• Non ci sono risultati.

Il duale e il plurale

Que diable es-tu ?

2.2. Epifanie del duale

2.2.1. Il duale e il plurale

Nel visconte è dunque duplice il significato ultimo che assume la sua essenza; tutto in lui, è doppio, è contraddizione: la sua buona educazione, “da filosofo” – “filosofo” è anche il soprannome con il quale Malivert è noto nell’alta società parigina – entra in contrasto con i suoi sogni di una carriera militare, che lo veda attivo sul campo per “quelques années dans un régiment” (A, 89). La sua indole docile gli suggerisce il massimo rispetto per i genitori, sebbene non ne condivida le vedute: soprattutto la sua visione si discosta da quella di suo padre per il quale prova anche un certo disprezzo, allorché, per la madre nutre una profonda affezione – altra marca di duplicità, nonché chiara situazione dalle suggestioni edipiche.

Anche il valore sociale che da Octave emana è ambivalente, giacché, date la sua provenienza dal faubourg Saint-Germain e la sua formazione politecnica, egli rappresenta il potenziale anello di congiunzione tra la nobiltà e la borghesia emergente; in sostanza, la sua posizione mediana funge da spartiacque tra il progresso e l’arretratezza. Riprova ne sono le sue contrastanti passioni per la chimica e per il lavoro della terra, che lo porta a “se détaill[er] à lui-même des expériences d’agriculture à faire parmi les paysans du Brésil” (A, 172).

Il desiderio di uno straniamento sociale è un tratto che rende Octave de Malivert una volta di più prossimo al durassiano Olivier de Sancerre, il quale auspica per sé una vita anonima da agricoltore che si sostenta con il lavoro che viene dalle sue braccia chissà a quale latitudine del paese:

- 81 -

j’envie tout ce que je n’ai pas : je regarde le laboureur qui cultive en paix ses champs, je voudrais prendre sa place (OS, 146)

Ma non è il solo elemento che i due protagonisti condividono. Infatti anche il conte de Sancerre, allo stesso modo del suo contraltare stendhaliano, si pone sotto il segno della peculiarità, della malinconia e della ricerca della solitudine. Lo suggeriscono asserzioni quali “Il semblerait que l’habitude d’une ancienne confiance dût faciliter nos rapports, mais la bizarrerie de mon sort ne permet pas qu’il en soit ainsi” (OS, 146), oppure “Olivier était à Paris depuis deux jours. Il n’a pas approché d’ici” (OS, 157) e le costanti preoccupazioni, nei suoi confronti, delle due cugine e dei conoscenti, come il caso in cui a preoccuparsi è il pacioso Lord Exeter. Lo attesta la seguente lettera di Louise, ad esempio:

Lord Exeter me dit : « Quelle peut être la cause de la mélancolie d’Olivier ? […] dès qu’on approche, il se retire. » (OS, 130)

Questi estratti confermano che la linea di demarcazione tra le personalità dei protagonisti maschili dei due romanzi si traccia tra la singolarità e la dualità, cioè tra due facce della stessa medaglia: quella dell’ambiguità. Au passage, ci teniamo a fare emergere il dato che un animo singolare, schivo e ambiguo torni anche nel primissimo

Olivier di Caroline Pichler.

Non è eccessivo vedere nel visconte di Malivert un alter ego dello scrittore. Il creatore e la creatura condividono infatti l’orientamento liberale, l’affinità elettiva con la madre, la difficoltà nel rapportarsi con il padre e la formazione scolastica, dal momento che l’uno nella vita reale avrebbe fatto carte false per frequentare il Politecnico, mentre l’altro ne esce nella finzione brillantemente diplomato.

Fanno infine significativamente intrecciare realtà e finzione anche alcuni nomi propri; alcuni cognomi presenti nel romanzo sono in realtà dei toponimi; un esempio è rappresentato dal cognome “Claix”, dato ad una nobildonna dell'entourage di Mme de Bonnivet, e di Mme

de Malivert, in cui Malivert è in verità il toponimo della tenuta di

19 Anonimo, "Ritratto di Chérubin Beyle" (1800 ca), olio su tela, tratto da Album Stendhal, p. 2. 18 Anonimo, "Maison de Furonière à Claix", (s.d.), illustrazione, tratta da Album Stendhal, p. 28. 17 Anonimo, "École Polytechnique" (s.d.), foto.

- 82 -

campagna di Chérubin Beyle (1747-1819), padre dello scrittore, nella quale l’intera famiglia trascorre le vacanze estive.

Il ritratto di Octave è completato da pennellate e ritocchi che seguono il gusto del tempo e che lo rendono socialmente fruibile. Stendhal disegna in effetti il suo eroe a immagine e somiglianza di Lord Byron; l’essere sognatore, cupo, fatale, a momenti violento e lunatico sono caratteristiche chiaramente da lui mutuate. Ci si guardi comunque bene dal riconoscere nel visconte di Malivert uno dei tanti figli del secolo, uno di quei giovani vittime di un atteggiamento da loro stessi sventuratamente fabbricato. Egli è ben altro, è il singolare e il duale assieme, è l’ambiguo vestito dell’aura del mito, nello specifico quello di Adone, come vedremo con il quarto e ultimo capitolo.

Ma tornando al nostro romanzo, più volte il protagonista spiazza la sua amata cugina, Mlle de Zohiloff, e con lei il lettore non avveduto, abbandonandosi a comportamenti balzani e lasciando che dalla sua bocca fluiscano mezze parole passibilissime di equivoci. Per rendercene conto possiamo prendere in esame il capitolo XXIX e di esso la scena in cui il rampollo prova, con scarsi esiti, a confidare ad Armance il terribile segreto che gli fa rimordere la coscienza. Quella che viene fuori è, concordiamo con Mario Lavagetto, una “confessione reticente”87:

« La mort me serait moins pénible que le récit que je dois vous faire […] j’ai un secret affreux que jamais je n’ai confié à personne, ce secret va vous expliquer mes fatales bizarreries » en disant ces mots mal articulés, les traits d’Octave se contractèrent, il y avait l’égarement dans ses yeux […] Armance, oubliant sa retenue ordinaire, lui serrait la main avec passion et le pressait de parler […] Cette sensation l’attendrit ; parler lui devint facile. « Oui, chère amie, lui dit-il en la regardant enfin, je t’adore, tu ne doutes pas de mon amour ; mais quel est l’homme qui t’adore, c’est un monstre. » (A, 229)

La fanciulla, essendo all’oscuro di tutto, non capisce a cosa alluda il suo innamorato con le parole che abbiamo testé riportato; lo immagina perciò colpevole di chissà quali crimini. Il travisamento delle sue dichiarazioni dipende anche dalla maniera con la quale esse e il resto del libro furono scritti. La narrazione infatti viene a dipanarsi mediante un narratore extradiegetico; una voce fuori campo, abbastanza lontana da cogliere i rumori

87 Cit. dall’introduzione di Mario Lavagetto alla traduzione italiana di Armance. Per l’integralità della

riflessione si veda Stendhal, Armance o alcune scene di un salotto parigino nel 1827, Torino, Einaudi, 1999, p. XVII.

20 Thomas Phillips (1770-1845), "Lord Byron" (1824), olio su tela, s.l.

- 83 -

dei pensieri dei personaggi, ma anche sufficientemente vicina dall’essere in grado di leggerne ironicamente e criticamente la condotta.

Se all’autore è possibile adottare una focalizzazione zero, ovvero di avere accesso all’interiorità dei personaggi è perché il punto ottico della diegesi non è troppo distante dai personaggi.

In altre parole è come se il narratore si accomodasse “alle spalle” delle sue figure finzionali senza essere direttamente implicato nell’intreccio. Riscontri della sua non neutralità ci vengono anche dalle metalessi con le quali egli più e più volte interrompe il filo della storia per intrattenersi in commenti con i suoi narratari. Questa caratteristica che, sottolineiamolo, costituirà il marchio di fabbrica della scrittura stendhaliana, in questa sede rafforza lo statuto ambiguo di cui il romanzo partecipa.

Un narratore che si pone a fianco dei personaggi assume una posizione privilegiata, dalla quale sentire il rumore dei loro pensieri più intimi, il variare dei loro stati d’animo, la profondità dei loro cuori. Il narratore stendhaliano, ciò nonostante, per propria volontà tace questi aspetti al pubblico dei lettori e finisce così per entrare in contraddizione con la propria funzione, cioè raccontare e condividere.

Qualcuno potrebbe obiettare, rispetto a quanto è appena stato asserito, che neanche in Olivier ou le secret ha luogo uno svelamento. Quello del libro della Duras però è un caso a parte, in quanto a quella storia la segretezza si addice in ragione della forma alla quale la fabula è stata affidata: il romanzo epistolare. Per statuto esso è polifonico, presupponendo la pluralità dei punti di vista.

Nel corpus di lettere della duchessa le voci che si fondono per dare origine al narrato sono tre e coincidono con i tre personaggi principali: Olivier, Louise e Adèle. Sarebbe a dire che abbiamo a che fare con tre narratori omodiegetici. E già qui si fa abissale la differenza con il testo stendhaliano – ove il narratore unico, lo abbiamo poc’anzi precisato, nella storia non ha alcun ruolo attivo. La conseguenza diretta è che non emerge un’unica verità dal libro di Mme de Duras, dove le versioni fornite sono tre, mentre in Armance l’ottica fondamentalmente è una, ossia quella del narratore, che guarda attraverso la lente dell’eroe, tacendone però la profonda verità.

Inoltre, alla modalità epistolare si perdonano volentieri fraintendimenti e mistificazione delle informazioni; è normale amministrazione che nella pratica del carteggio certe lettere possano essere consegnate con ritardo, altresì lo è l’eventualità

- 84 -

che nella triangolazione che si crea tra i corrispondenti uno di essi rimanga all’oscuro di alcuni dettagli importanti, giacché la missiva viene da ciascun mittente indirizzata in un’unica copia soltanto ad una delle due persone con le quali corrisponde.

A far sì che i cortocircuiti intrinseci all’impianto formale scelto per il roman-

nouvelle non rasentino l’inverosimiglianza, ci pensa la stessa autrice, affidando al

personaggio di Adèle il ruolo di arbitro delle comunicazioni; grazie agli interventi della marchesa infatti gli equivoci che si producono con gli scambi di epistole vengono sempre sciolti e le informazioni che restano fuori dalla comunicazione riescono ad essere veicolate anche al terzo escluso, mediante una lettera riparatrice. In Armance, di contro, la voce alla terza persona, nel tirare le fila del racconto, abiura alla funzione chiarificatrice e il lettore viene così risucchiato nelle zone d’ombra della narrazione.

2.2.2. Un mostro

Dopo questa necessaria parentesi che ci ha rivelato le ragioni per le quali l’ambiguità risulta essere un tratto strutturale e intrinseco al romanzo stendhaliano al punto di fare di Octave una creatura singolare e allo stesso tempo plurale, simile ora a Olivier de Sancerre, ora allo stesso Stendhal, ora a Byron, assume finalmente un senso la pletora di ipotesi sulle sue stranezze che da decenni disorienta tutti i commentatori. Se non si fosse edotti sulla condizione di impotenza vissuta dal protagonista dalla famosa lettera

che Stendhal indirizzò al sodale Mérimée nel dicembre del ‘26, tutte le congetture sul conto del nobiluomo potrebbero allo stesso titolo dirsi valide.

Octave potrebbe dunque essere un pazzo, un nevrotico, uno psicastenico all’ultimo stadio; o magari perché non un omosessuale represso come potrebbero fare pensare lo stampo byroniano, le pose custiniane, l’amore sconfinato per la madre e l’aggressività verso il maschile che sia il suo servo, un militare o il padre.

Siccome nessuna di queste tesi ha più diritto di un’altra di essere presa per buona alla luce dei fatti per come vengono esposti nel romanzo, quel che resta da fare per capire meglio Octave e la sua storia è attenersi proprio a quanto di certo c’è: il personaggio si autodefinisce un “mostro”.

21 Anonimo, "Prosper Mérimée" (1803), litografia, cm 32,3 x 23,3, Musée national du Château de Compiègne, Compiègne.

- 85 -

A nostro avviso la definizione è plausibile se si prende il sostantivo nel suo senso etimologico, giacché il francese “monstre”, alla stregua del suo corrispettivo italiano “mostro”, deriva dal latino monstrum. Questo sostantivo ha in sé la radice del verbo moneo che significa “mostrare” nel senso di “avvisare”; un mostro perciò è una creatura la cui missione è quella di ammonire con i suoi atti o con le sue azioni: insomma è investito di un ruolo gnomico ed esemplare.

Se l’impartire una lezione di vita è anche una delle finalità preminenti della mitologia, insegnando qualcosa al prossimo con il suo esempio e il suo destino, Octave da “mostro” si innalza in definitiva al rango di mito. Nei capitoli che verranno appureremo sulla base di riscontri testuali concreti che il mito che più paradossalmente si confà alla storia del mostruoso e impotente Malivert è quello che narra delle gesta del bellissimo e prestantissimo Adone.

Ma andiamo per gradi e torniamo all’etimologia della parola monstrum. Monere in latino, come il nostro libro e il suo eroe, ha significazione ambigua. A fianco del significato di cui abbiamo detto infatti si pone la connotazione corrente, forse meno positiva ma non meno rilevante, di un qualcosa che esce dagli schemi e dall’ordinario. Con moneo gli antichi designavano infatti anche i portenti, i prodigi e i fenomeni di fronte al cui cospetto si restava interdetti, cioè i cosiddetti mirabilia.

Dal momento che lo stupore misto a sconcerto è la stessa reazione che il visconte suscita nelle figure con cui ha a che fare,vuol dire che egli è un campione di ambiguità, tra il morale e il prodigioso. La tesi della compresenza nell’eroe del singolare e del duale appare così corroborata.