La “rivisitazione” del concetto di carriera e conseguentemente la rifles- sione attorno alle competenze per il career management conducono verso la necessità di riflettere sul costrutto di professionalità e dunque di experti- se come si diceva in precedenza.
Invero, per svolgere al meglio una determinata attività è necessario pos- sedere un bagaglio di conoscenze diversificate e trasversali talvolta non comprese nel sapere teorico appreso durante gli studi. Le trasformazio- ni subite dal mercato del lavoro hanno visto il passaggio da una concezione della professionalità definita da confini netti e chiari a quello che è stato de- finito neo-professionalismo (Bosio, 2004), caratterizzato da professionalità più ampie che esulano dal semplice sapere teorico-pratico e necessitano di una flessibilità sia nelle competenze che nelle conoscenze. Ai nuovi profes- sionisti è richiesta la capacità di sapersi destreggiare efficacemente in conte- sti flessibili e multiformi, spesso caratterizzati dal confronto, dalla compe- tizione, e dalla cooperazione di professionalità molto differenti fra loro che devono trovare il modo non solo di coesistere ma anche di collaborare.
Nell’attuale contesto lavorativo, le professioni sono caratterizzate da una commistione di saperi, provenienti da diversi settori disciplinari, dove quello che definisce la professionalità non è il solo sapere ma il saper fa- re, ossia il saper applicare le competenze possedute ad una realtà lavorativa contingente (Sarchielli, 2012).
La complessità dello scenario lavorativo attuale ha portato ad un sostan- ziale cambiamento della concezione della professionalità e del relativo si- stema di competenze. A partire dalla seconda guerra mondiale la crescen- te importanza del lavoro knowledge-based, in particolare nelle economie occidentali, ha portato all’emergere di una nuova classe di lavoratori: i la- voratori della conoscenza – knowledge-based workers – (Brinkley, Fauth, Mahdon, Theodoropuolou, 2009). Per i knowledge workers la conoscenza è
la materia prima, mentre la nuova conoscenza è il loro prodotto (Davenport, 2005). In altre parole, il loro lavoro non consiste nella mera applicazione di conoscenze pre-acquisite, bensì nella continua acquisizione, revisione e ap- plicazione delle stesse; un knowledge worker non smette mai d’imparare tan- to che la capacità di apprendere costantemente è diventata parte integrante del loro lavoro (Fontana, Milligan, Littlejohn, Margaryan, 2014).
Davenport (2005) descrive il knowledge worker come un lavoratore con un alto livello di expertise, istruzione o esperienza, evidenziando come lo scopo primario del suo lavoro comprende la creazione, distribuzione o appli- cazione della conoscenza. Il luogo di lavoro, nelle organizzazioni knowledge intensive, è considerato un contesto in cui l’apprendimento autonomo ed ef- ficace è parte integrante del lavoro quotidiano (Harteis, Billett, 2011). Al la- voratore, quindi, non si chiede solamente di portare nell’azienda le proprie conoscenze e competenze, ma di curarle, mantenerle e svilupparle, pena la veloce obsolescenza in un mercato del lavoro in continuo cambiamento.
In questo scenario, una connotazione specifica riveste il concetto di competenza che assume una caratterizzazione multiforme e sfaccettata in grado di interpretate il valore distintivo dell’individuo nell’organizzazione.
La letteratura internazionale ha sancito il passaggio da un concetto di competenza come dimensione puntuale e stabile nel tempo ad una visione di competenza flessibile ed in continua evoluzione. In particolare, la que- stione si è focalizzata su chi sia il “possessore” delle competenze se l’in- dividuo o il gruppo. In letteratura sono presenti due concezioni contrappo- ste: le competenze come disposizioni stabili dell’individuo e le competenze come risorse sociali, distribuite e situate, in quanto condivise non solo fra le persone ma anche negli artefatti e negli strumenti con cui specifiche co- munità sociali e culturali realizzano le loro pratiche. In questo caso acqui- siscono rilevanza le pratiche organizzative e la formazione aziendale nel- le quali far emergere, crescere e circolare tali competenze (Perulli, 2007).
Tuttavia, la sostanziale differenza fra i due concetti risiede nel suo pro- cesso di acquisizione: la competenza è un sapere in uso, è dunque stretta- mente legata al contesto e alla capacità di autoregolazione dell’individuo.
La persona competente è quella in grado di richiamare alla memoria quanto imparato durante una situazione passata ed applicarlo ad un conte- sto contingente in maniera efficace. La competenza viene dunque vista co- me un “sapere in azione” che ha la sua realizzazione quando applicata ef- ficacemente ad una situazione specifica (Sarchielli, 2012), poi generalizzata come esperienza, ed infine riapplicata, con le dovute modifiche ad una si- tuazione differente ma similare alla precedente, tanto da richiamare tale abilità alla memoria.
Il dibattito sulle competenze esordisce negli anni ’70 negli Stati Uniti nell’ambito degli studi di psicologia delle organizzazioni e vede il suo pie-
no sviluppo negli anni ’80 (Boyatzis, 1982; McClelland, 1984, 1989) quan- do viene introdotto il concetto in Europa ed in Italia.
In questo scenario così complesso ed integrato, dove il lavoro diven- ta sempre più differenziato e mutevole, sono cambiate anche le richieste di competenze ai lavoratori. Le conoscenze apprese durante il percorso sco- lastico e universitario risultano non essere sufficienti per agire nel nuovo mondo del lavoro. È richiesta l’abilità di mettere insieme competenze ed expertise e di applicarle in un contesto non conosciuto. Da qui la doman- da di flessibilità, lavoro di gruppo, competenze comunicative. Agli indivi- dui è inoltre chiesto di portare tale apprendimento durante tutto l’arco della propria vita, per essere preparati a prendere parte anche a nuove forme di esperienza e di conoscenza e di sviluppare in quell’occasione nuove com- petenze. È necessario possedere non le conoscenze di per sé, ma l’abilità di sfruttare e nel caso di scartare le conoscenze (Barnett, 1996).
La conoscenza non è dunque vista come una qualcosa di “dato”, ma che nasce e cresce nella sua attualizzazione. In questo caso, dunque, si parla di competenza come sapere in uso (Sarchielli, 2012), per rimarcare la transi- torietà ma nello stesso tempo la contingenza del concetto di competenza.
Quello che è richiesto ai lavoratori attuali è, dunque, essere in grado non solo di essere competenti ma, anche, essere coscienti di tale competenza e di applicarla in contesti contingenti.
La matrice teorica di riferimento alla teoria delle competenze si rifà ad una teoria multifattoriale, nella quale esse sono concepite come procedure di soluzione finalizzate, apprese, organizzate a livello della struttura cogni- tiva in unità più ampie ed inferibili dalle prestazioni (Sarchielli, 2012).
Secondo questo modello denominato delle risorse personali, dei reper- tori di abilità e del contesto, si possono distinguere tre sottosistemi in- terconnessi attivati e modulati dalle occasioni: 1) le risorse della perso- na rappresentate dalle conoscenze, i work habit (rapporti sociali, valori, atteggiamenti, motivazioni), l’identità (autoefficacia, stima di sé, autova- lutazione, sentimenti di appartenenza); 2) il repertorio di abilità situate il quale è formato da tre classi di operazioni: diagnosticare le caratteristiche del compito e dell’ambiente, relazionarsi in maniera adeguata con le ca- ratteristiche dell’ambiente e affrontare l’ambiente a livello cognitivo, af- fettivo e motorio in modo appropriato; 3) il contesto organizzativo che comprende il comportamento lavorativo atteso, gli obiettivi situaziona- li, le condizioni di esercizio, le condizioni organizzative in cui il sogget- to è immerso.
Queste categorie di abilità/capacità trasversali possono risultare altamen- te trasferibili e rappresentano uno dei modi per mantenere la posizione at- tiva della persona nei confronti delle esigenze/richieste del contesto (Sar- chielli, 2012).
Secondo questa definizione delle competenze, la trasferibilità è parte in- tegrante del concetto stesso. La discussione relativa al trasferimento di competenze ha portato alla luce diversi punti di vista talvolta contrastanti fra loro. È contestato non solo la modalità con cui tale trasferimento avvie- ne, ma se sia possibile un trasferimento dell’apprendimento e dunque con- seguentemente delle skill. Le prospettive di analisi sono diverse. Da un la- to la psicologia del lavoro e delle organizzazioni, così come tutta la pratica relativa alla gestione delle risorse umane, ha nel trasferimento delle compe- tenze il suo fondamento sia teorico che pratico. La possibilità di misurare, sviluppare e valutare le competenze è alla base del reclutamento e della se- lezione del personale, della valutazione delle prestazioni, dello sviluppo di programmi formativi.
Il trasferimento di una competenza appresa da un contesto ad un altro differisce dal trasferimento del sapere teorico per esempio appreso in am- bito accademico all’ambito professionale. Le competenze in quanto tali rappresentano un sapere procedurale fortemente ancorato al contesto in cui vengono apprese; dunque, se nel trasferimento dalla teoria alla pratica l’a- zione coinvolta è la trasposizione e concretizzazione di un concetto teorico ad una situazione contingente, per quanto riguarda le skill, quello che entra in gioco è la capacità di diagnosi dell’individuo e di applicazione di pro- cedure di azione concrete apprese in precedenza o meno più che di cono- scenze astratte (Pisanu, Fraccaroli, 2009).
Da un punto di vista maggiormente teorico e più legato al background re- lativo alle teorie sull’apprendimento, tale trasferibilità è molto dibattuta. In particolare, essendo l’apprendimento in generale un processo strettamente le- gato al contesto in cui avviene, la trasferibilità di tale apprendimento ad un contesto differente non è così semplice e scontata (Bailey et al., 2010).