Tra diversi altri testi che si potrebbero citare a proposito del valore intrinseco della natura, emblematico è Mai nessuno degli uomini lo seppe, racconto dal titolo vago e coincidente con l’ambiguo explicit di questo esemplare degli Idilli difficili. La narrazione si svolge verosimilmente sulle Alpi Marittime e vede contrapporsi pastori e cacciatori in un crescendo di screzi e di torti che cominciano con un’iniqua spartizione d’un bottino venatorio (alcuni camosci) e si concludono con l’avvelenamento dei pascoli da parte del cacciatore Airoldi. Il finale è sorprendente:
Un piccolo camoscio, forse sbandato dal branco della Rocca Negra, uscì dalle rocce sopra la valle, vide il lago, le pecore, la casa dei cacciatori col pennacchio di fumo, la ragazza Airoldi che stendeva i panni, suo padre sulla soglia e il pastore che passava. Guardò bene tutto e scomparve. Mai nessuno degli uomini lo seppe.21
Il camoscio, fino a quel momento parte dell’ambiente esperito e oggetto della narrazione, delle azioni e delle relazioni tra i due gruppi di umani coinvolti, s’innalza improvvisamente a soggetto esperiente, a personaggio titolare di un punto di vista, ad attante la cui azione – arrivare, osservare, andarsene – è significativa a tal punto da giustificare un’apparente infrazione comunicativa sul piano della pertinenza: mai nessuno degli uomini lo seppe. Mai nessun essere umano seppe che un camoscio era passato di lì, che aveva intenzionalmente guardato – forse perché aveva ravvisato una presenza antropica, ovvero artificiale (la casa e il fumo) –; che c’era una terza possibile prospettiva dalla quale interpretare
21 RR, II, p. 1000.
quella minuta parte di mondo, prospettiva estranea alle ragioni e ai torti di pastori e cacciatori.
Lo sguardo di un animale non umano sull’uomo – spiega Derrida in L’animale che dunque sono – può essere fonte di disagio e di vergogna. Nudo (o messo psicologicamente a nudo) di fronte all’animale, l’uomo è portato a interrogarsi sulla propria animalità e umanità, sulla propria necessità di vestirsi e di fare uso della tecnica, sulla facoltà di compiere il male, di avere una storia e un lavoro.22 In Calvino, questo scambio di sguardi tra animali umani e non umani assume la forma di un rapporto tra un’insensatezza razionalmente perseguita e un’alterità innocente e inconsapevole.
Tale presa in carico letteraria del punto di vista animale come fattore destabilizzante è un tratto della prosa calviniana le cui radici vanno ricercate in un filone della scrittura giornalistica della seconda metà degli anni ’40, del quale pare opportuno riportare ampi brani, giacché contiene elementi che avranno ampio sviluppo nella produzione saggistica e letteraria successiva. Le capre ci guardano, del 1946, prende spunto da “una commemorazione delle capre di Bikini, sacrificate «per il bene dell’umanità»”23:
Ma il senso di questa commemorazione caprina è da ricercarsi, io credo, in un segreto rimorso del genere umano verso li animali, unito a un’ipocrisia caratteristica del genere umano. Vi siete mai chiesti che cos’avranno pensato le capre di Bikini? e i gatti nelle case bombardate? e i cani in zona in guerra? e i pesci allo scoppio dei siluri? [...] Sì, noi dobbiamo
22 Cfr. J. Derrida, L'animal que donc je suis, Édition Galilée, Paris 2006, trad it. di M. Zannini,
L'animale che dunque sono, Jaca Book, Milano 2006, pp. 38-43.
una spiegazione agli animali, se non una riparazione. Loro possono capire quando noi li uccidiamo per mangiarli, quando li mettiamo a tirare un carro, forse anche quando li torturiamo per divertirci nelle corride, o quando li vivisezioniamo per esperimento. Sono cose che succedono più o meno anche tra loro. Ma la guerra? Sì, noi dobbiamo una spiegazione agli animali, dobbiamo chieder loro scusa se ogni tanto mettiamo a soqquadro questo mondo che è anche il loro, se li tiriamo in ballo in affari che non li riguardano.24
24 SS, II, p. 2131-2132. Si veda a tal proposito G. C. Ferretti, Op. cit., pp. 36-37. Ferretti parte dal breve testo sulle capre di Bikini, scritto mentre ancora Calvino, in altri testi, dimostrava una certa fiducia nella modernità tecnologica, per evidenziare una “vena oscura” dell'autore, che cominci a proprio dal percepire lo sguardo animale sull'uomo e si fa strada per tutta la sua produzione letteraria. “Calvino si interroga sul confine tortuoso, misterioso, sfuggente che separa o unisce la psicologia animale e la psicologia umana, e in generale l'immutabilità della natura e le modificazioni della società. Ma questo confine tende via via ad allargarsi, a diventare una striscia di terreno ambiguo, insondabile, non riducibile comunque alla razionalità dell'uomo (un motivo, questo, che avrà notevoli sviluppi futuri). La presunzione razionale-antropocentrica insomma, non viene ridimensionata soltanto dalla contrapposizione tra insensatezza umana colpevole e
alterità naturale innocente e vittima, ma anche dalle affinità naturali e animali persistenti
nonostante tutto nell'uomo che si vorrebbe civilizzato” (G. C. Ferretti, Op. cit., pp. 36-37). Nel Castello della scrittura, Giorgio Bertone critica una troppo facile individuazione dell'anti-antropocentrismo Calviniano: “Parlare di «alterità» o di Altro, oscur o e misterioso «indecifrabile» e caricarlo sulle magre zampe della capra è forse almeno un poco prematuro per un Calvino tutto infilato dentro i temi marxisti, politici come letterari […] Ma Ferretti ha centrato sensibilmente un nodo decisivo, cogliendolo ai primordi: il rapporto uomo-natura” (G. Bertone, Italo Calvino. Il castello della scrittura, Einaudi, Torino 1994, p. 13).
Sempre dalle pagine dell’Unità, in Soggezione di un cane, il concetto è approfondito ed esteso non solo alla guerra, ma a tutti gli elementi culturali dell’uomo, che un cane non può “capire”, tanto distanti sono dal fondo animale dalla quale emergono:
Ogni tanto mi capita di chiedermi come ci giudicheranno gli animali. Se tutte le cose strane che facciamo appariranno loro come fatti naturali, come scherzi d’una natura mostruosa e irrazionale, oppure come qualco-sa di contrario al senso del mondo, come un’offesa all’ elementare natu-rale delle cose, oppure infine se si saranno adattati tanto alla nostra civiltà da non accorgersi di questo divario come non ce ne accorgiamo noi, e da continuare a vivere, come noi, cercando di trarne tutti i vantaggi possibili.
Una volta avevo un cane che mi dava soggezione. Io mi facevo la barba e lui mi stava a guardare. «Non capisce – pensavo io. – Come fa un cane a capire un uomo che si fa la barba? Come faccio a spiegargli la necessità di farmi la barba? Perché mi faccio la barba?» Non riuscivo più a radermi e smettevo. Mi mettevo a tavolino a scrivere: il cane continuava a guardarmi […]. Finii per disfarmi del cane, se no a quest’ora girerei nudo e barbuto per i boschi, nutrendomi di frutti selvatici.25
Chiude la serie Il marxismo spiegato ai gatti, in cui Calvino argomenta:
Giorni fa discutevo con un compagno filosofo e cattolico. […] Al compagno filosofo interessava dimostrare che c’è un
25 SS, II, p. 2132-2133.
momento nella catena dell’evoluzione in cui, a un tratto, dall’animale si passa all’uomo, anzi all’Uomo. Io invece propendo per una concezione dell’uomo come non staccato dal resto della natura, di animale più evoluto in mezzo agli altri animali, e mi sembra che una tale concezione non abbassi l’uomo, ma gli dia una responsabilità maggiore, lo impegni a una moralità meno arbitraria, impedisca tante storture. (Non che io creda a una natura buona e saggia alla Rousseau: so che la natura non è buona né cattiva, ma qualcosa d’impassibile e di ambiguo come la balena bianca di Melville).26
26 SS, II, p. 2133-2134. Già il fatto di scrivere senza problemi dell'uomo e degli altri animali (dicitura che Calvino utilizza in un testo del 1946 e che non a caso si adotta spesso in questa trattazione) può risultare ancora oggi una difficoltà per una certa cultura umanistica, come si evince dalla conversazione tra Ceserani e Maniardi in L'uomo, i libri e
gli altri animali, cit., pp. 20, 22: “[MAINARDI] Mi pare pertanto interessante chiederti perché tu, come del resto la maggior parte degli esseri umani, trovi corretto, normale, pensare e dire: «l'uomo e gli animali», mentre per me, invece, è normale, perché c onnaturato al mio modo di rapportarmi col mondo dei viventi, pensare e dire «l'uomo e gli altri animali». E scopro anche, ripensando a quanto ho detto, che è sufficiente una parola: altri, purché piazzata correttamente, per segregarci, per la qualità delle nostre culture, l'uno dell'altro. […] [CESERANI] Non sono mancati, tuttavia, grandi scrittori, da Machiavelli a Diderot a Calvino (e non pochi altri), che hanno avuto una concezione disincantata della nostra anima animale e avrebbero usato tranquillamente la formula che tu suggerisci (e avrei anch'io dovuto usare) «l'uomo e gli altri animali»“. In altri contesti, anche Calvino scrive “l'animale” ma non per indicare indistintamente tutti gli altri animali nel senso di esseri concreti quanto per evidenziare l'elemento culturale e letterario dell'animale; gli animali che diventano “la natura come ciò che è esterno all'uomo ma che non si distingue da ciò che è più intrinseco alla sua mente”. Commentando infatti la zoopoetica di Plinio, Calvino scrive: “L'animale, vero o fantastico che sia, ha un posto privilegiato nella dimensione dell'immaginario: appena nominato s’investe d'un potenziale fantasmale; diventa
“Non staccato dal resto della natura”, l’homo sapiens, i suoi artefatti, le sue tecnologie e la sua cultura (patrimonio memetico) diventano ambiente per il coniglio, il camoscio, il cane, la capra e gli altri animali calviniani, che a loro volta diventano soggetto e non più oggetto di uno sguardo. Infatti, il termine ambiente
si riferisce etimologicamente a «ciò che sta intorno». Da un lato, quindi, esso non riguarda esclusivamente la «natura», ma anche oggetti e fenomeni di origine antropica, «artificiali»: le materializzazioni, potremmo dire, della cultura. […] Si può parlare di «ambiente urbano», riferendosi a un luogo che non ha praticamente nulla di naturale nel senso di non alterato dall’uomo. D’altra parte i diversi impieghi della parola rinviano tutti all’idea di una relazione: non possiamo parlare di ambiente se non in riferimento a un oggetto o un’entità che da esso si distingue, pur essendo con esso in rapporto. L’ambiente è ciò che sta intorno a qualcosa.27
Gli animali di Calvino, per lo spazio di qualche riga o paragrafo, sono il centro di un mondo che sta intorno a loro e dal quale si distinguono; sono portatori di una diversa immersività nell’ambiente e quindi di una diversa estetica, da associarsi a una diversa etica.
Ed è questa una caratteristica dell’opera calviniana da cui traspare un secondo nodo cruciale dell’ecologia contemporanea: la necessità che
allegoria, simbolo, emblema” (SS, I, p. 929. Originariamente Il cielo, l'uomo, l'elefante, in Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, I, Einaudi, Torino 1982, pp. VII-XVI).
27 L. Pellizzoni e G. Osti, Sociologia dell'ambiente, cit., pp. 47-48. Per un'analisi più ampia del termine in questione di veda anche S. Iovino, Filosofie dell'ambiente, cit., p. 17.
l’ambiente esperito e vissuto diventi una fonte di educazione percettiva, estetica ed etica per gli esseri umani. Infatti,
è possibile vedere nel mondo che ci circonda un luogo di crescita morale e culturale: la natura, come una enorme palestra per il carattere o una smisurata sorgente di informazioni, si rivela allora il primario strumento conoscitivo, e insieme il luogo in cui si costruisce l’identità e la storia di individui e comunità. […] Quello che l’uomo riceve dalla natura è pertanto una triplice educazione: un’educazione percettiva, un’educazione estetica e, di conseguenza, un’educazione etica.28
Apparentemente si tratta della riproposizione d’una visione strumentale della natura, vista di nuovo come mezzo sia pure per un fine immateriale e lungimirante quale è l’educazione dell’uomo. D’altra parte assumere una visione antropocentrica non significa rinunciare al valore intrinseco e normativo della natura, anzi, i valori devono essere in qualche modo acquisiti da un soggetto che li esperisca dalla sua prospettiva per essere trasmessi e comunicati al fine di una loro messa in pratica anche nel rapporto coi propri simili:
28 S. Iovino, Filosofie dell'ambiente, cit., pp. 73, 75. Cfr. a tal proposito anche A. Cappelluzzo, «Luochi e paesaggi»: L'etica ecologica in Andrea Zanzotto e G. Cimador, «La
verità delle cose toccate»: Pierluigi Cappello e l'etica dell'esperienza, in C. Benussi e J. Berti
(a cura di), Op. cit., pp. 117-135; 151-165. Si veda anche G. O. Longo, Il senso e la
narrazione, cit., p. 4. “È grazie a loro, agli animali, agli alberi, ai nostri congeneri, insomma
è grazie all’Altro che abbiamo sviluppato il senso estetico, che abbiamo riconosciuto
l’armonia sistemica ed evolutiva che sta alla base dell’etica e della nostra essenza
ecologica, che oggi sono tragicamente in pericolo e vanno recuperate attraverso un esercizio assiduo della comunicazione non solo razionale ma anche espressiva ed emotiva, nella cornice della nostra esperienza di vita”.
In questa interpretazione, l’agire eco-consapevole si unisce a precise virtù individuali, che vanno dall’altruismo e dalla gentilezza all’amicizia e all’umiltà, passando per virtù di spiccata intonazione intersoggettiva, come il senso di affinità (sense of kinship), la disponibilità a condividere (sharing) e ad aiutare (helping), l’essere vicino (neighborliness), la simpatia.29