare ricordi come madeleinette proustiane. Dopo decenni di pratica medica in un paesino ai margini della civiltà, il medico riceve la visita del giovane collega Morandi, venuto a sostituirlo, e decide di condividere per la prima volta il frutto delle sue fatiche. Ma l’esperimento non riesce: le propensioni solipsistiche del dottore e l’intrinseca soggettività del senso eletto a supporto mnemonico/memetico pongono le realizzazioni del vecchio medico al di fuori di un codice informativo riconosciuto e lo obbligano, di fronte al suo interlocutore, a una spiegazione, vanificando quindi, nella sostanza, i suoi propositi: “È l’odore delle aule delle scuole elementari; anzi, della mia aula della mia scuola. Non insisto sulla sua composizione; contiene acidi grassi volatili e un chetone insaturo. Comprendo che per lei non sia niente: per me è la mia infanzia”116. Assieme alle sue boccette, lo stesso Montesanto, il suo studio, i ventidue anni passati in forzata solitudine e volontaria reclusione sfumano nel non-interpretato, nell’indistinto, nel conturbante, e ripromettendosi di non diventare come l’inquietante uomo che l’ha

dogmatiche e fumose della Dottrina del Fascismo; non nella speranza della gloria scientifica o dei quattrini, ma per trovare o costruirmi un’occasione di esercitare il mio naso” (AM, p. 837).

115 Ancora da Il linguaggio degli odori: “Se ne avessi l’autorità, per i giovani aspiranti chimici introdurrei un corso e un esame obbligatorio di riconoscimento olfattivo; e terrei il relativo laboratorio (null’altro che un archivio, un migliaio di boccette con l’etichetta in codice, pochi grammi di sostanza da identificare in ogni boccetta; anche questo sarebbe un investimento irrisorio!) aperto a tutti coloro, giovani o anziani che desiderino introdurre nel proprio universo sensoriale una dimensione in più, e percepire il mondo sotto un aspetto diverso” (AM, pp. 837-38).

preceduto – “non si sarebbe lasciato diventare così”117 – il giovane Morandi comincia il medesimo percorso: frasi spezzate, pensieri astratti, desiderio di silenzio e isolamento. Un meme si è perpetuato, ma non è ciò che del suo patrimonio culturale Montesanto intendeva conservare e replicare.