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3. RAZZISMO «CULTURALE» E RAZZISMO «BIOLOGICO»

3.1 L’«internazionale della razza»

3.1.1 Gli italiani e la «razza»

A cavallo tra il XIX e il XX secolo, l’eugenica in Italia rappresentava hegelianamente un’idea, ma non ancora un concetto. Tuttavia, nel 1912, con la partecipazione di una folta e autorevole delegazione italiana al I Congresso Internazionale di Eugenica convocato a Londra, la nuova scienza ottenne un’effettiva investitura nazionale.19 La partecipazione italiana al congresso ebbe come immediato corollario, nel 1913, la costituzione del primo Comitato Italiano per gli Studi di Eugenica. I promotori, in seno alla Società Romana di Antropologia, furono Giuseppe Sergi e Alfredo Niceforo. Lo scopo sarebbe stato quello di studiare i fattori in grado di determinare il progresso o la decadenza delle razze, sia sotto l’aspetto fisico, sia sotto quello psichico. Ciò sarebbe stato possibile, ad esempio, attraverso ricerche sull’eredità normale o patologica dei caratteri, l’influenza dell’ambiente e del regime di vita dei genitori sul comportamento dei figli.20

Così, già a partire dall’inizio del XX secolo (e almeno fino al termine degli anni Venti), emersero le figure di parecchi autori e scienziati che, nel corso di tutto il Ventennio, si sarebbero prestati a vario titolo ad assecondare la propaganda razziale del regime.21

Renato Biasutti e la sua opera «Razze e popoli della Terra», potrebbe essere un interessante spunto per capire quale fosse l’atteggiamento italiano all’interno della comunità scientifica riguardo al tema della «razza». Nel contempo, alcuni studi di Alfredo Niceforo erano volti a dimostrare il (presunto) differente grado di «civiltà» delle regioni settentrionali e centrali rispetto a quelle meridionali e insulari. L’autore legava tali supposte differenze strettamente a un minor desiderio di istruzione delle popolazioni del Sud. Si apriva, insomma, una possibile occasione di scontro sulla

18 Cfr. S. KÜHL, Op. cit., 1997, pp. 32-36. La già menzionata conferenza internazionale dell’eugenetica, invece, aveva subito gettato le premesse per creare un’organizzazione internazionale di studi sull’eugenetica. Tra i principali promotori dell’iniziativa, ancora una volta, compariva il tedesco Ploetz. Risultavano legati a questa grande organizzazione in fieri, anche alcuni illustri scienziati italiani come Giuseppe Sergi, Alfredo Niceforo e Corrado Gini.

Allo stesso tempo, non mancavano autorevoli esponenti dell’eugenetica nordica come l’ormai noto Alfred Mjøen. Tutti questi colleghi, dunque, cominciarono a incontrarsi e comunicare sia attraverso convegni e iniziative periodiche, sia tramite scambi di corrispondenza e materiali di studio. L’internazionalizzazione degli studi veniva considerata come uno strumento per migliorare lo sviluppo e la diffusione delle presunte «scoperte», ma anche per rafforzare il concetto di «igiene della razza» a livello globale.

19 F. CASSATA, Molti, sani e forti, 2006, p. 27.

20 Ivi, p. 49.

21 Per un riepilogo dettagliato sul rapporto tra ricerca scientifica e «razza» durante il fascismo, si rimanda a: G. ISRAEL, P. NASTASI, Scienza e razza nell’Italia fascista, il Mulino, Bologna, 1998.

presunta superiorità del Nord rispetto al Sud.22 Invece, il noto antropologo Giuseppe Sergi,23 influenzato dallo spiritualismo «romano-latino», attribuiva agli etruschi il merito di aver scacciato gli ariani (progenie di selvaggi), salvando così la cultura mediterranea, vera culla della civiltà mondiale.24

Quanto al crescente fenomeno dell’emigrazione, il demografo Corrado Gini sosteneva che esso fosse un fattore di impoverimento delle nazioni più deboli e precarie (come quella italiana) a favore di quelle più ricche.25 Riteneva che si dovesse studiare il fenomeno migratorio al fine di frenarlo.

Affermava, inoltre, che la guerra avesse prodotto un effetto benefico per rinvigorire la «razza»

italica.26 Gini, inoltre, sosteneva che il colonialismo italiano trovasse la propria legittimazione nella

«missione di civiltà» che il paese era chiamato a compiere.27 Ancora più scientifico e radicale, invece, era il metodo di studio creato da Nicola Pende.

Quest’ultimo riteneva che la nascita e la crescita dell’individuo potessero essere sottoposte a un controllo «ortogenetico», tale da produrre individui sani e socialmente utili così da migliorare la

«razza». Pende aveva sviluppato queste teorie sin dagli anni Venti, registrando gli individui con schede «biotipologiche» da lui stesso inventate.28 La critica di Pende alle teorie razziali tedesche (in particolare quelle di Rosenberg e Günther) era diretta ed esplicita già dal 1933. Una politica della

«razza» come quella nazista, fondata sul «pregiudizio politico o sul sentimento religioso o sullo spirito settario» e non «sulla logica scientifica ed obiettiva e realistica» non può che condurre – affermava Pende – a «comiche e illogiche conseguenze». Pende, pertanto, rivendicava per l’Italia e per il fascismo, una maggiore regionevolezza sul tema della «razza»:

22 Alfredo Niceforo sarebbe diventato ordinario di statistica e demografia dell’Istituto superiore di commercio (Cfr. G.

ISRAEL, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, Società Editrice il Mulino, Bologna, 2010, p. 149). In merito al rapporto nord-sud, si vedano le opere «L’Italia barbara contemporanea» (1898) e «Italiani del Nord e Italiani del Sud» (1901).

23 Per un approfondimento dettagliato sulla vita ed il pensiero di Giuseppe Sergi, si consiglia: F. CASSATA, Molti, sani e forti, 2006, pp. 28-35.

24 G. ISRAEL, Op. cit., 2010, p. 55.

25 Corrado Gini si era guadagnato la simpatia del duce attraverso la padronanza della statistica. Convinse Mussolini che la demografia, studiata attraverso la statistica, potesse spiegare e risolvere svariati problemi, a cominciare dall’emigrazione. A metà degli anni Venti, dopo essere diventato il deus ex machina del neonato Istat, Gini instaurò un rapporto privilegiato con Mussolini. Ciò lo rese particolarmente inviso ai colleghi ma anche eccessivamente sicuro di sé e dei propri mezzi (Cfr. G. ISRAEL, Op. cit., 2010, p. 117). Sul concetto di «numero come forza», si rimanda al seguente volume: F. CASSATA, Il fascismo razionale, 2006, pp. 17-54. Riguardo alla cosiddetta eugenica «rinnovatrice» di Gini, invece, si suggerisce: F. CASSATA, Il fascismo razionale, 2006, pp. 144-188.

26 G. ISRAEL, Op. cit., 2010, pp. 100-101.

27 F. CASSATA, Il fascismo razionale, 2006, p. 76.

28 G. ISRAEL, Op. cit., 2010, p. 132.

«[...] Ancora una volta noi fascisti, con la nostra impostazione del problema politico della razza, dimostriamo l’equilibrio realistico mediterraneo di fronte all’astrattismo e al misticismo nordico. [...]»29

Come si può evincere da questa prima analisi, così come conferma anche Giorgio Israel nei suoi studi, in Italia si sono manifestati e scontrati molti «razzismi»: «biologico» (talora simile a quello tedesco), «politico», «spiritualistico» (e talvolta «misticheggiante» come quello di Evola), oppure ispirato al mito della romanità e sensibile alle istanze cattoliche.30

Ciò non deve sorprendere poiché, in fondo, anche l’ambiente scientifico italiano aveva iniziato a seguire un filone di studi ampiamente diffusi in gran parte del mondo occidentale. Almeno in una prima fase, dunque, è possibile affermare che il razzismo italiano, rispetto a quello tedesco e, più in generale, «nordico», fosse più «culturale» e meno «biologico». Restando sul campo «scientifico», però, occorre precisare che il dibattito storiografico ha individuato almeno tre possibili dimensioni delle «affinità elettive» tra il fascismo e l’eugenica: i propositi fascisti di rigenerazione fisica e morale degli individui e della nazione; il ricorso propagandistico al tema dell’efficienza economica e razziale a legittimazione di una «politica sociale» interclassista mediata dai tecnici; la propensione retorica e intellettuale per un linguaggio dai toni vitalisti-socialdarwinisti. Inoltre, non vanno dimenticati gli elementi che, in Italia, ostacolavano l’affermazione di un’eugenica di stampo nordamericano, germanico o scandinavo. In particolare, la presenza della chiesa cattolica contraria all’aborto, al certificato prematrimoniale e alla sterilizzazione.31

Il razzismo nazionalsocialista si fondava sulla cosiddetta Volksgemeinschaft (comunità popolare), la quale a sua volta doveva essere preservata dai «nemici del popolo», escludendoli dalla società. In tal senso, la biologia sarebbe stata un efficace strumento di analisi e selezione delle

«razze» più valide rispetto a quelle meno preziose. Successivamente, quando i nazionalsocialisti affiancarono al concetto di Volksgemeinschaft quello di Kulturkampf (lotta culturale), giunsero alla sintesi della cosiddetta Volkstumskampf: la lotta razziale.32

29F. CASSATA, Molti, sani e forti, 2006, p. 206.

30 G. ISRAEL, Op. cit., 2010, p. 32.

31F. CASSATA, Molti, sani e forti, 2006, p. 141. Sulla sterilizzazione si veda: G. BROBERG, N. ROLL-HANSEN, Eugenics and the Welfare State: Sterilization Policy in Denmark, Sweden, Norway and Finland, Michigan University Press, East Lansing, 1996.

32 A. WEISS-WENDT, R. YEOMANS, Op. cit., 2013, p. 7.

L’Italia, forse, si sarebbe voluta e dovuta fermare alla «lotta culturale», evitando di intraprendere la strada della fusione tra «razza» e «cultura». Secondo Alfredo Rocco, ad esempio, la vitalità di una popolazione non era determinata da un retroterra biologico, bensì storico, politico e culturale.33 Allo stesso tempo, comunque, non considerava la «razza» come sinonimo di nazione. Si trattava, invece, di un attributo qualitativo che consentiva di descrivere le connotazioni di una nazione:

resistenza fisica, indice di natalità, omogeneità storica e culturale.34 Quanto alla questione ebraica, come evidenzia Garau, già a partire dall’inizio degli anni Venti, Roberto Farinacci non nascondeva alcune posizioni antisemite nei suoi interventi su «Cremona Nuova» e «Regime Fascista».35 Ancor più antisemita era Giovanni Preziosi che, nel 1920, aveva avviato di propria iniziativa una campagna antiebraica attraverso il suo giornale, «La Vita Italiana». Il suo primo articolo antisemita, quindi, apparve il 15 agosto 1920 e denunciava la preponderanza (negativa) dell’influenza ebraica sulla politica e sull’economia mondiali. In breve, «La Vita Italiana», divenne il più importante giornale antisemita italiano.

Invece, riguardo a Telesio Interlandi e alla sua rivista, «Il Tevere», esistono ulteriori zone d’ombra. Non si può escludere, infatti, che la rivista ricevesse sussidi dal regime di Hitler, ma la vicenda appare assai controversa. Meir Michaelis, ad esempio, affermava che non vi fossero prove certe di un finanziamento economico da parte dei nazisti. Il fatto che Rosenberg, già nel 1926, avesse commentato positivamente «Il Tevere», non può significare che vi fosse una diretta connessione tra Interlandi e i nazisti. Lo stesso Michaelis, affermò che «Il Tevere» fosse l’organo

«ufficioso», così come «Il popolo d’Italia» quello «ufficiale» di Mussolini, ma Interlandi non parlava tedesco e sembra che avesse maggiori contatti con la Francia di Léon Daudet e intellettuali come Ezra Pound.36 Va detto che, nel corso degli anni Venti, le istanze antisemite si mantennero ai

33 Sulla vita e il profilo politico di Rocco si rimanda ad alcuni suggerimenti bibliografici: P. UNGARI, Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del Fascismo, Morcelliana, Brescia, 1963; G. SIMONE, Il guardasigilli del regime: l’itinerario politico e culturale di Alfredo Rocco, FrancoAngeli, Milano, 2012.

34 S. GARAU, Op. cit., 2015, p. 38.

35 Benché trascurati, gli studi su Roberto Farinacci potrebbero aprire prospettive capaci di condurre la ricerca assai oltre il cosiddetto «fascismo di provincia». A tale proposito, si potrebbe fare riferimento a: H. FORNARI, Mussolini’s Gadfly:

Roberto Farinacci, Venderbilt University Press, Nashville, Tenn., 1971; U. A. GRIMALDI, G. BOZZETTI, Farinacci, il più fascista, Bompiani, Milano, 1972; L. SANTORO, Roberto Farinacci e il Partito nazionale fascista, 1923-1926, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006; G. PARDINI, Roberto Farinacci, ovvero, Della rivoluzione fascista, Le lettere, Firenze, 2007.

36 E. CASSINA WOLFF, Biological Racism and Antisemitism as Intellectual Constructions in Italian Fascism. The Case of Telesio Interlandi and «La difesa della razza», in A. WEISS-WENDT, R. YEOMANS, Op. cit, 2013, p. 177. «Il Tevere è l’avamposto della stampa fascista. leggere il Tevere diretto da Telesio Interlandi non significa soltanto essere informati ma anche e soprattutto avere una guida. Quadrivio è l’unico settimanale letterario italiano in cui letteratura arte e

margini del movimento. La situazione sarebbe sensibilmente cambiata negli anni Trenta, già in occasione delle pretese coloniali in Etiopia e, di conseguenza, con la necessità di iniziare a inquadrare un principio di superiorità della «razza» nei confronti delle popolazioni da assoggettare.37

Almeno inizialmente, servendosi del mito di Roma, il fascismo italiano proponeva un’idea di imperialismo e, di conseguenza, di superiorità razziale, più spirituale e culturale che biologico.38 Si tendeva a sottolineare maggiormente l’aspetto della «cultura» anziché quello del «sangue».39 Tale distinzione, tuttavia, si sarebbe letteralmente sciolta di fronte alla pervasiva fusione tra «cultura» e

«razza» di matrice germanica. Anche la propaganda italiana, come si vedrà in seguito, si sarebbe dovuta conformare, non senza accaniti sostenitori del modello tedesco, alla (presunta) superiorità di

«sangue» (e, dunque, di «razza») degli ariani rispetto al resto del mondo. Così, in questo particolare contesto politico, sociale e culturale, si iniziò a parlare sempre più insistentemente di supremazia della «razza», eugenetica, antisemitismo e teoria della cospirazione: in altre parole, alcuni tra i temi più forti che avrebbero consentito a Hitler di ottenere il potere. Successivamente, alcuni teorici della

«razza» meno noti (ma desiderosi di affrontare il tema), iniziarono a condividere anche la componente biologica. In tale contesto non mancarono numerosi contributi da parte di tutti coloro che si erano presentati alla «corte» di Telesio Interlandi.

In generale, soprattutto nel corso degli anni Venti, quasi tutti gli scienziati italiani avevano preferito utilizzare il termine «stirpe» anziché «razza». Giuseppe Sergi aveva fatto «scuola»

perorando la causa mediterranea secondo cui gli italiani, frutto di una felice combinazione di

«stirpi», rappresentavano il prodotto migliore della civiltà latina, mediterranea e, quindi, portatrice di una missione civilizzatrice universale.40 A questa corrente di pensiero, inoltre, avevano aderito personaggi assai illustri dell’epoca come Sabato Visco, Nicola Pende e Giacomo Acerbo.41 Anche in Italia, pertanto, venne alla luce una piccola ma crescente nicchia di intellettuali razzisti (e spesso antisemiti) che, probabilmente grazie al fascismo e alla sua successiva alleanza con il

politica s’illuminano a vicenda» (si veda: «La difesa della razza. Scienza, documentazione, polemica», Anno III, n. 6, 1940, p. 47).

37 S. GARAU, Op. cit., 2015, pp. 122-123.

38 Per una fonte dell’epoca sul tema, a ridosso della Seconda guerra mondiale, si ricordano: G. MARRO, Primato della razza italiana: confronto di morfologia, biologia, antropogeografia e di civiltà, G. Principato, Milano-Messina, 1940;

R. VOLPE, Razza e nazione, linotypografia Spadafora, Salerno, 1940.

39 S. GARAU, Op. cit., 2015, pp. 129-130.

40 Cfr. N. LABANCA, Oltremare: storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 155. Attraverso l’idea di «impero», il fascismo si proponeva come il centro «irradiatore» di una nuova civiltà universale.

41 E. CASSINA WOLFF, Op. cit., in A. WEISS-WENDT, R. YEOMANS, in Op. cit., 2013, pp. 178-179.

nazionalsocialismo, poterono definitivamente uscire allo scoperto. Attualmente, il dibattito storiografico sembra aver preso le distanze dalla convinzione diffusa secondo la quale le leggi razziali italiane fossero state in qualche modo «imposte» a Mussolini dall’ingombrante alleato germanico. Anche grazie alla ricostruzione di quella piccola «bibliografia razzista» e, soprattutto, di quel circoscritto ambiente di scrittori razzisti, infatti, si potrebbero aggiungere contributi importanti a questo profondo dibattito che si è aperto proprio in occasione dell’anniversario degli ottant’anni dall’emanazione delle leggi razziali in Italia. Come ricorda Emanuele Edallo, analizzando il modo in cui venne applicata la politica della «razza» presso l’Università degli Studi di Milano, si tratta di un dibattito storiografico ancora ampio, ma assai incompleto che investe la storia delle università ma anche, ci si permette di aggiungere, dell’intera società italiana dell’epoca.42

Sebbene in modo confuso, ondivago e ambiguo, anche all’interno del razzismo italiano vennero a crearsi diverse «correnti». Si può ragionevolmente affermare che, prima ancora di una

«Montreux» politica, l’Italia facesse parte, a tutti gli effetti, di una «Montreux» scientifica. In tal caso, però, i fautori del progetto non erano stati i fascisti italiani, né tantomeno Mussolini, bensì gli scienziati stranieri, in particolare nordici, inglesi e americani. Occorre precisare, tuttavia, che gli italiani, così come i francesi e molti altri colleghi (anche extra-europei), furono tra i fondatori di quella vasta organizzazione che avrebbe poi preso forma nella cosiddetta IFEO (International Federation of Eugenic Orgnizations). Negli anni Trenta, però, Corrado Gini (in aperta polemica con la fazione angloamericana e tedesco-scandinava dell’IFEO) inaugurò la Federazione Latina delle Società di Eugenica. La svolta avvenne, non casualmente, all’indomani del Congresso Internazionale della Popolazione di Berlino dell’estate 1935, momento di maggiore adesione della comunità scientifica internazionale alla politica della «razza» nazista. Probabilmente l’iniziativa fu la conseguenza di una precisa decisione politica.43 Tuttavia, sarebbe errato considerare l’affermazione internazionale dell’eugenetica come una «moda» o un «vezzo» tout court nati dalla comunità scientifica. I governi di allora, infatti, trovandosi di fronte a seri problemi di qualità della vita come, ad esempio, la salute pubblica e l’alimentazione, si affidarono spesso alla scienza per trovare nuove soluzioni. Il controllo delle nascite, così come la «selezione» degli individui più sani, pertanto, si giustificavano attraverso un diffuso ragionamento sul rapporto tra costi e benefici a livello sociale, quasi solo in ottica nazionale.

Il dibattito complesso e talora controverso che condusse all’emanazione delle leggi razziali, però, fu diverso rispetto a quello tedesco. Mentre le leggi di Norimberga del 1935 non furono altro che il

42 E. EDALLO, Cattedre perseguitate. L’applicazione delle leggi antiebraiche nei confronti del corpo docente della Regia Università di Milano, in «Memoria e Ricerca» a. XXVI, n. 59, 3/2018, p. 1.

43F. CASSATA, Molti, sani e forti, 2006, pp. 173-174.

consolidamento giuridico di un programma politico già definito dal partito nazionalsocialista nel corso degli anni precedenti, le leggi razziali italiane furono una sorta di «escalation» confusa e contraddittoria della violenza.44 Il fascismo recava con sé i germi del razzismo sin dalle sue origini e, come ha riportato Del Boca, Mussolini era, per cultura e temperamento, razzista. La sua paura per le «culle vuote» non dipendeva da ragioni di ordine malthusiano, bensì dal timore che le «razze gialle e nere», crescendo, potessero soffocare la «civiltà dell’uomo bianco»: il primo indizio di questo suo antico razzismo sarebbe emerso già in un discorso del 1926.45

Esisteva, pertanto, un vasto (ed eterogeneo) «milieu razzista» che, all’interno dello stesso regime, avrebbe generato contrasti e frizioni. Si trattava di un nodo intrecciato che il fascismo avrebbe dovuto sciogliere non solo in funzione delle leggi di Norimberga ma, soprattutto, in relazione alla guerra d’Etiopia. Essa, infatti, fece emergere la necessità di stabilire una differenza chiara tra i cittadini italiani e coloro che, invece, sarebbero diventati semplicemente «sudditi» del neo-imperatore Vittorio Emanuele III.46

44 Cfr. D. RODOGNO, Op. cit., 2003, pp. 70-71. Il razzismo italiano, scrive Ruth Ben-Ghiat, rappresentò l’iniziativa più radicale del processo fascista di trasformazione degli italiani come via alla rigenerazione nazionale. La politica razziale, in veste coloniale e antisemita, avrebbe creato una coscienza razziale negli italiani che, nel contempo, avrebbe consentito al paese di capovolgere i rapporti di potenza con le altre nazioni europee ed occidentali come gli Stati Uniti. I popoli, in altre parole, sarebbero stati soggetti alle «leggi della natura», una legge originaria che avrebbe consentito soltanto ai più forti di sopravvivere.

45 A. DEL BOCA, Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005, p. 200.

46 In proposito, si potrebbe fare riferimento agli studi meno recenti di Angelo Del Boca, in particolare: A. DEL BOCA, La guerra d’Abissinia 1935-1941, Feltrinelli, Milano, 1978. Benché il volume fosse prevalentemente concentrato sugli aspetti militari e politici della guerra etiopica, Del Boca anticipò già la portata «biologica» del razzismo italiano in Africa. Ad esempio, la popolazione locale era stata suddivisa tra italiani (cittadini cosiddetti optimo jure) e indigeni (considerati come sudditi e distinti in diverse categorie in base alla loro origine). Tali provvedimenti, volti a separare la

«razza» dei dominatori da quella dei sudditi, presentava tutti i tratti salienti di un «apartheid in salsa latina» che di

«culturale» aveva assai poco. Anzi, in una pubblicazione risalente al 1938 (intitolata «La razza e l’impero»), lo scrittore Angelo Piccioli affermò che l’Italia, tra tutte le nazioni europee, avesse preso per prima posizione nel principio universale della difesa dell’uomo bianco dalla degenerazione del suo sangue (Cfr. DEL BOCA, Op. cit., 1978, p 208). Il fine, in altri termini, sarebbe stato quello di difendere la presunta purezza della «razza» bianca dalle contaminazioni indigene. Il razzismo, per ammissione della stessa propaganda fascista, sarebbe stato il coronamento della politica coloniale fascista (Cfr. DEL BOCA, Op. cit., 1978, p 208). Una simile affermazione metterebbe quindi in discussione il presunto primato o, comunque, l’unicità tedesca nella definizione di un criterio scientifico-biologico atto a distinguere (e discriminare) le «razze». Da una parte, ad esempio, l’affermazione di Piccioli avrebbe contribuito a dissipare i dubbi tedeschi sulla mancanza di una chiara enunciazione del razzismo italiano. Dall’altra, riflessione assai più affascinante, avrebbe rivendicato per sé e per l’intera umanità, il ruolo di guida del «razzismo globale». Per ulteriori approfondimenti sull’atteggiamento di Mussolini nei confronti degli etiopi, si veda anche: R. MALLETT, Mussolini in Ethiopia, 1919-1935. The Origins of Fascist Italy’s African War, Cambridge University Press, 2015.

Come ha fatto notare Labanca, però, tutti gli imperi coloniali erano basati su un semplice schema in cui i «bianchi» governavano e gli «altri» obbedivano. L’italia, a sua volta, fu il primo paese a codificare, in un impero appena conquistato, una legislazione razzista, ideologica e strategica.47 Un altro esempio di razzismo italiano che non può essere negato è quello antislavo. Basti pensare, innanzitutto, alle caratteristiche del cosiddetto «fascismo di confine» lungo le frontiere

Come ha fatto notare Labanca, però, tutti gli imperi coloniali erano basati su un semplice schema in cui i «bianchi» governavano e gli «altri» obbedivano. L’italia, a sua volta, fu il primo paese a codificare, in un impero appena conquistato, una legislazione razzista, ideologica e strategica.47 Un altro esempio di razzismo italiano che non può essere negato è quello antislavo. Basti pensare, innanzitutto, alle caratteristiche del cosiddetto «fascismo di confine» lungo le frontiere