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4. LATINITAS CONTRO DEUTSCHTUM: LA «CIRCOLAZIONE DELLE IDEE»

4.1 Il concetto di «italianità» in patria e all’estero

Secondo Poliakov, sebbene l’Italia avesse visto succedersi numerose tribù e civiltà (tra cui Greci, Galli, Goti, Longobardi, Bizantini, Normanni, Francesi, Tedeschi e Spagnoli), non le integrò mai nella propria storia. In altre parole, tali ricordi non hanno mai concorso alla formazione di una

«italianità» di cui il concetto di «latinità» è quasi sinonimo.1 La storia italiana, pare, fu sempre dominata dal legato dell’antichità romana: il mito grandioso della città eterna, dominatrice del mondo, metteva in ombra tutte le altre eventuali affiliazioni genealogiche. Mentre per i letterati francesi o tedeschi, la cultura antica (deposito delle arti e della saggezza), rimaneva una cultura estranea, cioè quella estinta delle «lingue morte», per gli italiani essa era, invece, inscritta nel loro paesaggio, loro propria per diritto di nascita.2 Pertanto, il fatto che in Italia non si fosse mai delineato un «mito longobardo» simile al mito «mito franco» o al «mito gotico», non dovrebbe sorprendere nessuno. Benché i tedeschi moderni non avessero risparmiato energie per mettere in risalto il ruolo dinastico dei Longobardi, così come per attribuire al sangue germanico i capolavori della cultura italiana, l’Italia moderna non conobbe nulla di simile al culto del sangue germanico.

Ciò avvenne, probabilmente, anche perché i Longobardi non riuscirono a impossessarsi di Roma:

giunsero più volte alle sue porte, ma non le varcarono mai. Inoltre, proprio quando stavano per farcela, il papa Gregorio III invocò l’aiuto di Carlo Martello, re dei Franchi.3

Eppure, come confermano anche gli studi di Mosse, da parte tedesca vi furono persino bizzarri tentativi di «sottrarre» alla cultura italiana alcuni tra i suoi più grandi interpreti. Venivano talvolta rivendicate le origini germaniche di Dante, così come si insinuava, negli scritti di Ludwig Woltmann (antropologo tedesco attivo sin dalla seconda metà del XIX secolo), che gli esponenti del Rinascimento italiano non fossero discendenti dei romani, bensì dei goti e dei longobardi. A

1 L. POLIAKOV, Op. cit., 1999, p. 63. Esistono ormai diversi studi sul carattere e l’identità degli italiani ai quali si potrebbe fare riferimento: E. GALLI DELLA LOGGIA, L’identità italiana, il Mulino, Bologna, 1998; Le due nazioni.

Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, E. GALLI DELLA LOGGIA, L. DI NUCCI (a cura di), il Mulino, Bologna, 2003; Una Patria per gli italiani. La questione nazionale oggi tra storia, cultura e politica, N.

GASPARE (a cura di), Carocci, Roma, 2003; G. ALIBERTI, Carattere nazionale e identità italiana, Nuova Cultura, Roma, 2009; S. PATRIARCA, Italian Vices: Nation and Character from the Risorgimento to the Republic, Cambridge University Press, Cambridge, 2010; G. ALIBERTI, La resa di Cavour: il carattere nazionale tra mito e cronaca, 1820-1976, Le Monnier, Firenze, 2012.

2 L. POLIAKOV, Op. cit., 1999, p. 63.

3 Ivi, pp. 64-66.

dimostrazione di queste astrazioni, Woltmann ricorreva alle caratteristiche fisiognomiche, alle proporzioni fisiche, al colore e alla grana della pelle. In un suo libro, corredato da oltre cento riproduzioni di ritratti, proponeva una storia della «razza» fondata quasi esclusivamente su elementi visuali di cui la bellezza nordica era la caratteristica saliente.4

Tuttavia, sebbene il regime fascista ponesse particolare enfasi sulla grandezza della Roma antica e sul trionfo del Rinascimento, emergevano parecchi «spazi vuoti». Sembrava quasi che tra la Roma imperiale e il Rinascimento vi fossero solo «secoli di buio», così come tra lo stesso Rinascimento e il Risorgimento. Ciò, invece, non consentiva di costruire (o «ricostruire») una prospettiva generale della storia d’Italia e, soprattutto, degli italiani. Se è vero, come affermava ancora Poliakov, che lo Stato pontificio, tagliando in due la penisola, impedisse sentimentalmente e geograficamente l’unificazione, allora la storia «scritta dal fascismo» mancava di organicità e compattezza. Essa appariva priva di una vera identità e si limitava a insistere sul presunto primato della civiltà latina nel mondo.

La costruzione dell’identità italiana, a differenza di quanto avvenne in molti altri paesi, non avvenne su base razziale o etnica, bensì politica, ideologica e, spesso, religiosa. Basti pensare, ad esempio, allo scontro tra «laici» ghibellini e «cattolici» guelfi. Tali istanze medievali, infatti, riemersero nel XIX secolo quando, nella disputa risorgimentale tra «neoghibellini» (fautori di un’unificazione romana di matrice antica e pagana) e «neoguelfi» (sostenitori di un’unificazione romana, ma in senso pontificio e cristiano), lo stato italiano fu ormai in procinto di vedere la luce. A differenza di quanto accadde dall’altra parte delle Alpi, però, la lotta tra le due fazioni non ebbe implicazioni di carattere razziale. Tuttavia, mantenendo il culto degli antenati tipico degli italiani, si consolidò la duplice interpretazione di una «romanità» laica, contrapposta a una squisitamente

«cattolica».5

La rivendicazione della continuità tra Risorgimento e fascismo, però, fu assai marcata.

L’abolizione delle libertà, unitamente all’identificazione del fascismo con la nazione, infatti, condussero il regime a un uso spregiudicato del passato, platealmente piegato alle esigenze del presente.6 Persino durante gli «anni bui» dell’Italia liberale, secondo la retorica fascista, troneggiava la figura di Francesco Crispi. La sua sicilianità, la partecipazione all’impresa dei Mille al fianco di Garibaldi, l’inclinazione autoritaria in veste di Capo del governo e il suo nazionalismo coloniale, lo

4 G. L. MOSSE, Op. cit., p. 155.

5 L. POLIAKOV, Op. cit., 1999, p. 68.

6 M. BAIONI, Risorgimento in camicia nera: studi, istituzioni, musei nell'Italia fascista, Comitato di Torino dell'Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Carocci, Roma, 2006, p. 10. Per un approfondimento classico sul Risorgimento:

A. M. BANTI, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino, 2000.

rendevano (insieme ad Alfredo Oriani), uno dei «precursori» del futuro nazionalismo fascista.7 Tra le pagine di «Gerarchia» ci si spinse talmente oltre da sostenere, riprendendo le parole di Mussolini in occasione dell’inaugurazione del momumento ad Anita Garibaldi, che vi fosse una «continuità ideale fra le camicie rosse e le camicie nere».8

In politica estera, invece, occorre precisare che il fascismo si trovò di fronte a «due Italie»:

quella residente nella Penisola e quella espatriata. Ciò comportò una necessaria diversificazione nelle forme e nei modi della propaganda che, non sempre, potevano diventare compatibili. I numeri dell’emigrazione italiana e dei suoi metodi di monitoraggio erano assai diversi rispetto a quelli tedeschi. Benché parecchie mete fossero le medesime scelte dai migranti tedeschi, la comunità italiana presentava alcune peculiarità interessanti come quella dei «rientri» o «ritorni» in patria.

Nella seconda metà dell’Ottocento, ad esempio, parecchi lucchesi e piacentini fecero tappa a Genova per poi imbarcarsi verso le Americhe oppure recarsi in Scandinavia.9

La Prima guerra mondiale pose temporaneamente fine a una crescita vorticosa delle partenze ma c’era chi, con la benedizione del governo, continuava a emigrare. Alcuni cercarono lavoro clandestinamente persino presso i paesi nemici. Dopodiché, appena terminato il conflitto, ricominciarono le partenze: nel 1920 si contarono oltre 600.000 espatri, in maggioranza oltreoceano. Tuttavia, la progressiva chiusura degli sbocchi americani, bloccò tale fiume in piena.

Se in pieno periodo bellico 11 residenti su 1.000 cercavano ogni anno impiego fuori dall’Italia, tra il 1921 ed il 1930, si scese a 7 su 1.000, nonostante le medie altissime sino al 1924. Dopodiché, nel decennio 1931-1940, si precipitò sino a 2 su 1.000. Tra il 1916 ed il 1942, dunque, espatriarono complessivamente 4.355.240 italiani (di cui 2.245.660 verso l’Europa), ma il 60% di essi si era trasferito prima del 1926. La Seconda guerra mondiale arrestò quasi definitivamente il movimento, con l’unica eccezione, anche a causa delle deportazioni, dell’emigrazione verso la Germania.10

Alla luce di tali premesse, entra ragionevolmente in gioco il ruolo dei censimenti, sia dal punto di vista quantitativo, sia qualitativo. Il Censimento degli Italiani all’estero (31 dicembre 1871) fu il primo esempio di estensione del censimento decennale della popolazione anche agli emigrati fuori dai confini nazionali. I lavori di realizzazione del censimento erano anche il primo banco di prova per Luigi Bodio, il vero artefice delle statistiche migratorie italiane. Secondo Bodio, l’emigrazione

7 Ivi, p. 49.

8 Ivi, p. 99. Sulla retorica dell’epoca, si veda anche: G. AROMOLO, Risorgimento nazionale e Rivoluzione fascista, Aspetti letterari, Napoli, Roma, 1934.

9 Tipologie dell’emigrazione di massa, in Comitato nazionale «Italia nel mondo», Storia dell’emigrazione italiana, Partenze, P. BEVILACQUA, A. DE CLEMENTI, E. FRANZINA (a cura di), M. SANFILIPPO, Donzelli editore, Roma, 2001, pp. 86-87.

10 Ivi, pp. 79-80.

doveva essere considerata come «un fatto naturale», da non ostacolare bensì da riconoscere come un diritto civile di emigrare. Sotto la sua responsabilità, dunque, a partire dal 1876 fino al 1925, incominciò la rilevazione regolare e sistematica dei dati dell’emigrazione italiana.11 Tuttavia, solo con la legge del 31 gennaio 1901, n. 23 il concetto di emigrante definito dalla legislazione venne assunto anche dalla statistica. All’articolo 6, si definiva migrante: «il cittadino che si rechi in un paese posto al di là del Canale di Suez, escluse le colonie e i protettorati italiani o in un paese posto al di là dello Stretto di Gibilterra, escluse le coste d’Europa, viaggiando in terza classe o in classe che il Commissariato dell’Emigrazione dichiari equivalente alla terza attuale». Tale concetto venne così riformulato a seguito della legge 2 agosto 1913, n. 1075 sulla tutela giuridica dell’emigrante.

Secondo tale definizione, soltanto i lavoratori manuali potevano essere considerati emigranti.

Tuttavia, con l’emanazione del Testo Unico dell’emigrazione del 13 novembre 1919, n. 2205, sarebbero stati inclusi nella categoria dei migranti anche i piccoli esercenti commerciali e coloro che si avvicinavano ai parenti facendo cadere la prescrizione della terza classe per i viaggi transoceanici.

Questa fu la base fondamentale da cui non ci si discostò più sino al 1927, la data nella quale terminarono le statistiche dell’emigrazione.12 Davanti a una simile «diaspora», risultava complicato fornire una definizione chiara e, soprattutto, convincente di «italianità». Il concetto di «italianità», che viaggiava di pari passo con quello di «latinità», aveva bisogno di un sistema efficiente, capillare e costante per diffondersi. Gli strumenti adottati dal regime, come si vedrà a breve, furono quelli veicolati dalle riviste e dagli enti culturali che, a vario titolo, si occupavano di propaganda all’estero. I cicli di conferenze presso i comitati esteri della SDA, così come nelle sedi dei principali ICI, svolgevano una funzione ausiliaria rispetto all’impatto decisamente più pesante veicolato dall’editoria e dalla carta stampata.13

4.1.1 «Pagine della Dante»

Lo stile e i contenuti della rivista ufficiale della SDA rappresentavano probabilmente il compromesso migliore tra divulgazione popolare e ambiente accademico. Benché fosse richiesto un discreto bagaglio culturale per avvicinarsi e comprendere il messaggio della «Dante», non era

11 Ivi, p. 63.

12 Ivi, p. 68.

13 Per alcuni cenni sulla riviste culturali e propagandistiche del regime, si rimanda a: L. MANGONI, L’interventismo della cultura: intellettuali e riviste del fascismo, Laterza, Roma, Bari, 1974; A. VITTORIA, Le riviste del duce: politica e cultura del regime, Guanda, Milano, 1983; V. CASTRONOVO, La stampa italiana dall’Unità al fascismo, Laterza, Bari, 1995; P. MURIALDI, La stampa del regime fascista, GLF editori Laterza, Roma, 2008; M. SERRI, I redenti: gli intellettuali che vissero due volte, 1938-1948, Corbaccio, Milano, 2009.

necessario essere eruditi per fruire del ricco patrimonio formativo custodito tra una pagina e l’altra della rivista. Quasi tutti gli autori che scrivevano su «Pagine della Dante», infatti, erano docenti universitari, funzionari, diplomatici, umanisti, artisti e letterati che, a vario titolo, avevano sposato la «causa» dell’italianità all’estero e, soprattutto, della «Dante». Alcuni di loro, come Enrico Scodnik (che fu anche vice-presidente della Società), oltre a essere influenti funzionari della SDA, erano anche ferventi irredentisti e, naturalmente, nazionalisti. La rivista fungeva da «bollettino»

delle attività dell’associazione e, più in generale, dell’opera di propaganda culturale italiana nel mondo. Era costituita da diverse rubriche (come «Luci d’italianità nel mondo» e «La “Dante” nel Regno e nell’Impero»), attraverso cui venivano illustrate le iniziative culturali dei comitati esteri dell’associazione. Si trattava, in altre parole, di una rassegna stampa sugli spettacoli, i corsi di lingua, gli incontri letterari, i concerti e le diverse forme di intrattenimento che, assai spesso, attiravano l’apprezzamento e la curiosità del pubblico straniero.

La capacità di circolazione della rivista sembrava elevata poiché essa era reperibile presso buona parte dei comitati esteri i quali, a loro volta, dovevano richiederne un adeguato numero di copie.

Ciò significa che il pubblico straniero poteva usufruire di aggiornamenti e notizie di prima mano, direttamente dall’Italia. Lo stesso, sebbene in circoli assai più ristretti, avveniva (come si vedrà) con

«Romana». Esisteva poi una sezione, denominata «I nostri lutti», che invitava a riflettere su diverse peculiarità proprie della SDA. Oltre a un’elevata età anagrafica dei propri funzionari, soci (e spesso lettori), essa manteneva una notevole cura verso il «culto della memoria». In altre parole, la SDA proseguiva in quel lungo e incessante processo di «ricordo», «monito» e «celebrazione» della patria, che l’aveva caratterizzata sin dalle origini in seno a quella «mistica» degli eroi e dell’identità nazionale tipica dell’Italia liberale, prima ancora che fascista. I tratti grafici della rivista, invece, cambiarono all’inizio degli anni Trenta a causa del rapido processo di fascistizzazione dell’associazione e dell’intero settore culturale italiano. Dalle copertine sobrie, tipiche dell’era liberale, si passò a uno stile grafico aggressivo e «littorio». Ad esempio, un Dante Alighieri dal volto romano, dai tratti così marcati da sembrare una tipica scultura d’epoca fascista, sovrastava il globo terrestre. Quel Dante rosso su sfondo azzurro, marziale, perentorio e imperscrutabile, sembrava la rappresentazione metaforica del primato culturale italiano nel mondo.

Progressivamente, però, proprio in funzione della sua fascistizzazione, l’organo ufficiale della SDA non potè sottrarsi a una propaganda di regime filtrata da contenuti apparentemente solo culturali. I temi «caldi» dell’epoca non venivano ignorati dalla linea editoriale della SDA che, anzi, affrontava questioni spinose come quella alto-atesina. Sebbene con garbo e, in un certo senso, delicato ma innegabile rispetto nei confronti dei propri valori fondativi, infatti, «Pagine della Dante» non venne meno a una rinnovata opera di «protezione culturale» dei confini. Nel 1928, ad

esempio, sulla rivista venne pubblicato un estratto del viaggio di Goethe in Italia. L’intento di rimarcare la presunta identità italiana di quei luoghi veniva indirettamente affidata agli scritti dell’autorevole intellettuale tedesco. Nell’articolo, intitolato «Goethe sul Brennero», Segrè raccontava come, tra l’8 ed il 9 settembre del 1786, Goethe avesse trascorso la notte presso un albergo sul Brennero prima di proseguire il suo lungo viaggio in Italia. A ricordare quell’avvenimento, almeno stando a quanto riportato verso la fine degli anni Venti (del XX secolo), rimaneva una pietra commemorativa. Segrè si domandava, quasi retoricamente, perché la gente tedesca, stanziata in quel luogo incolto e deserto, avesse sentito il bisogno di ricordare quella tappa fugace.14 Secondo Segrè era stato lo stesso Goethe a celebrare, attraverso il suo diario, la solennità di quel «passaggio» verso l’Italia. Il viaggio in Italia, desiderato sin dalla sua prima giovinezza, si era trasformato, in età adulta, in una sorta di necessità. Ecco come il «dogma» dell’italianità altoatesina veniva «filtrato» attraverso le parole di Goethe:

«[...] Nei rapporti, che ha in Bolzano e ne’ paesetti vicini, con le persone del luogo [...] par che lo infastidiscano, come elementi stranieri che han dell’intruso, le infiltrazioni di tedescume, con cui gli capita di venire a contatto. E giunto a Rovereto, dove non trova più un solo individuo, che sappia una parola di tedesco, esclama esultante: ‘Come sono felice che questa lingua, che io amo, sia d’ora innanzi la lingua viva, la lingua usata da tutti!’ [...]»15

A Bolzano e nel resto dell’Alto Adige, sin dai tempi della dominazione austro-ungarica, la SDA si era impegnata per la difesa dell’italianità. Nel dopoguerra, inoltre, aveva contribuito alla nascita di un asilo italiano affinché gli alunni venissero educati secondo programmi e «valori»

esclusivamente italiani. All’interno dell’Istituto di studi per l’Alto Adige, la SDA era rappresentata dal senatore Luigi Rava (vice-presidente della SDA stessa) e diretta dal senatore Tolomei. Così, accanto ai comitati già esistenti presso Bolzano, Merano, Bressanone e Brunico, ne sarebbero nati altri. Verso la fine degli anni Venti, dunque, anche la SDA aveva partecipato in modo significativo al tentativo di «italianizzazione» culturale dell’Alto Adige.16

La presenza di firme autorevoli della politica «dotta» italiana, come quella di Luigi Rava, dimostrava che la SDA fosse uno strumento molto versatile per raggiungere un bacino più ampio di pubblico non necessariamente accademico ma diverso da quello delle sedi locali del Fascio

14 C. SEGRÈ, Goethe sul Brennero, in «Le Pagine della Dante», Luglio-Agosto 1928, n. 4, anno XXXVIII, p. 64.

15 Ivi, p. 65.

16 L. RAVA, La «Dante Alighieri» e l’Alto Adige, in «Le pagine della Dante, pubblicazione bimestrale della Società Nazionale “Dante Alighieri”», Anno XXXVIII – N. 4, Luglio-Agosto 1928, p. 66-68.

all’estero. Ciò non significa che la rivista non si occupasse di temi politici, né che evitasse di prendere posizione sulle questioni più delicate. All’inizio del 1936, ad esempio, su «Pagine della Dante» venne pubblicato un articolo del giurista berlinese Gerhard Leibholz, intitolato «La diffusione del pensiero fascista in Germania», che sembrò «vaticinare» inconsapevolmente la nascita dell’Asse.17 Nel 1937, invece, anche su «Pagine della Dante» comparvero le firme di alcuni autori interessati al tema della «razza». Paolo Orano, altro studioso italiano della «razza», scrisse un intervento dal titolo altisonante: «La missione imperiale della Dante». Talarico, al contrario, apparve più esplicito. Il suo contributo si intitolava: «La lingua come privilegio di razza».18

Verso la fine degli anni Trenta, sulle prime pagine della rivista, divennero sempre più popolari i

«messaggi» dei più «autorevoli» politici e gerarchi indirizzati all’opera della SDA. Nel numero unico del Luglio-Dicembre 1939, ad esempio, giunsero i «messaggi» del Ministro Segretario del Partito, del Ministro dell’Educazione Nazionale, del Ministro della Cultura Popolare e del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.19 D’altra parte, si trattava di un’occasione assai speciale poiché, nel corso del 1939, la SDA stava festeggiando i cinquant’anni dalla sua fondazione.

Nel 1940, oltre a una dettagliata documentazione della visita di Mussolini presso la sede centrale della SDA a Palazzo di Firenze, venne pubblicato un rapporto sulle attività della «I Giornata degli Italiani nel mondo»20 Nel 1941, invece, Franco Spada scrisse un contributo intitolato «Verdi nel mondo» e venne pubblicato un resoconto della «II Giornata degli Italiani nel mondo».21 Nello stesso anno uscì un numero speciale nel quale si mise in evidenza la posizione della SDA in guerra.

Due titoli, in particolare, «costrinsero» la SDA a schierarsi: «L’Italia in armi: La guerra di liberazione» e «La Dante per le nostre rivendicazioni territoriali». Sembrava quasi che si volesse creare un continuum con la Prima guerra mondiale, nella quale la SDA aveva avuto un ruolo decisamente più influente, sia dal punto di vista propagandistico, sia ideologico.22

17 «Le pagine della Dante, pubblicazione bimestrale della Società Nazionale “Dante Alighieri”», Anno XLVI – N. 1, Gennaio-Febbraio 1936, sommario. Il giurista berlinese, pochi anni dopo, sarebbe stato tra gli innumerevoli perseguitati dal regime di Hitler. Grande esperto di diritto pubblico e di tematiche relative al ruolo dei partiti politici, insegnò a Greifswald, Göttingen e Oxford. A causa delle sue origini ebraiche, però, fu costretto a emigrare in Gran Bretagna e potè rientrare in Germania soltanto al termine della Seconda guerra mondiale. Cfr. ENCICLOPEDIA TRECCANI, Gerhard Leibholz,

Link: http://www.treccani.it/enciclopedia/gerhard-leibholz/

18 «Le pagine della Dante, pubblicazione bimestrale della Società Nazionale “Dante Alighieri”», Anno XLVII – N. 6, Novembre-Dicembre 1937, sommario.

19 Ivi, Anno XLIX – N. 4-6, Luglio-Dicembre 1939, sommario.

20 Ivi, Anno L – N. 1-2, Gennaio-Aprile 1941, sommario.

21 Ivi, Anno LI – N. 1, Gennaio-Febbraio 1941, sommario.

22 Ivi, Anno L – N. 3-6, Numero speciale, 1941, sommario.

Nel 1942, tra i titoli più intriganti della rivista, comparivano: «Il Presidente Generale a rapporto dal Duce» e «La celebrazione della “III Giornata degli Italiani nel mondo in Italia”».23 Nel corso dello stesso anno, inoltre, in omaggio agli ormai intensi rapporti culturali tra Italia e Finlandia,

«Pagine della Dante» dedicò un articolo al linguista finlandese Oiva Tuulio. L’autrice dell’articolo era la moglie dell’intellettuale, Tyyni Tuulio (della quale si avrà modo di trattare nei prossimi paragrafi).24 Così, nel 1943, venne celebrata la quarta (e ultima) «Giornata degli Italiani nel mondo».25 Gli stravolgimenti bellici avvenuti nel corso di quell’anno, infatti, provocarono ragionevolmente la temporanea cessazione delle pubblicazioni.

4.1.2 «Romana»

La diffusione delle attività degli ICI all’estero, a partire dal 1937, venne affidata a una rivista:

«Romana, rivista mensile degli Istituti di Cultura italiana all’estero». Inizialmente, però, essa figurava come la «rivista dell’istituto interuniversitario italiano di Roma». Il primo numero (unico),

«Romana, rivista mensile degli Istituti di Cultura italiana all’estero». Inizialmente, però, essa figurava come la «rivista dell’istituto interuniversitario italiano di Roma». Il primo numero (unico),