Intendiamo per carico minimo di mano d'opera l'obbligo, assunto per contratto dai datori di lavoro agricolo, di impiegare un numero minimo di lavoratori per ogni unità o gruppo di unità di superficie : un uomo ogni 6, ogni 5, ogni 4 ettari, ecc., secondo la natura e le esigenze delle coltivazioni, secondo la disponibilità di mano d'opera sul posto. Un tale obbligo fu introdotto per la prima volta, crediamo, nel contratto collettivo di lavoro del Bresciano, nell'anno 1919, e da allora fu adottato in molti contratti conclusi nella vallata del Po. Ora è caduto in disuso, non restando di esso cbe qualche traccia in ben pochi contratti agrari.
Sembra a chi scrive, che i principi su cui si basa questa clausola siano tali da meritare uno studio accurato, anche perchè non è diffì-cile constatare, cbe su di essa sono stati emessi e si emettono giudizi troppo rapidi e sommari, che meriterebbero una attenta revisione. Anche il chiarissimo prof. Fabio Luzzatto — di solito così diligente esaminatore delle questioni che egli sottopone al suo studio — in un suo scritto apparso ultimamente su questa rivista (1), accennando al carico minimo di mano d'opera, scrive: « Dire che così (cioè con l'ap-plicazione del carico minimo) la mano d'opera concorre a determinare l'intensificazione delle colture ed il miglioramento delle terre, non ci sembra conforme a verità; mentre ci sembra invece cbe l'assunzione di mano d'opera avventizia obbligatoria si risolva in un onere di beneficenza a carico dell' impresa e costituisca un aggravio, cbe non è morale perchè non è spontaneo, che non è giuridico perchè non è libero, che non è economico perchè facilmente va contro alla'legge delle proporzioni definite, quando costituisce un carico di mano d'opera sproporzionato all'impresa e che è imposto e non adottato diretta-mente ed esclusivadiretta-mente dall'imprenditore ».
Vale dunque la pena che se ne parli diffusamente anche in una rivista come La Riforma Sociale, che si propone di studiare obbietti-vamente tutti i problemi che si agitano nel campo economico.
(1) F. LUZZATTO, Osservazioni sopra i concordali collettivi di lavoro agrario
Dal punto di vista sindacale il carico minimo di mano d'opera fu determinato dalla necessità di prevenire quei datori di lavoro, i quali reagivano contro l'aumento dei salari nelle campagne col ridurre le giornate di lavoro. Reazione che in agricoltura è possibilissima. Vi sono nell'esercizio dell'agricoltura due categorie di lavori : quelli che sono assolutamente indispensabili (aratura, semina, raccolta, ecc.) e quelli che, pur avendo una grande importanza, non danno risultati immediati e diretti e che possono quindi essere rinviati. Se il rinvio si prolunga indefinitamente, la produttività del terreno viene a sof-frirne ; ma la necessità o la convenienza dell'oggi fanno dimenticare presso molti la necessità e la convenienza del domani; e l'immediato tornaconto dell'imprenditore fa spesso dimenticare, che una diminu-zione di produdiminu-zione ha sulla società ripercussioni, di cui anche gli imprenditori pagano le spese. Avviene così che se, con un salario-orario a, in un'azienda, si compiono 2000 giornate di lavoro, con un salario b superiore ad a l'imprenditore tende a far compiere un numero di giornate minore di 2000. L' aumento di salario viene per tal modo annullato dal diminuito guadagno complessivo del lavora-tore e l'esercizio dell'agricoltura viene trascurato con pregiudizio della produzione.
È stato osservato in questo caso: « E allora conviene ai lavoratori di limitare le loro richieste entro il limite della capacità dell' impresa agraria. Quando essi, favoriti dalla loro organizzazione, oltrepassano quel limite, una reazione diventa inevitabile : questa della riduzione delle giornate di lavoro è la prima che si presenti ai- coltivatori ».
L'osservazione in astratto è esatta. Quando il salario supera il limite massimo di capacità delle imprese, il margine conseguito oltre quel limite tende inesorabilmente ed automaticamente al suo annul-lamento, o per mezzo dell'aumento del costo di produzione che porta ad un aumento del costo della vita, o con la riduzione — o la cessa-zione — dell'attività dell' impresa che riduce la quantità di lavoro. Ma, quando dall'astrazione si scende alla realtà, la questione si pre-senta meno semplice. Anzitutto : quando diciamo, che il salario non deve superare il limite di capacità dell'impresa, intendiamo forse par-lare della capacità di ciascuna impresa? Fra tutti gli imprenditori c'è colui che sa investire bene il suo capitale e sa conseguire un profitto considerevole superiore alla media, e c'è colui che — o per malinteso senso di economia, o per incapacità tecnica e finanziaria — non sa conseguire che un profitto infimo e vuol rifarsi sui salari per man-tenere il suo bilancio in una situazione possibile. I lavoratori dovranno adattare le loro domande di salario e i loro bisogni alla situazione particolare di ciascuna di queste imprese? Nessuno potrebbe sostenere una tesi siffatta. E allora è inteso che, quando si tratta del limite di
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9capacità delle imprese, noi parliamo di un limite medio normale di determinate imprese, in un determinato spazio e in un determinato tempo.
In secondo luogo : come si può stabilire obbiettivamente questo
limite medio normale? Per restare nel campo dell'agricoltura, bisogna
subito osservare che gli agricoltori in massima non tengono nessuna contabilità, limitando più spesso i libri contabili ad un registro-memo-riale per segnarvi gli incassi, i pagamenti, la scadenza dei crediti e dei debiti. In Italia non hanno trovato fortuna — e chi sa se la tro-veranno in seguito — gli Uffici di contabilità agraria, che all'estero, specialmente in Germania e in Svizzera, sono cosi diffusi e dànno cosi buoni risultati. Ben rari sono pertanto quegli agricoltori, i quali potreb-bero dirsi in grado di stabilire obbiettivamente il grado di capacità, reale e potenziale, della loro impresa a fornire lavoro e a pagare salari. In massima gli agricoltori, nell'esame della situazione della loro impresa, procedono a tentoni, dominati da una paura di troppo grosse riduzioni di profitto, che li fa diffidenti contro le innovazioni tecniche e contro qualunque aumento di spesa, a cominciare da quella del lavoro. Giova a questo punto osservare, che la reazione contro l'aumento della spesa per il lavoro è ordinariamente più sentita e più viva che la reazione contro ogni altro aumento, anche se ragguarde-vole, anche Se ingiustificato. In questo stato di cose — là dove domina la conduzione delle aziende in economia mediante l'assunzione anche e soprattutto di personale avventizio — l'agricoltore trova .facile il mezzo di reagire contro l'aumento dei salari con la riduzione delle giornate di lavoro. E più lo trovano gli agricoltori meno abili e meno diligenti. Che sanzione c'è contro costoro?
Una tale riduzione determina ripercussioni gravi, soprattutto nelle zone dove la disoccupazione agraria imperversa. Non ci risponda che se — per esempio — nella vallata del Po c'è esuberanza di mano d'opera in relazione al bisogno, per tale esuberanza non c'è altro rimedio che l'emigrazione. Perchè tale affermazione potesse apparire giusta, bisognerebbe che l'esuberanza fosse continua in tutta la durata dell'anno. Invece, nella vallata del Po si tratta di disoccupazione sta-gionale: la mano d'opera è tutta richiesta, e talvolta non è neanche sufficiente, nei mesi di raccolta, dal giugno al settembre; è meno richiesta nei mesi in cui si fanno i lavori di preparazione (marzo, aprile, maggio, ottobre, novembre); è quasi tutta disoccupata negli altri mesi. La densità della mano d'opera in quella regione è deter-minata dal bisogno che si ha di essa nel periodo della massima atti-vità dei lavori. Dato che l'emigrazione potesse determinare l'equilibrio fra il bisogno e l'offerta di mano d'opera nei mesi di minore attività, essa determinerebbe in compenso uno squilibrio dannoso nei mesi di massima attività. È anche per questo che la mano d'opera resta sul posto, cercando lavori pubblici per i mesi in cui essa non è richiesta
per i lavori di campagna, sforzandosi con ogni mezzo di assicurarsi la maggior quantità possibile di lavoro; lottando per assicurarsi nelle giornate di lavoro un salario cbe basti alle famiglie dei lavoratori anche per le numerose giornate di disoccupazione.
In un ambiente e in condizioni siffatte è sórta la clausola del
carico minimo di mano d'opera. *
« * « Violenza ! » è stato affermato.
Ciò dipende dal modo della sua applicazione. Qualora si preten-desse di prendere, come unica misura per stabilire il carico minimo, la quantità di mano d'opera disponibile sul posto, senza nessuna con-siderazione per il limite dei bisogni delle aziende, violenza sarebbe, malgrado il buon intento delle organizzazioni. Chi scrive non pensa che sia sufficiente giustificazione — per un carico minimo applicato senza altro intendimento che non sia quello di mettere a posto, comunque, della mano d'opera — l'affermare che così si determina un progresso nei sistemi di coltivazione e nella produzione. No: l'impresa ha, nel presente, le sue esigenze e i suoi limiti, oltre i quali c'è il fallimento; e, quanto alla introduzione di miglioramenti agrari, resta sempre da osservare, che le anticipazioni non possono essere illimitate e che il risultato di un illimitato aumento del lavoro è inferiore alla spesa, se ad esso non si accompagna un corrispondente aumento in tutti gli altri elementi della produzione.
Il carico minimo di mano d'opera, come principio, deve proporsi
un compito limitato: impedire la discesa dell' impiego di mano d'opera
al di sotto di un livello normale obbiettivamente constatabile. Quando
mai, se necessità del momento costringessero a forzare quel livello per oltrepassarlo, il carico deve restare tale da essere sempre soppor-tabile dall'impresa, come essa è o come può essere, senza pericolo di crisi, che farebbero ricadere le loro conseguenze anzitutto sul bilancio dei lavoratori.
Ecco un problema cbe si presenta — non certamente facile — a chi deve disciplinare l'applicazione del carico minimo: come si possa sta-bilire questo livello normale dell'impiego della mano d'opera. Non c'è nessuna difficoltà a riconoscere, che in passato si procedette a casaccio e cbe qualche volta si sono commessi errori veramente gravi. Ma a chi si deve imputare un tale malanno, se mancavano alle orga-nizzazioni padronali e dei lavoratori gli organi e i mezzi per proce-dere ad un esame obbiettivo e minuto della situazione delle aziende agrarie in ciascuno territorio? Così è avvenuto cbe in alcune provinole della vallata del Po, le quali hanno una zona arborata e intensamente coltivata, e una zona nuda e coltivata con sistemi piuttosto estensivi, si applicò per tutte le zone lo stesso carico minimo di mano d'opera
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9con grave pregiudizio per l'economia delle aziende. Sta di fatto che, dovendosi tener conto della capacità media normale delle aziende a sopportare un carico di mano d'opera, non si possono considerare insieme zone agricole aventi caratteristiche ed esigenze del tutto diverse.
Occorre un organo il quale abbia i mezzi e l'autorità di suddividere il territorio di ogni provincia in tante zone, entro le quali le aziende agrarie presentano una certa uniformità di caratteri e di esigenze, per
le quali sia possibile stabilire il carico di mano d'opera cbe nei diversi mesi dell'anno esse normalmente assumono. Carico medio, beninteso : una specie di linea che divide gli agricoltori in due categorie : coloro cbe coltivano almeno secondo le norme tecniche riconosciute come correnti nel luogo e nel tempo, e coloro che — nei loro metodi di col-tivazione — non seguono le norme comuni. Fra questi, gli agricoltori cbe riducono la quantità disponibile di lavoro per reagire contro l'aumento dei salari. Il carico minimo di mano d'opera vuol costrin-gere gli agricoltori compresi nella seconda categoria non a fare, come si afferma, dell'agricoltura di lusso, bensì a non fare dell'agricoltura
di rapina; a mettersi non con gli ottimi, ma con quelli che
rappre-sentano la media locale.
Si applica qui il criterio proposto dal prof. Serpieri, per stabilire il limite entro il quale è ammesso il diritto di indennizzo per i miglio-ramenti apportati nelle aziende dagli aflitluali (1): « A me sembra — egli scrive — che fra i diversi modi di usare del fondo, uno ve ne sia il quale risponde in modo soddisfacente alla domanda posta: in quanto è il modo, vorrei dire, tacitamente inteso quando il proprie-tario dà in affitto il fondo come strumento di produzione agraria. È quel modo istesso, che serve di base alle valutazioni di ogni perito, allorché questi intende di determinare il valore commerciale del fondo: è, cioè, quel metodo ordinario che, nel fondo in questione, sarebbe applicato da un comune agricoltore, il quale non eccella per il pos-sesso di particolarissime attitudini, nè al contrario, sia un inetto. È quel metodo ordinario, che è, quindi, comunemente seguito dai più degli agricoltori del territorio che si considera in fondi analoghi a quello preso a considerare. Se per l'applicazione di detto metodo il fondo manca di qualche necessaria condizione, vuol dire che esso si presenta, in paragone degli analoghi e comuni fondi di zona, come un organismo difettoso; riparare a tali defìcenze, ponendo il fondo nelle condizioni ordinarie, normali, proprie degli analoghi fondi del territorio, è, bensì, un miglioramento di esso, ma solo nel senso che ne elimina una deficenza, cbe ripara a una condizione eccezionalmente trascurata del fondo stesso ». Perchè, fra queste defìcenze e queste
trascuratezze eccezionali, non può essere messo il minore impiego
l'elemento lavoro? Se in un'azienda mancano caratteristiche fondiarie e agrarie per essere considerata al livello medio della zona, nessuno contesta più che, per esempio, l'affittuale può eseguire i lavori neces-sari per mettere l'azienda in grado di essere coltivata col metodo
ordinario, con diritto ad essere indennizzato dal proprietario. Nessuno
contesterà cbe le organizzazioni lavoratrici — nel loro interesse e nel-l'interesse della produzione e della società — domandino l'applica-zione del carico minimo di mano d'opera per quegli agricoltori i quali, riducendo le giornate di lavoro al di sotto del limite normale stabilito, fanno mancare la loro azienda « di qualche necessaria con-dizione » — il lavoro — per essere coltivata col metodo ordinario.
Mancavano — ripetiamo — nel 1919 e nel 1920, quando si conclu-sero i patti agrari, dove il carico minimo di mano d'opera trovò posto, gli organi adatti per stabilire la capacità media di lavoro che le aziende presentano in ciascuna zona. Non manca però ora, che con decreto del 30 dicembre 1923 sono stati istituiti i Consigli Agricoli Provin-ciali, che da molto tempo erano richiesti (1). I Consigli ProvinProvin-ciali, a mezzo di personale tecnico, possono benissimo — là dove la necessità si presenta — procedere alla divisione del loro territorio in tante zone agricole aventi caratteristiche comuni, per stabilire in ciascuna di
(1) È noto che, con decreto reale 30 dicembre 1923, n. 3229 (apparso sulla « Gazzetta Ufficiale » del 4 marzo 1924, n. 54), il Governo italiano è autorizzato a costituire, in ciascuna Provincia, un Consiglio Agricolo Provinciale, avente la sua sede nel capoluogo, in seguito a domanda dell'Amministrazione Provinciale e col parere favorevole del Consiglio Superiore dell' Economia Sociale. 11 Consiglio Agri-colo Provinciale compie la funzione di rappresentare e coordinare ogni attività agricola locale, di decentralizzare e adattare l'azione governativa relativa ai servizi agricoli e all'incoraggiamento della produzione. Spetta al Consiglio, inoltre, di presentare proposte al Governo e a tutte le Amministrazioni pubbliche relative a provvedimenti di carattere agricolo, e relative a regolamenti speciali aventi carat-tere provinciale per l'applicazione di leggi incarat-teressanti l'agricoltura e le classi agricole. Esso compie le funzioni di Commissario provinciale per il servizio di
statistica agricola e forestale; promuove le iniziative atte all'esecuzione di lavori
di bonifica agricola e igienica, alla colonizzazione interna, olia sistemazione dei bacini montani, alla viabilità, ecc.; dà il suo parere sui regolamenti per la disci-plina degli usi civici nelle proprietà comunali, pubbliche e collettive, ecc.
Il Consiglio è composto: di professionisti, membri di diritto (il direttore della Cattedra di Agricoltura; il direttore della Scuota di Agricoltura; l'ispettore fore-stale; l'ingegnere del Genio Civile; il medico e il veterinario provinciali); da membri rappresentanti le istituzioni agricole o economiche della Provincia; da membri rappresentanti la popolazione agricola, eletti dall'Amministrazione provin-ciale e dai Comuni.
Il Consiglio nomina fra i suoi membri un presidente, un vice-presidente e un Comitato suddiviso in quattro sezioni : a) di economia e di statistica agraria;
b) agricola, zootecnica e delle industrie agricole; c) forestale; d) dell'istruzione
agricola. L'amministrazione del Consiglio è tenuta dall'Amministrazione provin-ciale. Le speso per il funzionamento del Consiglio sono sostenute dal Governo centrale, dall'Amministrazione provinciale e da enti privati che volessero contribuire.
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9esse il carico ordinario unitario di mano d'opera. Impegno non facile, conveniamone; ma ai Consigli non devono mancare i mezzi per assol-verlo in modo obbiettivo e completo, tanto più che esso servirebbe a diversi fini, e non soltanto all'applicazione del carico minimo di mano
d'opera. Le organizzazioni di proprietari e di lavoratori troverebbero,
nel risultato del lavoro compiuto dai Consigli Provinciali, una base sicura per stabilire un carico equo, giovando ai lavoratori e all'agri-coltura nel medesimo tempo.
Comunque voglia risolversi la questione, noi saremmo lieti se il principio del carico minimo di mano d'opera fosse considerato per quel che è, senza prevenzioni e senza esagerazioni. Ciò sarebbe suffi-ciente per giudicarlo più benignamente, da parte degli studiosi, di quello che finora s'è fatto.