A 3 Anonimo, "Claire de
1.2.2. Un romanzo alla Pichler
Il filo rosso invisibile che unisce le due opere è ancora più labile di quanto non lo sia quello che lega i récits d’impuissance fra loro. Non deve dunque stupire che esso sia sfuggito sinora all’intero parterre della critica armanciana. Non essendo però sfuggito a noi, ci apprestiamo in questa sede a palesarlo.
Il collegamento intertestuale con la Pichler viene stabilito da Stendhal tramite il ricorso all’onomastica, procedimento ricorrente dell’autore, come ricorda Uchida:
on connaît sa manie cryptographique, qui dérobe l’intérieur de sa pensée aux yeux indiscrets […] Un nom propre qui apparaît à première vue transparent, est en réalité un voile qui cache la vraie signification mise au service personnel de l’auteur.36
Interessantissima si fa allora una vaga traccia, collocata con naturalezza da Henri Beyle nella sua prosa, la quale getta un ponte che si estende sino alle pagine dell’Olivier di Caroline Pichler. Dopo poche righe dall’avvio del capitolo IV nel romanzo stendhaliano si legge infatti:
Octave, qui avait un goût parfait, admira la vérité du dessin de ces deux tibias et la perfection de la gravure. C’est de l’école de Pikler, se dit-il37 (A, 108).
Contestualizziamo l’estratto rispetto alla fabula e vediamo di elucidarne il significato più immediato. Il visconte di Malivert si è appena visto consegnare da un domestico un volume assai corposo, rivestito di cartapecora inglese, di cui gli ha fatto dono una persona misteriosa che poi si scoprirà essere Mme de Bonnivet. Nello scartarlo constata che si tratta di una Bibbia rilegata da uno dei massimi artigiani dell’epoca, Joseph Thouvenin (1790-1834).
Procede a quel punto ad esaminare l’oggetto che ha catturato la sua attenzione con maggiore minuzia. Il dorso del volume è ornato da un rilievo composto da due tibie, il cui significato l’autore evidenzia a mezzo del corsivo. Le due ossa sulle quali vogliamo concentrare la nostra analisi sono inoltre decussate e poste su un fondo color sabbia.
36 Uchida, op. cit., p. 8.
37 Il grassetto nelle citazioni in corpo di testo è nostro in questo caso, come lo è tutte le altre volte che
compare in citazione nel corso di questo lavoro. Si è adottata questa soluzione grafica poco consueta al posto del più tradizionale corsivo, perché esso è stato utilizzato da noi, come dai curatori delle edizioni a stampa delle opere stendhaliane, per rendere tipograficamente l’enfasi che su certi termini l’Autore mette nella stesura dei manoscritti originali mediante la sottolineatura a penna.
13 Tipico esempio di tibie incotriate e teschio.
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Osservando la “perfection de la gravure” (A, 108) Malivert esclama appunto: “C’est de l’école de Pikler”.
Presa di per sé l’esclamazione del protagonista potrebbe essere giudicata futile – essendo destinata ad un oggetto che, per l’economia della storia, non ha apparentemente alcuna finalità – ma, a ben vedere il libro a cui si riferisce fornisce innanzitutto la prova del fatto che Stendhal è stato un seguace della massoneria come pure lo era stato suo padre Chérubin.
A darci questa informazione è lui stesso in un suo diario: “J’ai été reçu franc- maçon vers le 3 août.”38 Documenti scoperti da Georges Andrieux più precisamente attestano la sua affiliazione alla loggia parigina della Sainte-Caroline, conosciuta anche come la loggia “italiana”, data la preponderanza della nazionalità italiana tra i suoi affiliati.
Per tornare alla croce formata dalle tibie incrociate e sormontata da un teschio, nella simbologia massonica, essa ha l’eminente funzione di distinguere il Maestro delle Cerimonie (M.d.C.), il quale la indossa in un gioiello ad ogni riunione della propria loggia. La somiglianza con la croce di Sant’Andrea è voluta dai massoni in quanto quest’ultima esotericamente simbolizza il moto energetico da cui si sprigiona la vita, dal momento che il Santo, secondo la credenza cristiana, salì con slancio sulla ruota del martirio.
Siamo certi del fatto che Stendhal non ignori il valore muratorio che si nasconde dietro suddetto simbolo e che di conseguenza ne inserisca di proposito allusione in
Armance. Altresì, siamo certi che egli lo conosce poiché l’adozione dello stesso è
generalizzata a tutte le logge; lo si individua infatti ricamato in molti dei paramenti usati durante le cerimonie, ma abbondano anche sue riproduzioni su elementi architettonici posti ad ornamento delle sale in cui i massoni si riuniscono per le iniziazioni, per non dire dei tantissimi manufatti, quali carte, coccarde, stemmi, che ne danno raffigurazione e di cui noi forniamo alcune testimonianze fotografiche in fondo a questo intervento (Appendice I).
Vale comunque la pena specificarne il significato. Il disegno39, riassumendo il principio massonico della vittoria dello spirito, figurato dal teschio, sulla carne, simbolizzata dalle tibie, di fatto si pone in continuità con il messaggio di cui Octave de
38 Stendhal, Œuvres intimes, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, Gallimard, 1981, t. I, p. 455. 39 Cfr. Kirk Macnulty, Massoneria. Simboli, segreti, significato, Milano, Mondadori, 2014, p. 95.
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Malivert vuole essere foriero, vale a dire la capacità di vincere i propri istinti e desideri – anche sessuali – allo scopo di mostrare il proprio lato migliore, quello più interiore ed intimo della coscienza e dei valori essenziali che forniscono la base per la propria moralità e che influenzano le proprie scelte di vita.
Per giunta, che il simbolo è particolarmente caro a Stendhal è testimoniato dal suo ricorrere anche ne La Chartreuse de Parme: due tibie poste a croce di Sant’Andrea su un teschio compariranno, identiche, a guisa di dettaglio ornante la cripta nera in cui Fabrice del Dongo e Clélia Conti si troveranno durante la prigionia del giovane. Nella descrizione di quell’angusto luogo di incontro si leggerà infatti:
Les murs et la voûte sont entièrement revêtus de marbre noir ; des colonnes noires aussi et de la plus noble proportion sont placées en lignes le long des murs noirs, sans les toucher, et ces murs sont ornés d’une quantité de têtes de morts en marbre blanc, de proportions colossales, également sculptées et placées sur deux os en sautoir40.
Nel farsi qui architetto della cittadella di Parma, Stendhal riprende a piene mani dal suo primo libro, Armance e, cosa oltremodo significativa, ripesca abbondantemente anche dal proprio retroterra di Muratore Libero. È bastevole invero prendere in mano un’opera illustrata dei simboli e dei cimeli massonici per rendersi conto che quel macabro fregio di un teschio con due tibie decussate è una costante.
A porre l’enfasi sul piccolo dettaglio glittico descritto in Armance ci pensa lo stesso narratore mediante un espediente formale, cioè scegliendo di affidarlo alla modalità del discorso indiretto libero. Cede infatti la parola improvvisamente ad Octave, allorché sino a quel punto non gli aveva lasciato alcun margine di espressione. La consegna del testimone viene peraltro realizzata senza nessun segnale che sottolinei una transizione da una voce all’altra. Naturalmente questa repentina presa di parola comporta una forte variazione nel ritmo del racconto.
Viene spontaneo chiedersi allora il perché di questo passaggio. Ebbene, l’opinione che ci siamo fatti al riguardo è che la finalità ultima di Stendhal fosse stata quella di porre in risalto il cognome “Pikler” che, notiamo, è quasi omofono di “Pichler”, ovvero del nome da nubile della romanziera austriaca autrice del primo
Olivier.
Dunque, che anche Stendhal di conseguenza avesse letto e apprezzato il libro e volesse così rendergli omaggio? Ci sentiamo di rispondere di sì, vista e considerata la
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sua fissazione per l’onomastica e i giochi di parole, che assai bene lo studioso François Yoshitaka Uchida ha portato alla luce nel suo puntualissimo studio41; asserire che tutto ciò sia stato il frutto del caso apparirebbe inverosimile.
Impressionante è il fatto che questo dato così rilevante non sia mai stato colto da nessun critico che si sia occupato sino ad oggi del romanzo. A discolpa di chi ci ha preceduto, dobbiamo comunque ammettere che esso è stato dall’autore ben mimetizzato, essendo stato trasposto ad un contesto totalmente estraneo a quello della letteratura, vale a dire all’arte dell’intaglio su pietra. Non stupisce dunque che ad oggi le parole spese intorno al criptico cognome siano soltanto quelle dei curatori dell’edizione della Pléiade, vale a dire Yves Ansel e Philippe Berthier (A 901).
Essi si sono limitati a proporre una plausibile ma non certa identificazione: infatti hanno suggerito che la persona nominata potesse essere Johann Peter Pichler (1765-1806), un incisore che Stendhal aveva menzionato qualche anno prima in Rome,
Naples et Florence.
La loro ipotesi è suggestiva, poiché sfogliando il resoconto di viaggio da loro indicato, il cognome “Pikler” effettivamente si manifesta al punto in cui lo scrittore di Grenoble rimembra di quella volta che in visita a Firenze, sul Ponte Vecchio, si imbatté in Nathan, un caro vecchio amico ebreo che commerciava in piccoli oggetti di valore:
Il m’a conduit à l’instant pour ne pas se séparer de moi, et comme son associé, chez un homme auquel il a vendu 10 louis une excellente pierre gravée de Pikler. (RNF, 192)
La citazione, oltre a aiutarci a rimarcare che ancora una volta, proprio come in
Armance, il narratore si fosse intestardito a mal trascrivere il cognome – quello del
personaggio cui fanno riferimento i curatori della Pléiade è “Pichler” che, oltre che omofono è anche omografo perfetto del patronimico della scrittrice austriaca – ci consente di ventilare l’ipotesi che l’artista di cui si parla nel suo libro, e, conseguentemente anche nel nostro romanzo, non sia la persona che i due studiosi francesi identificano.
La tecnica glittica con cui il sigillo armanciano risulta dalla descrizione essere stato eseguito, era precipuo cavallo di battaglia di un altro artigiano, il partenopeo Giovanni Pichler (1734-1791), meglio noto con lo pseudonimo artistico di Johann. Tale pseudonimo egli aveva scelto reputando la risonanza teutonica più consona al bacino dei
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suoi fruitori, preminentemente localizzato nell’Italia settentrionale, la quale risentiva molto nel Settecento del clima mitteleuropeo. Da una ricerca che abbiamo condotto sulle opere che costituirono il palmares dell’artigiano Johann, la traccia dei lavori di incisione è esigua rispetto ai manufatti pittorici.
La coincidenza del nome d’arte con il nome anagrafico dell’artista potrebbe avere indotto i curatori della Pléiade in confusione. Non è da accantonare quindi, in alternativa alla loro tesi, la supposizione che l’italico Giovanni fosse l’incisore noto a Stendhal, visto e considerato che tale Giovanni aveva preso in moglie la figlia di Vincenzo Monti, del quale l’intellettuale di Grenoble fu intimissimo amico. Deve essere stato perciò senz’altro in una delle sue tante visite a casa di Monti a Milano che le traiettorie di Henri Beyle e del napoletano Giovanni Pichler si incrociarono.