Il potere che alla fine del Pianeta irritabile viene sconfitto dall’ormai animale Mamerte e dai suoi compagni, nelle Mosche del capitale (1989), inquietante apoteosi del tardo capitalismo, è vivo e vegeto nella sua fredda
181 Cfr. Longo, Il senso e la narrazione, cit., p. 166: “se accettiamo la lezione darwiniana, dobbiamo ammettere che la nostra mente, al pari di quella degli altri animali, serve a mantenerci in vita nel mutevole ambiente che di volta in volta ci ci rconda […]: di fatto siamo animali e la nostra mente è un prodotto dell’evoluzione, al pari dell’apparato digerente”.
incarnazione economico-finanziaria di rapporti aziendali, di equilibri politici e sindacali.
Esso è, dopo la prima natura biologica e la seconda natura culturale, un’ulteriore natura, astratta, di tipo informazionale e relazionale, attaccata all’uomo come un pervicace parassita, un esempio perfetto di sistema complesso autoreplicantesi:
un vasto e potente apparato economico, alimentato dal denaro e intessuto di tecnologia, autoreferenziale, privo di ideologie forti e animato solo da una vaga ma potente tendenza, tipica degli organismi biologici, al mantenimento e al rafforzamento delle proprie strutture. […] Valendosi dell’apparato e della tecnologia e innervandosi nella rete, questa creatura tenderebbe ad assoggettare a sé tutti i desideri e tutte le aspirazioni individuali, all’insegna di una cieca e acefala volontà di essere183.
All’interno di questo sistema, si muove il professor Bruto Saraccini, alter ego di Volponi, il quale ripercorre attraverso di esso la sua vicenda aziendale, analizzando nello specifico gli eventi e il contesto che lo hanno portato dall’Olivetti alla Fiat.
Fine intellettuale e riformatore moderato, Saraccini, che spera di poter contribuire al bene della società dall’interno di una struttura di potere come quello dell’azienda, ha sì una saggezza sistemica in grado di leggere i fenomeni complessi, ma non conosce (e forse non esiste) mondo fenomenico che non sia l’azienda sul quale poter esercitare quella che lui s’illude essere la sua azione politica e culturale:
183 Longo, Il nuovo Golem, cit., p. 10.
Saraccini accolse di buon grado la domanda, non solo con il desiderio di concedergli l’aiuto richiesto, ma anche col proposito di raccogliere informazioni sul funzionamento dell’organizzazione tali da permettergli la scelta di politiche e di strumenti adatti ad affermare sempre più la propria influenza e a provocare insieme i cambiamenti necessari al rinnovamento dell’azienda. R. diventava per lui uno strumento attraverso il quale procurarsi preziose notizie sulle relazioni interne fra le varie direzioni e sui modelli comunicazionali dell’azienda, nonché un mezzo per influire sull’intero sistema184.
Questo sistema-mondo, identificato da Nasàpeti, capo di Saraccini, con il denaro185, per preservarsi, deve inglobare sempre nuovi elementi186, rafforzare sempre di più quelli inglobati, uniformare quanto possibile gli elementi che lo costituiscono187, in modo che possano diventare sempre più compatibili con i suoi automatismi.
Automatici gli operai, automatiche le trattative commerciali,
Più ancora degli altri, i dirigenti commerciali ridono automatici e automaticamente sui loro particolari automatismi, grandi quanto necessari, decisivi per la sorte
184 RP, III, p. 43.
185 L’industriale spiega al suo responsabile del personale che “i soldi sono la cosa più bella del mondo, e che quanti più sono più bello fanno il mondo… e […] che i soldi sono il mondo, il mondo vero, l’unico possibile abitato dall’uomo centro dell’universo” (RP, III, p. 18).
186 Nasàpeti spiega a Saraccini: “Il nostro compito, ormai, a parte il profitto, è quello di tenere in piedi lo Stato, e non tanto per far guadagnare voi, quanto per reggere il sistema, in modo che alla fine lo Stato si identifichi con noi, consideri la nostra salute come propria, le nostre compatibilità come generali e decisive” (RP, III, p. 147).
stessa del mondo, affidata, come si sa, all’armonia automatica degli scambi automatici188.
Saraccini è consapevole del pericolo di completa assimilazione e fa il necessario per premunirsi, per avere sempre una consapevolezza critica, ma il sistema-industria-azienda-capitale, memeticamente quasi invincibile, riesce a fare breccia e anche il pensiero di Bruto, “specie di notte, tra i fantasmi del cosmo e quelli dei suoi midolli memorizzati e anche programmati, rischia di essere soltanto, goccia per goccia, un automatismo verbale”189.
Nasàpeti non ha alcun ritegno a spiegare al sottoposto “le sue idee servono… se praticate con giudizio, come lei ha sempre dimostrato di saper fare… servono a creare consenso”190, ma Saraccini continua a lavorare, se non perché il sistema si riformi, fore almeno per controbilanciare ideologie come quella dell’amministratore delegato Sommersi Cocchi, che lo renderebbero ancora peggiore:
Quando penso a un’industria, al suo corpo e alla sua attività, penso a una macchina bellica, nucleare, capace di grande velocità e forza d’urto, che spazza via il nemico, che avanza
188 RP, III, pp. 188-189.
189 RP, III, p. 187. Cfr. G. Bateson, Effetti della finalità cosciente sull’adattamento umano, in Id, Op. cit., pp. 486-487. “Quando il signor Rossi entra nella sala del consiglio della sua società, egli deve limitare strettamente il suo pensiero ai fini specifici della società o a quelli di quella parte della società che egli ‘rappresenta’. Per fortuna non gli è del tutto possibile far ciò e alcune decisioni della società sono influenzate da considerazioni che scaturiscono da parti più ampie e più sagge della mente. Ma, idealmente, il signor Rossi dovrebbe agire come una coscienza pura, senza correttivi: una creatura disumanizzata”.
e che conquista intanto che ordina e lavora secondo il proprio intento trionfale191.
Riscritto dal capitale, il galileiano libro della natura è diventato il “gran libro dell’azienda”192, pieno di conti, comprensibile a pochi e a disposizione di ancor meno. Nel contesto delle Mosche, la natura è addomesticata, riprodotta artificialmente, simulata193. Animali, piante, oggetti d’arredamento, tutti ugualmente antropomorfizzati, partecipano in modo funzionale alle dinamiche del sistema e, in lunghe interpolazioni dialogiche o monologiche, si animano e prendono la parola per esaltare il loro ruolo nell’azienda, per raccontare le loro rivalità, complicità, alleanze, speranze di carriera, le stesse degli uomini, integrati come loro nel sistema. Parlano, discutono e bisticciano il pappagallo, le poltrone, le borse, il calcolatore, la luna. Più di tutti si esprimono gli onnipresenti ficus, che vivono come un privilegio l’essere stati strappati dal loro ambiente naturale, l’essere l’illusione, per i dirigenti d’azienda, di avere ancora un rapporto con la natura:
Noi siamo la creativa cultura industriale. Non abbiamo più legami con natura e climi ancestrali; niente ci inibisce e ci condiziona. Abbiamo lo spirito e il metabolismo dell’impresa. […] I dirigenti guardano a noi per pensare e
191 RP, III, pp. 58-59.
192 RP, III, p. 15.
193 Cfr. Forni, Op. cit., p. 123. “La natura è presente, ma quale ornamento per gli interni, plastificata, antropomorfica, dotata di parola ma priva di alterità, mentre il canto del canarino è assimilato ai suoni della televisione e a quelli della catena di montaggio di cui Saraccini e fine conoscitore, la vegetazione e la neve diventano quelle della moquette, ridotte ai termini di una metafora”.
decidere; seguono il nostro verde e i rapporti del nostro ordine194
[…] essi si rivolgono a noi come per rinfrescarsi la mente, per trovare sul nostro splendido lucore un rimbalzo per i loro pensieri, un ordine dentro le nostre compatte e affilate foglie per la loro riflessione e per la ripresa delle loro considerazioni195.
Saraccini comprende questa illusione, anela a una natura diversa, ed essa si manifesta nella sua fervida e grottesca immaginazione:
Il ficus ornamentale è pieno di scimmie che sghignazzano per deriderlo da ogni foglia: laide, ignude, rosa, a salti, in volo perfino tra le tende, a scomporre le rotonde pieghe, solenni vestigia dell’autorità; serpenti schifosi gonfiano la moquette; tarantole s’annidano sui fili delle lampade; fra i telefoni si celano piccoli mammiferi sconosciuti appena partoriti, ancora ciechi e molli196.
Nell’essere quasi privo di possibilità di intervento, nell’essere mondo che guarda il mondo, azienda che guarda l’azienda, la sorte di Saraccini è simile a quella di Palomar: “In quell’ufficio, una specie di osservatorio, un po’ simile a quello immaginario dell’avo Giacomo, Saraccini scriveva, pensava, leggeva, riceveva gente. Un ornamento secondo alcuni, un abbellimento voluto dal vecchio Teofrasto, un vanto, un cogitatorium verso la realtà”197.
Un’immagine antitetica degli esseri viventi assoggettati all’ambiente umano e alla razionalizzazione capitalistica che troviamo nelle
194 RP, III, p. 199.
195 RP, III, p. 264.
196 RP, III, p.69.
Mosche, è la capra di un racconto del 1984, La fonte, pubblicato sulla rivista «Marka» e recentemente riproposto da Emanuele Zinato nel volume I racconti198, assieme ad altri brani editi o inediti, perlopiù poco noti e scarsamente frequentati dalla critica.
Il racconto parte dalla descrizione della peste del 1348 e dalla morte dei pittori senesi Ambrogio e Pietro Lorenzetti. Essa giunge come evento inaspettato, come inspiegabile punizione divina:
Chissà come è arrivata questa pestilenza: prende chi gli pare e nessuno sa come resisterle anche perché ci siamo arresi prima ancora di prenderla. Ormai è tardi. È dentro il nostro corpo, ogni suo concetto e parte, più dell’anima di dio199.
La loro fine è solitaria e i loro capolavori vengono lasciati incustoditi, alla mercé di ladri senza scrupoli, tra cui un mercante ferrarese giunto apposta per saccheggiare le opere dei fratelli. Ma nella dimora dei Lorenzetti giunge anche una capra, “non ebbra ma trattenuta da una serietà ammonitrice. Il mercante pensò di catturarla e di servirsi di essa come bestia da soma. La capra si fece raggiungere, ma non comandare”200. Nella precaria condizione dell’umanità sconvolta dalla peste, la capra ingaggia una lotta contro il mercante e riesce a sopraffarlo, instaurando così il “regno della capra”201, tra i cadaveri di uomini e bestie, tra l’oro e il legno delle tele e delle cornici, in un’immagine di riscatto animale contro ogni manifestazione umana: sia le più degradanti del potere e della rapina, sia le più nobili dell’arte. Il testo sembra, per alcuni paragrafi, diventare
198 P. Volponi, I racconti, a cura di E. Zinato, Einaudi, Torino 2017.
199 Ivi, p. 51.
200 Ivi, p. 55.
“caprocentrico”: il comportamento della capra è descritto da frasi semplici e sconnesse, senza un’intenzionalità d’azione:
Temeva il viscidume dei bulbi e il latte delle radici. Percorse il confine del campo completamente due volte e proseguì salendo il palco della loggia. Provò a leccare il verde di una tavola e annusò le ocre delle scodelle. Trovò un fondo di aceto e sale dentro un bacile e vi immerse il muso senza bere.202
E nel frattempo, padrona di quella piccola parte di mondo che è la casa dei due defunti pittori, la capra si muta linguisticamente in caprone e infine ariete.
Ma il suo regno ha vita breve: uscita dalla casa viene aggredita da un gruppo di affamati, che riportano il mondo al dominio umano:
Tutto il capo reciso i cinque tenevano e si contendevano, che ancora la capra stava in piedi sulle sue quattro zampe appena tremanti. Questo fu il primo avvenimento che diede inizio alle ladrerie, alle abbondanze, alle baldorie che seguirono la peste203.
Il corrispettivo saggistico delle Mosche e della Fonte, ma in generale di tutto il pensiero ecologico di Volponi, si trova in Etna: natura e scienza, pubblicato su «Alfabeta» nel 1983. Volponi constata la sorpresa di trovarsi di nuovo di fronte ad una natura quasi leopardiana che, indifferente all’esistenza e all’azione dell’uomo, si rivela soverchiante e imprevedibile, per noi esseri umani che “sapevamo ormai somministrarcene
202 Ibid.
automaticamente le essenze corroboranti e poetiche in pillole e pellicole”204.
Anche il semplice prelievo dei suoi beni, detti materie prime, è violento, tanto che ne strappa e mischia la cava e la qualità. Infatti, oggi davanti all'Etna, la nostra scienza non sa escogitare niente di meglio che un bombardamento distruttivo, proprio come un selvaggio contro l'arnia fitta e ricolma di un’ape che l'abbia punto205.
La natura e l’uomo devono salvarsi reciprocamente, perché sono l’uno misura dell’altro: il patrimonio culturale dell’umanità non ha valore, senza l’addestramento estetico che solo la natura, vera, non addomesticata, può dare: “Non basterebbe salvare i grandi testi, i documenti, le arti, gli organi perché non ci sarebbero più i luoghi, i sentimenti, la salute che potrebbero consentire di riconoscerli e di apprezzarli”206.
204 RP, II, p. 702.
205 RP, II, p. 703.
C
APITOLOIII.
Fantascienze alla rovescia
Se è attuazione di sogni ancestrali il poter volare con gli uccelli e navigare con i pesci, penetrare nel corpo di gigantesche montagne, inviare messaggi con la rapidità degli dèi, scorgere e udire ciò che è invisibile e lontano, sentir parlare i morti, [...] allora la ricerca odierna non è scienza soltanto: allora è anche magia.
Robert Musil (L’uomo senza qualità)