Epifanie e costanti mitiche in Armance
3.2. L’eroe e il Mondo ovvero il mimetico-basso
3.2.2. La caduta in disgrazia dopo l’età dell’oro
Una costante immancabile in ogni mito che si rispetti è quella della caduta in disgrazia dopo un’iniziale età dell’oro; solo la realizzazione di questa fatalità crea le condizioni di base perché delle gesta eroiche riparatrici possano essere compiute. Lo stesso schema si ritrova nelle fiabe, ci dice Propp, sottolineandone l’altissima pertinenza morfologica, poiché se non vi fosse la rottura del paradisiaco equilibrio iniziale, il personaggio principale della novella non sentirebbe esigenza alcuna di abbandonare la propria casa per mettersi alla prova195.
La continuità transgenere di questo specifico mitologema è del resto stata solidamente motivata anche da Joseph Campbell nella monografia con la quale ha illustrato tutte le sfaccettature assunte dalla figura eroica nei miti aventi un unico protagonista, cioè quelli che lui chiama i “monomiti”, tramandati dalle principali culture di Oriente e Occidente. Lo studioso giunge all’individuazione di un modello attanziale che caratterizza anche il modello del romanzo di formazione in voga nell’età dei Lumi (si pensi ad esempio a Voltaire)196. Esso è scandito da tre momenti: il momento della partenza dell’eroe, a seguito per l’appunto del venir meno della stabilità iniziale, l’iniziazione, a mezzo di una serie di prove, previo l’incontro con una guida (o un alter ego), e il ritorno alla situazione di partenza con una nuova coscienza e una crescita personale.
Al primo grande stadio dell’avventura, quello della separazione o partenza, si approda quando un fattore improvviso, abbattendosi sul microcosmo idilliaco, costringe
194 Benjamin-Noël, op. cit., p. 68. 195
Si rimanda per le caratteristiche specifiche che il topos assume nella narrazione fiabesca a Vladimir Propp, Morfologia della fiaba, Roma, Newton Compton, 2012, pp. 33-43.
196 Tale unità modellare prende il nome di unità nucleare dei monomiti. Cfr. Joseph Campbell, L’eroe dai
- 174 -
il suo protagonista a “trasferi[re] il suo centro di gravità dalla società in cui vive a una zona sconosciuta”197. Armance di Stendhal reinterpreta magistralmente il motivo della rottura dell’equilibrio di un’iniziale età aurea e della conseguente urgenza di un abbandono dello stadio iniziale198. Vediamo di capire come.
Sebbene sia stato il greco Esiodo a fissare sulla carta per la cultura occidentale il mito dell’età dell’oro, vi sono massicce evidenze della sua pervasività nei principali lavori letterari dell’antichità199; esse sono dovute, precisa Heimberg, al fatto che “human beings yearn for an earthly paradise”200, di conseguenza “over the millennia immense efforts have been directed towards the making the material world a better one”201. Virtualmente ogni cultura si è forgiata il racconto di un periodo antecedente alla caduta in disgrazia dei padri – quella che Richard Heinberg chiama icasticamente “time before the fathers fall asleep”202
– nel quale non c’erano né morte né malattie, in cui gli uomini riuscivano a comunicare con gli animali e in cui la comunicazione con il creatore era diretta. Sopraggiunge poi come un fulmine a ciel sereno la degenerazione e all’uomo non resta che la nostalgia per ciò che non è più.
Tenendosi ben saldo al principio della verosimiglianza, Stendhal nella fase iniziale della sua diegesi ricostruisce punto per punto la condizione paradisiaca di un’antica età dell’oro, di modo da avviare poi la sua creatura, il visconte di Malivert, verso la caduta, e farne così la vittima espiatrice di un degrado irreversibile. Nelle prime pagine del romanzo non si reperiscono descrizioni idilliache con un Octave de Malivert in perfetta comunione con la natura, tuttavia non mancano rinvii a caratteristiche tipiche dell’età dell’oro.
197 Ivi, p. 74. 198
Il concetto dell’esistenza di uno spazio dell’idillio e della sua perdita trova un’autorevole voce anche in Michail Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 2001.
199 Il mito dell’età dell’oro, chiarisce Robert Graves, probabilmente si ricollega all’organizzazione sociale
di certe tribù devote alla Dea-Ape, ma all’epoca di Esiodo, il primo a tramandarci la credenza per scritto, ci si era ormai scordati dei riti crudeli che accompagnavano il culto di tale divinità e i mitografi furono, perciò, indotti idealisticamente a supporre che gli uomini, a quel tempo, vivessero in pace e in armonia come le api. Durante quell’età, tutti vissero insomma senza pena e fatica, nutrendosi, secondo il racconto, di ghiande, di frutta selvatica e del miele che stillava dalle piante. Fra svaghi e danze, nessuno invecchiava e la morte di conseguenza non suscitava alcun timore. L’equilibrio d’un tratto però si spezzò portando all’estinzione del “bengodi” e da quel momento gli uomini dovettero rimboccarsi le maniche e partire alla ricerca di nuovi mezzi per garantirsi la sopravvivenza e la felicità. Abbiamo attinto la ricostruzione dalla monografia di Robert Graves, I miti greci, Milano, Longanesi, 2005, pp. 35-37.
200
Heinberg Richard, Memories and Visions of Paradise. The Spiritual Heritage and Destiny of Mankind, Loveland, Emissaries of Divine Light, 1985, p. 8.
201 Ibidem. 202 Ivi, p. 10.
- 175 -
Tale individuo non conosce la malattia, abbiamo visto, cosa che era del tutto ignota anche all’eroe stendhaliano fino all’adolescenza, quando divenne “fort souvent malade” (A, 89); non sa inoltre cosa sia la preoccupazione, vivendo in uno stato costante di benessere e per Octave, ancora studente, è lo stesso:
Le séjour de cette école [Polytechnique] lui avait été cher, parce qu’il lui offrait l’image de la retraite et de la tranquillité (A, 92).
Il fatto che la proposizione sia costruita attorno al tempo verbale dell’imperfetto, cioè il tempo sintatticamente designante la durata, inoltre è sintomatico della condizione di continuità di questa disposizione alla prosperità provata da Malivert durante tutto l’arco di tempo trascorso tra le mura di quella scuola. Infine, abbiamo evidenziato come colui che vive la condizione privilegiata dell’età aurea abbia un rapporto privilegiato con il
- 176 -
divino, tipo di relazione che ovviamente è vanto anche del nostro eroe, al contempo angelo e demone.
Il fattore perturbante che cala dall’alto a distruggere la condizione paradisiaca vissuta da Malivert è l’impotenza sessuale, che si manifesta presumibilmente con la sua pubertà, visto che la sua salute si fa stranamente cagionevole proprio a quell’età, e che lo tormenta con maggiore veemenza in occasione del varo della legge d’indennità, la quale rende agli occhi di suo padre impellente la necessità di far sposare il figlio. Che la rottura dell’equilibrio esistenziale sia scritta nel destino di Octave è testimoniato dal suo stesso nome di battesimo, derivante dal latino “octavus”. Dal momento che il sette è il numero perfetto secondo la mistica ebdomatica, è noto che in astrologia l’otto è la figura dello squilibrio. Si legga la descrizione secondo la manualistica di settore:
L’ottava casa indica il distacco dal proprio ambiente naturale, le crisi psichiche e le trasformazioni. Rappresenta la “morte” del soggetto, in senso fisico ma anche spirituale, quindi le sue capacità di rigenerazione. Eredità materiale e morale, guadagni. Influenza psicofisica dei genitori. Denota infine debole vitalità, morte prematura del soggetto.203
Il brano succitato sottolinea come la casa ottava sia la casa del distacco dalle situazioni precostituite allorché parla di “trasformazioni” e di “morte spirituale del soggetto”. È inoltre il punto del quadro astrale cui si ascrive la necessità di partire – il “distacco dall’ambiente naturale” – per trovare una nuova via – la “rigenerazione”. Il protagonista queste condizioni le esperisce tutte, poiché è confrontato a continui sbalzi di umore – le sue “bizarreries” (A, 228) – a crisi psichiche – di cui abbiamo portato gli esempi nel secondo capitolo – e a una forte influenza dei propri genitori. Un esempio lampante è dato sul versante psicologico dall’insistenza del padre perché si sposi e, sul piano fisico, dall’ossessione della madre per una sua malattia di petto. In aggiunta, la casa ottava implica la stessa “debole vitalità” che contrassegna Octave, ci riferiamo cioè a quell’indolente indifferenza a ciò che succede attorno a lui e che ha il suo acme nell’inazione. Infine come non portare l’attenzione sul fatto che la casa ottava in astrologia avanza l’eventualità di una morte prematura e che Octave muore a soli venti anni?
Tutti questi puntuali riscontri ci fanno ritenere che il visconte di Armance porti in sé, nomen omen, lo spirito della casa ottava e che sia in definitiva il segno vivente dello squilibrio. Ad ogni modo se il nome di battesimo del personaggio indica lo
- 177 -
spezzarsi dell’idillio aureo, anche il suo patronimico è un potentissimo indice, per la precisione della transizione dall’età dell’oro verso qualcosa di nuovo. “Malivert”, in breve, sarebbe un indizio metaforico della necessità del beniamino stendhaliano di partire, quindi di compiere il primo stadio della parabola eroica descritta da Campbell. Esso, fra l’altro, richiama, attraverso il termine “Vauvert”, la celeberrima espressione francese “aller au diable Vauvert”204, la quale significa, giustappunto, “partire molto
lontano”, e ad essa ulteriormente si rinsalda per via del fatto che in essa si cita il diavolo, creatura cui Octave, sin dal morfema “mali-” del suo patronimico, abbiamo visto essere molto vicino.
Il fatto che lo squilibrio cagionato ad Octave dall’impotenza sia iscritto nel suo nome di battesimo ha inoltre evidente dimostrazione nel fatto che Henri Beyle aveva sulle prime preso in seria considerazione l’idea di utilizzare per il proprio personaggio principale “ce nom” di Olivier che così consolidatamente “fait exposition et exposition non indécente”205 da tempi antichissimi e delle cui eco si erano giovati la duchessa di Duras e l’amico Hyacinthe Thibaud de Latouche.
La tradizione di appaiare quel nome proprio di persona maschile alla problematica dell’impotenza sessuale, lungi dall’essere di formazione recente, vantava delle origini retrodatabili addirittura all’epoca tardo-latina. Di fatto, il primigenio specimen associativo si trova nel trattatello di S. Agostino (354-450 d.C.) De nuptiis et
concupiscentia, il quale, entrando nel merito del dibattutissimo dogma della grazia,
portava a corollario la trattazione di altri punti della dottrina non meno delicati, quali il peccato originale.
Fu per l’appunto nel tentativo di presentare quest’ultimo nella maniera più facilmente comprensibile anche ad un pubblico di destinatari il quale non era formato strettamente da teologi che il Padre della Chiesa pose la prima pietra di un’impalcatura che, per metonimia, avrebbe condotto a fare del nome proprio “Olivier” sinonimo di
204 Per chiarire l’origine dell’espressione ci rifacciamo al Trésor de la langue française in versione
digitale. Sotto la voce “Vauvert” leggiamo: “nom d’un château situé près de Gentilly. Selon Sainte- Fois (Essais sur Paris), le château aurait été convoité par les Chartreux propriétaires d’un château voisin, qui pour inciter le roi Louis IX à leur en faire la donation, organisèrent des apparitions de diables. L’une d’elles évoque le château de Vauvert, également appelé château de Val Vert, à proximité de Paris. Au Moyen Âge, on racontait que des actes blasphématoires y étaient commis. Dans l’esprit populaire, le diable n’était donc jamais bien loin de ce lieu. Saint Louis décida au XIIIe siècle de purifier l’endroit et
d’y créer un couvent. À cette époque, aller au diable Vauvert voulait dire s’aventurer dans une dangereuse et longue expédition”. La citazione è rinvenibile per intero al seguente indirizzo web: http://atilf.atilf.fr/dendien/scripts/tlfiv5/advanced.exe?8;s=1453966650.
- 178 -
“impotente”. Il fattore scatenante fu che S. Agostino ricorse alla pianta dell’ulivo, nella sua varietà selvatica, in latino detta oleaster, per far passare il concetto che un infante, appena vista la luce, si trovava nella situazione di essere macchiato del peccato originale, ereditato con il dono della vita, perché non ancora consacrato dal battesimo.
Il santo esponeva la condizione del “nuovo” attraverso un’allegoria: ogni uomo alla nascita è un essere “selvaggio” esattamente come selvaggia è la pianta dell’olivastro. Dopo il battesimo il bambino approda alla purezza, come puro è l’ulivo (in latino oliva) poiché, nato da una serie di interventi sulla natura vergine dell’uomo, paragonabili al battesimo. Interventi già in uso a partire dai Fenici. Le allegorie che Agostino usa per costruire questo impianto analogico sono così suggestive che ci pare doveroso lasciargli la parola:
Hoc autem quod in in parente regenerato tamquam in oleae semine, sine ullu reatu, quia remissum est, tegitur; profecto in prole non dum regenerata, velut in oleatro, cum reatu habetur, donec etiam illic eadem gratia remittatur. Ex quo enim Adam ex olea tali, in qua nec semen erat eius modi, unde amaritudo nasceretur oleastri, in oleastrum peccando conversus est, quia tam magnum peccatum fuit, ubi magna fieret in deterius matatio naturae, totum genus humanum fecit oleastrum, ita ut (quem ad modum nunc in ipsis videmus / arboribus) si quid inde in oleam gratia divina converit, ibi vitium primae navigati, quod erat originale peccatum de carnali concupiscentia traductum et adtractum, remittatur, tegatur, non imputetur, unde tamen oleaster nascatur, nisi et ipse in oleam eadem gratia renascatur206.
Ciò che nel genitore rigenerato rimane nascosto, come nel seme di ulivo, senza alcuna colpa perché è stata rimessa, si ritrova certamente nel figlio non ancora rigenerato, come nell’oleastro, insieme alla colpevolezza, fino a quando non venga rimesso anche in lui con la grazia. Dal momento infatti in cui Adamo da olivo qual era, in cui cioè non c’era un seme dal quale potesse nascere l’amaro oleastro, si mutò peccando in oleastro, perché il suo peccato fu talmente grave da produrre una grossa degenerazione della natura, rese oleastro tutto il genere umano. Cosicché, come ora vediamo anche negli alberi, se la grazia divina ne trasforma in olivo qualche individuo, il vizio della prima nascita, che era il peccato originale trasmesso e contratto dalla concupiscenza carnale, è in lui rimesso, ricoperto e non imputato; da esso tuttavia nascerà l’oleastro a meno che egli non rinasca a olivo con la medesima grazia.
Al di là delle implicazioni dottrinali (cioè del fatto che tutti gli uomini alla nascita secondo Agostino condividono la condizione di oleastro a meno che Dio non abbia fatto loro dono della grazia), il passo ha avuto delle ricadute culturali non trascurabili. Ma
- 179 -
qual è il presupposto in base al quale si giunge a fare dell’ulivo un simbolo dell’impotenza sessuale e del prenome “Olivier” un sinonimo di impotente?
Oliverius ha assunto questa accezione poiché letteralmente significa “possessore
di ulivi” e stando a S. Agostino, “è un ulivo”, la persona che non porta la macchia del peccato originale, perché graziato alla nascita e perché ha preservato questa sua purezza non cedendo alla concupiscenza carnale. Ma chi è che pur tentato dalle lusinghe della carne, può restare vergine? La risposta è chiara: l’impotente, appunto.
Il dado fu così tratto e il nome proprio “Olivier” divenne sinonimo di impotenza; binomio questo che non aveva perso il suo smalto con il passare dei secoli, visto l’uso che ne fanno Pichler – la quale lo cuce addosso ad un eroe che per la sua bruttezza non può esperire le gioie dell’amore nella sua completezza – e, a cascata Duras e Latouche che lo adottano a prenome dei loro due nobili impotenti.
A suffragare questa ipotesi vengono anche le voci autorevoli di Prévost e Citton. Il primo afferma infatti che quel “prénom avait dû faire dicton pour le moment”207, e il secondo rilancia che l’abitudine di “appeler son héros Olivier deviendra sous la Restauration une manière transparente de signaler sa déficience”208.
Per concludere, vogliamo portare l’enfasi sul fatto che se nella concreta situazione di vita del visconte Octave de Malivert, come pure nel suo nome e cognome sono incisi a caratteri indelebili i tratti distintivi della decadenza, con altrettanta nettezza nella sua persona sta, a seguito del momento di separazione dal proprio milieu, il germe della rinascita tramite l’iniziazione ad un nuovo percorso. Perché quest’ultima sia possibile è necessario, nondimeno, che l’eroe sia pronto a varcare la soglia di un nuovo mondo. A renderlo tale, in armonia con quanto avviene in tutti i monomiti, ci pensa “l’aiuto, la guida che personifica il suo destino”209
, ovvero il mentore, la cui figura sarà al centro del prossimo paragrafo.