L’antologia I racconti, pubblicata per Einaudi nel 1958, rappresenta la prima importante silloge della narrativa di Calvino. L’assetto dell’opera è all’insegna del difficile: Gli idilli difficili, Le memorie difficili, Gli amori difficili, La vita difficile, laddove l’aggettivo è quasi sempre eufemistico. A riprova di ciò, riguardo agli Idilli – sezione divisa, in fase di progettazione, nei sottogruppi La natura, La guerra, Il dopoguerra, La natura in città, Il mondo delle macchine – Calvino spiega: "Il tema generale è l’impossibilità dell’armonia naturale, con le cose e con gli uomini",4 sostituendo evidentemente "armonia naturale" a "idillio" e "impossibile" al più cauto “difficile”. Per Calvino, d’altra parte, è fisiologico che l’idillio sia difficile o
libro sarebbe stato l'apparizione di questo personaggio antitetico, sul quale non avevo scritto ancora una riga. Solo alla fine ho capito che di Mohole non c'era nessun bisogno perché Palomar era anche Mohole: la parte di sé oscura e disincantata che questo personaggio generalmente ben disposto si portava dentro di se non aveva alcun bisogno di essere esteriorizzata in un personaggio a sé” (da una presentazione edita per la prima volta in RR II, pp. 1402-5). Per Palomar e il suo opposto Mohole vale ciò che Gian Carlo Ferretti scriveva a proposito del Buono e del Gramo, le due personalità del Visconte dimezzato: il ricongiungimento delle due metà avviene all'insegna di “un più elevato livello di coscienza critico-autocritica” (Gian Carlo Ferretti, Le capre di Bikini. Calvino giornalista
e saggista. 1945-1985, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 71).
4 Da una lettera di Calvino a Pietro Citati, datata 2 settembre 1958, in I. Calvino, I libri degli
altri: lettere 1947-1981, a cura di G. Tesio, Einaudi, Torino 1991, pp. 262-264. Cfr. anche Notizie e note sui testi, RR, II, pp. 1437-1439. Gli stessi concetti sono ripresi in una lettera
impossibile: sin dalle sue prime elaborazioni teoriche emerge il pensiero di un autore che quasi vent’anni più tardi, nelle Città invisibili, cercherà quel che non è inferno.5 Si tratta di un’attività intellettualmente eroica, ma impraticabile senza un vasto panorama infernale dal quale estrarre ciò che non somiglia ad esso:
Abbiamo detto – scrive ne Il midollo del leone – che un rapporto affettivo con la realtà non ci interessa; non ci interessa la commozione, la nostalgia, l’idillio, schermi pietosi, soluzioni ingannevoli per la difficoltà dell’oggi: meglio la bocca amara e un po’ storta di chi non vuole nascondersi nulla della realtà negativa del mondo. Meglio sì, purché lo sguardo abbia abbastanza umiltà e acume per esser continuamente capace di cogliere il guizzo di ciò che inaspettatamente ti si rivela giusto, bello, vero, in un incontro umano, in un fatto di civiltà, nel modo in cui un’ora trascorre.6
Tale “intelligenza del negativo”7 anima tutta la produzione letteraria di Calvino ed è il contesto, appunto, in cui può originarsi e farsi strada il suo pensiero utopico e di conseguenza il suo impegno letterario, che non si limita mai a registrare una crisi, né a proporre una pacificazione totale col reale.8
5 “Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” (RR, II, p. 498).
6 SS, p. 22.
7 SS, p. 23.
8 A proposito dell’idillio, si veda anche Opinioni su «Metello» e il neorealismo, «Società», XII, 1 febbraio 1956, pp. 207-211, ora Lettera a Pratolini sul Metello, nel quale “Questa dolcezza, questo idillio, questa generale bontà che domina il libro, c’era sempre stata anche negli altri romanzi tuoi più complessi e costruiti come nel Quartiere e nelle
L’altra emblematica sezione dei Racconti è la quarta, “La vita difficile, cioè le definizioni più complesse e generali d’un rapporto col mondo”,9 che comprende La formica argentina (1952), La speculazione edilizia (1957) e La nuvola di smog (1958). Non è arduo individuare, in questi racconti lunghi, tematiche ecologiche nel senso comune del termine: il rapporto con un regno animale che riesce ancora a essere insidioso e spiazzante, lo sviluppo urbano e la tutela del paesaggio, la lotta all’inquinamento e la produzione industriale.
Similmente, negli Idilli si possono mettere agevolmente in luce il rapporto con gli animali, la perdita di radici e di senso dovuta all’inurbamento (nei racconti che nel 1963 costituiranno assieme ad altri la celebre raccolta di Marcovaldo) e l’alienazione dai propri simili nei rinnovati, meccanizzati e di conseguenza disumanizzanti contesti lavorativi.
Ma le concrete emergenze ecologiche e sociali non sono che conseguenze di una visione del mondo e dell’uomo che ha certo origini antiche e che, innestata in una cultura materiale e scientifica avanzata, si radicalizza, rivela la sua obsolescenza e, peggio, il suo potenziale distruttivo. Per riportare queste tematiche al dibattito contemporaneo, è opportuno rifarsi alla filosofia dell’ambiente e all’ecocritica di cui, in ambito
Cronache, ma lì avevano il senso di termine d’una antitesi, erano sempre avvicinati a una
coscienza del crudele, dello spietato, del torbido, in una parola del negativo, che è il dato fondamentale del mondo in cui e contro cui viviamo e lottiamo. Insomma l'idillio, in margine a una realtà di violenza e strazio e rovina sistematica di sentimenti e destini umani, ha un significato ben preciso, è l'indicazione d’una aspirazione che si strappa faticosamente a una realtà ben diversa, ha quindi un valore di realtà, di realtà difficile, nascosta, continuamente contraddetta, ma ineliminabile, cioè quel tipo di realtà più vera che è compito della poesia scoprire” (SS, I, p. 1239)
9 Lettera a Vittorini, LL, p. 556. Nella lettera a Citati non scrive “d’un rapporto col mondo” ma “del male di vivere”.
italiano, Iovino ha dato un ampio e sistematico quadro teorico.10 Di qui si possono trarre alcuni concetti chiave riscontrabili nella narrativa di Calvino degli anni ’50.
Un primo campo d’indagine è quello che verte sul valore della natura: risulta esso intrinseco, ovvero sussisterebbe anche in assenza del genere umano, oppure è strumentale, servendo solo come mezzo umano per conseguire degli scopi? Nel primo caso la preservazione della natura e della sua varietà può diventare essa stessa scopo; nel secondo, qualora la natura sia d’intralcio al conseguimento di altri supposti vantaggi, non vi è motivo per non disfarsene.
È questo uno dei temi della Speculazione edilizia, amara riflessione sulla trasformazione paesaggistica attuata a danno della Riviera ligure negli anni Cinquanta. Protagonista di questo breve romanzo è l’intellettuale Quinto Anfossi che, forse più per l’illusione di stare al passo coi tempi che per necessità economiche, decide di mettersi in combutta con Caisotti, affarista del cemento.
Il giardino della famiglia Anfossi diventa terreno di scontro tra due inconciliabili tipi antropologici: la madre di Quinto, insegnante in pensione che si dedica amorevolmente alla cura delle piante, e l’imprenditore Caisotti, che vede il giardino solo come un’estensione di suolo abbastanza grande da poter ospitare un nuovo fabbricato in una posizione economicamente favorevole. L’imprenditore, con una faccia falsa, da squalo, da granchio, "con una camicia a quadri da cow-boy",11 lotta fino in
10 Si vedano S. Iovino, Filosofie dell'ambiente, cit. e Ecologia letteraria, cit. A queste opere si rimanda anche per un'ampia bibliografia.
11 RR, I p. 791. La citazione della camicia da cow-boy non è certamente casuale. L'ideologia della conquista e della frontiera è tra i bersagli più comuni dell'ecologia e dell' ecocritica, costituendo un tratto culturale e antropologico che conduce inevitabilmente alla crisi ambientale. Cfr. a tal proposito S. Iovino, Filosofie dell'ambiente cit., p. 67: “Una visione che esclude tanto la salvaguardia del mondo naturale per se stesso, «for its own sake»,
fondo, aggressivamente, per perseguire i suoi scopi, come un leone nella fossa dei Danieli.12 La donna, invece, si fa da parte come una creatura mansueta privata del suo habitat:
dal giardino, tra le piante fitte, i fiori che lasciava afflosciarsi sugli steli senza coglierli, gli arbusti alti, i rami delle mimose, allungava lo sguardo a spiare ogni giorno l’affossare del terreno perduto, poi si ritirava nel suo verde.13
Nel mezzo vi è Quinto, non certo insensibile alla molteplice bellezza della natura –
Era una bella giornata, fiori e foglie sotto il sole prendevano un aspetto di rigoglio gioioso, sia le piante che le erbacce; a Quinto sembrava di non essersi mai accorto che una vita così
tanto, se concepita come uno sfruttamento hic et nunc delle risorse disponibili, una conservazione di tali ricchezze per le future generazioni di esseri umani. Per definire questa posizione estrema, gli interpreti hanno parlato di «etica del cow-boy» o «della frontiera»: esattamente come i coloni europei piegavano alle loro esigenze economiche ed espansionistiche il territorio americano (e con esso, non si dimentichi, le popolazioni native, considerate tutt'uno con la natura selvaggia), così l'uomo occidentale muove alla conquista dell'ambiente che lo circonda, senza porsi alcun problema morale riguardo alla responsabilità e alle conseguenze del suo agire”. Si veda anche G. O. Longo, Il senso e la
narrazione, cit. p. 43: all'economia del cow-boy “il quale non pone alcun freno al proprio
consumo, perché non percepisce la finitezza intrinseca dell’ambiente, non vede che la terra è limitata”, Longo contrappone l'economia dell'astronauta “che, vivendo in un ambiente limitatissimo, tiene conto di tutto, pesa tutto, risparmia su tutto”.
12 “«Pare Daniele nella fossa dei leoni», ma questo modo di pensarlo dalla parte della vittima non gli dava nessun divertimento: aveva bisogno di vederlo come un leone, riottoso e selvatico, e loro tutti una fossa di Danieli intorno a lui, tanti Danieli virtuosi e accaniti come aguzzini, che lo punzecchiavano con forcute clausole contrattuali” (RR, I, p. 834-35).
fitta e varia lussureggiasse in quelle quattro spanne di terra, e adesso, a pensare che lì doveva morire tutto, crescere un castello di pilastri e mattoni, prese una tristezza, un amore fin per le borragini e le ortiche, che era quasi un pentimento.14
– ma che nondimeno rifiuta di tornare sui suoi passi, acconsentendo a costruire sul giardino materno quello che diverrà uno dei palazzi “con le cassette dei gerani tutti uguali”.15
Evidenza testuale di una riflessione sul valore intrinseco della natura – in questo caso degli animali – può essere la figura della personificazione così come si presenta in uno dei racconti di Marcovaldo:
Non conosceva altro bene della vita se non il poter stare un po’ senza paura. Ecco ora poteva muoversi, senza nulla intorno che gli facesse paura, forse come mai prima in vita sua. Il luogo era insolito, ma una chiara idea di cosa fosse e cosa non fosse solito, non aveva potuto mai crearsela. E da quando dentro di sé sentiva rodere un male indistinto e misterioso, il mondo intero lo interessava sempre meno. […] Sapeva che ogni volta che gli uomini cercavano d’attirarlo offrendogli cibo, capitava qualcosa d’oscuro e doloroso: o gli conficcavano una siringa nelle carni, o un bisturi, o lo cacciavano di forza in un giubbotto abbottonato, o lo trascinavano con un nastro al collo... E la memoria di queste disgrazie faceva una cosa sola col male che sentiva dentro di
14 RR, I, p.827.
sé, col lento alterarsi d’organi che avvertiva, col presentimento della morte. E con la fame.16
La descrizione è quella del coniglio velenoso dell’episodio eponimo, la cui resa narrativa è complessa, ibrida. Certamente non si tratta di un antropomorfismo come quello delle favole: l’animale non sta a rappresentare una condizione umana, ma impone un suo proprio dato esistenziale. Si può parlare di personificazione perché i termini usati per descrivere il mondo interiore del coniglio sono, e non possono che essere, prettamente umani. Ma se da un lato tenta di avvicinarsi empaticamente alla sorte dell’animale che sta per tentare il suicidio, dall’altro Calvino sceglie un registro inaspettato, più elevato e meno concreto rispetto al resto del racconto, attribuendo all’animalità del coniglio lo statuto di alterità ineffabile.
La posizione di Marcovaldo verso il coniglio è ambigua (“lo guardava con l’occhio amoroso dell’allevatore che riesce a far coesistere la bontà verso l’animale e la previsione dell’arrosto nello stesso moto dell’a-nimo”17); è più definito invece l’atteggiamento verso la pianta ornamentale nel racconto La pioggia e le foglie, successivo alla raccolta del 1958:
Marcovaldo sgomberava il pavimento dalle foglie cadute, spolverava quelle sane, versava a piè della pianta (lentamente, che non traboccasse sporcando le piastrelle) mezzo annaffiatoio d’acqua, subito bevuto dalla terra del vaso. E in questi semplici gesti, metteva un’attenzione come
16 RR, I, p. 1120.
in nessun altro lavoro, quasi una compassione per le disgrazie d’una persona di famiglia.18
Comportamenti simili sono ravvisabili in molti altri episodi marcovaldeschi e ciò non è sorprendente se la prima descrizione del manovale, in Funghi in città, sottolinea la sua capacità di cogliere e valorizzare gli elementi naturali a discapito di quelli progettati dall’uomo proprio per attirare l’attenzione.19 Tuttavia, in termini ecologici ed evoluzionistici – ed è questo l’aspetto tragico del memorabile personaggio calviniano – nel contesto urbano l’attitudine di cui sopra risulta essere un tratto svantaggioso per la sopravvivenza sua e della prole: oltre a non riuscire ad interpretare l’ambiente che abita e le situazioni in cui incorre, in almeno tre occasioni Marcovaldo porta o rischia di portare a casa, ai figli, del cibo velenoso o contaminato. La città e l’economia contemporanea rendono obsoleto quel poco di valore normativo che ancora poteva avere la natura:20 tentare di conservarne il senso estetico ed etico senza soccombere all’ambiente antropico è appunto un idillio difficile, un’armonia impossibile.
18 RR, I, p. 1138.
19 “Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l'attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. I nvece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse in una tegola, non gli sfuggivano mai: non c'era tafano sul dorso d'un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notass e, e non facesse oggetto di ragionamento; scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza” (RR, I, p. 1067)
20 Cfr. a tal proposito L. Pellizzoni e G. Osti, Sociologia dell'ambiente, il Mulino, Bologna 2008, pp. 34-36.