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Il caso italiano della ricerca sui distretti industriali

2. Lo spazio attraverso la ricerca di business

2.3. Il distretto Industriale

2.3.2. Il caso italiano della ricerca sui distretti industriali

Se vogliamo indagare lo spazio in modo dinamico, e comprendere il ruolo attivo che ricopre per lo sviluppo di una azienda, allora occorre accantonare i paradigmi del pensiero economico dominante, e specialmente ciò che concerne la concettualizzazione del mercato e dei suoi processi, per trovare alcuni interessati framework di riferimento. In questo senso la ricerca della scuola italiana sui distretti industriali si fa promotrice di un pensiero economico decisamente alternativo poiché si stacca dall'idea di concepire il mercato come il luogo delle transazioni tra attori indipendenti, che scambiano merci omogenee sulla base dell'unica informazione di prezzo. La scuola italiana infatti studia la spazialità analizzando il ruolo cha la prossimità e la co-locazione esercitano sulle relazioni tra agenti economici e sociali, interessandosi specialmente al modo in cui le comunità sociali localizzate sfruttino la prossimità spaziale, e i caratteri territoriali e sociali del luogo, per organizzare l'attività economica secondo un agglomerato di piccole e medie imprese (vedi Beccatini 1989; Brusco, 1994).

Il ruolo e la funzione della prossimità spaziale all'interno degli agglomerati di impresa e nei sistemi di produzione locale sono ancora uno dei temi più dibattuti e studiati all'interno di questa interessante tradizione. In generale, almeno due differenti prospettive possono essere distinte (Boari, Lipparini, 1999).

La prima prospettiva viene definita "district-oriented" e identifica il distretto come una comunità di piccole e medie imprese concentrate spazialmente; il processo di analisi si focalizza sulla disamina dell'evoluzione dei fattori socio- economici che hanno portato alla costruzione del contesto distrettuale e ne spiegano il funzionamento. Questi studi adottano una prospettiva di osservazione di tipo macro, ossia guardano al distretto come ad sistema organico, che non può essere scomposto e distinto nelle sue singole parti allo scopo di comprenderne i meccanismi di funzionamento. Le determinanti principali dei vantaggi prodotti dal distretto sono la divisone del lavoro tra le imprese, e le risorse di natura sociale presenti sul territorio in termini di valori, capitale sociale e conoscenza, elementi che traducono una non meglio definibile "atmosfera industriale".

Il coordinamento delle attività tra le imprese viene regolato da meccanismi di prezzo, circolazione dell'informazione, e dalla co-operazione informale. Questo

approccio fu originariamente adottato da studiosi con un background di economia industriale. Tali autori trattano le imprese del distretto in modo omogeneo, considerando il processo di interazione in modo uniforme in uno spazio dove il ruolo delle "istituzioni" può contare molto di più della singola impresa.

Il secondo approccio ai distretti industriali italiani, si è sviluppato conseguentemente al primo percorrendo una strada complementare e facendo dell'eterogeneità delle attività e degli attori operanti nel distretto il proprio focus di analisi puntuale (Varaldo e Ferrucci, 1997). Si punta ad osservare gli attori nella loro individualità per capirne il ruolo e il comportamento di business, e per capire l'impatto che hanno sul contesto generale. Questo tipo di analisi rileva che determinati attori, più di altri, ricoprono un ruolo di leader all'interno del distretto; queste imprese leader sono capaci di gestire un numero elevato di relazioni interne e, oltre a gestire i rapporti del distretto verso l'esterno, esercitano il loro potere di guida sulle imprese minori per influenzare le dinamiche distrettuali: di fatto sono responsabili dell'andamento del processo globale di sviluppo del distretto.

Alcuni autori hanno sono ricorsi alla combinazione dei due livelli di analisi: quello distrettuale, e quello attoriale. Questi autori, tra cui Lorenzoni e Baden-Fuller (1995) e Lipparini e Lorenzoni (1999) in prima fila, si sono avvicinati ad una vera e propria analisi di tipo network dei fenomeni locali, ricostruendo il sistema distrettuale a partire dall'analisi delle imprese leader e dei loro set di relazioni con altri attori (co- locati, e non co-locati). Hanno quindi adottato una scala di osservazione di tipo "meso" cercando di investigare come la dimensione individuale e quella collettiva dell'attività di business si influenzino reciprocamente e come entrambe promuovano lo sviluppo del contesto distrettuale.

Dunque, mentre per la teoria marshaliana non appariva necessario che gli attori co-locati fossero agenti 'consapevoli' della propria tacita mutua co-operazione affinché fosse riconosciuto il manifestarsi di una vera e propria realtà distrettuale, nella variante italiana Beccatini fu tra i primi ad affermare che gli sforzi combinati e 'consapevoli' dei membri del distretto per co-operare e per costruire una struttura di governance comune, avrebbero migliorato la coesione del distretto (Markusen, 1996). Beccatini, muovendosi dai primi scritti di Marshall, affermò che affinché un distretto industriale potesse prosperare, era necessario che la popolazione di

imprese si fondesse col territorio allo scopo di promuovere un processo di sviluppo dal basso (bottom-up) che potesse far leva sui valori sociali e sulle istituzioni espressi all'interno del territorio stesso; anzi, tale popolazione di imprese doveva essere l'espressione stessa della comunità e cioè della cultura imprenditoriale, e dell'etica del lavoro, presenti sul territorio come espressione di valori e credenze comuni e condivise che si erano sviluppate nel tempo in quel luogo. La chiave della riscoperta del modello distrettuale di Marshall, da parte della scuola italiana, sta nell'intuizione che debba esserci una sorta di congruenza tra i requisiti di uno specifico tipo di organizzazione produttiva, e i caratteri della sfera sociale che fa da contesto a tale organizzazione. In altre parole, un qualunque sistema di valori o di istituzioni locali non è sufficiente per fare da background alla costruzione sociale di un contesto economico di tipo distrettuale; occorre che ci sia una giusta corrispondenza tra i valori sociali e il sistema di imprese espresso dalla comunità: occorre che i valori siano idonei a guidare la comunità sociale verso la creazione di una 'comunità di business'. Allo stesso tempo, il forte legame fra settore e territorio rende possibile l’accumulazione locale di conoscenze tecniche specializzate. Nel distretto la comunità partecipa al processo produttivo rinnovando saperi e competenze grazie a processi di condivisione che, molto spesso, hanno natura informale. Secondo Becattini e Rullani (1993) questi processi di condivisone hanno giocato un ruolo chiave nella competitività del sistema locale: la partecipazione alla vita della comunità garantisce lo sviluppo e la trasmissione di saperi taciti su cui si fonda il vantaggio competitivo delle imprese distrettuali.

Tuttavia non tutti i sistemi di produzione forniranno quelle condizioni tecniche adeguate a creare questo legame di unità tra attività economica e comunità sociale che caratterizza il distretto (Beccatini, 1989). In questo senso è l'idea di 'atmosfera industriale' - il concetto più innovativo e meno quantificabile del discorso di Marshall - che sembra essere maggiormente ripreso e ampliato dagli economisti industriali italiani. Questa atmosfera di fusione tra attività economica e attività sociale è il carattere dominante e irripetibile di un distretto. Stante questa condizione necessaria, ma non sempre sufficiente, il distretto sviluppa una serie di caratteristiche decisive che ne definiscono l'unicità in termini di specificità spaziali, economiche, e sociali.

Il modello italiano dei distretti industriali si è rilevato uno strumento privilegiato per raccontare la storia e la natura della realtà industriale dell'Italia, e per la ricostruzione dei suoi caratteri storici, sociali, culturali e politici dandone un'interpretazione tutt'ora dominante (Bellandi, 1989). Tuttavia ritengo che gli studi italiani sui distretti industriali non abbiano fornito strumenti di analisi capaci di adattarsi a circostanze empiriche diverse dai contesti che li hanno generati. Infatti elementi come l'impatto della crisi economica sulle economie occidentali, unita alle rivoluzioni più recenti del panorama economico (tecnologica, organizzativa e geografica), e specialmente il rinnovato interesse per una dialettica economica di tipo spaziale, tornata in auge a causa della necessità di discutere a livello politico, ed accademico, del riequilibrio geografico degli squilibri dalla globalizzazione del processo economico, ne hanno messo paradossalmente in crisi la validità.

E' mio parare che la ricerca italiana sui distretti abbia avuto il merito principale di raccontare l'evoluzione di un processo storico ed economico che ha portato alcuni territori del paese a divenire realtà economicamente, e socialmente, prospere. Il racconto di questi casi di successo, almeno in molti autori della scuola italiana, ha forti connotazioni storiche, filosofiche e sociali, ed è privo dell'intento di arrivare alla formalizzazione di un preciso apparato teorico e analitico di riferimento di stampo economico. L'approccio sviluppato vuole rispondere alla possibilità che il distretto offre di classificare la realtà produttiva di un paese attraverso la comunità locale come unità d’indagine. Questo dato ha portato allo sviluppo di un’idea di distretto che è molto più rigida e storicamente determinata rispetto alla riflessione scientifica e di policy maturate da altre tradizioni di ricerca. Il peso della tradizione e la mancanza di uno sviluppo più analitico del modello, rende in Italia più difficile contrassegnare come fattore di vitalità del modello il processo di evoluzione dei sistemi locali verso nuovi assetti organizzativi, tecnologici e strategici. Tali processi sono fuori dalla lente di osservazione del modello italiano, che non ha sviluppato la capacità di operare analisi dinamiche in tal senso; sopratutto non è stata in grado di leggere la spazialità del processo economico in modo ampio e generale, elemento che ha determinato una stilizzazione concettuale dello spazio tra 'spazio interno al distretto', e 'spazio esterno al distretto', senza vedere la reale complessità della relazione tra i due contesti, e dunque senza sviluppare una lettura critica della struttura relazionale/spaziale del distretto, ne del suo rapporto col contesto

territoriale, ne del suo rapporto col più ampio panorama di business. In un certo senso è come se il modello distrettuale si fosse fermato al concetto di 'luogo' e 'territorio', due elementi che raccontano di un particolarismo spaziale cristallizzato della mancanza di una analisi dinamica e strutturale di fondo del processo di business in senso relazionale. Una tale assunzione di fondo avrebbe segnalato dell'impossibilità di leggere il processo di business attraverso confini circoscrivibili. E' impossibile circoscrivere il fenomeno all'interno di confini culturali, politici o sociali, in quanto tali elementi non stabiliscono il 'confine' del processo, ma piuttosto la 'varietà' con cui il processo si manifesta, una varietà che è motivo di cambiamento dinamico attraverso lo spazio, e non solo attraverso il tempo.