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La presenza di un mentore

Nel documento Epifanie del mito in "Armance" di Stendhal (pagine 179-187)

Epifanie e costanti mitiche in Armance

3.2. L’eroe e il Mondo ovvero il mimetico-basso

3.2.3 La presenza di un mentore

Nel 1827, Armance, primo tentativo romanzesco di Stendhal, dà avvio alla grande tradizione del romanzo ottocentesco. A fronte del naufragio delle illusioni malivertiane sull’amore, sulla felicità, sull’amicizia e sul successo e forse allo scopo di rendere

207 Prévost, op. cit., p. 226. 208 Citton, op. cit., p. 85. 209 Campbell, op. cit., p. 94.

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ancora più tragica la parabola eroica, l’autore non affianca nessuna guida al protagonista della sua storia: il povero visconte Octave, incapace del cinismo necessario ad affrontare il mondo dell’industria, del commercio e della speculazione si ritrova apparentemente solo con se stesso. Il cammino verso la conquista identitaria finisce per enfatizzare così la statura del personaggio. Che Malivert non goda dell’ausilio di un mentore e che ciò costituisca un’anomalia nel sistema romanzesco d’impronta mitica è fatto noto a tutto il panorama della critica che su Armance si è spesa:

Tout héros est accompagné au départ d’un guide ou d’un mentor [...] Octave souffre de l’absence d’un maître.210

Ma siamo proprio sicuri che Octave de Malivert non abbia veramente nessun mentore a suo fianco a istruirlo e a consigliarlo lungo il suo viaggio esistenziale? Al fine di poter rispondere a questo quesito a nostro avviso è opportuno capire bene cosa sia un “mentore”. Chiarirlo sarà infatti utile per verificare se il romanzo di Stendhal realmente non rispetti il mitologema. Finora gli aspetti del racconto che abbiamo messo in valore costuitiscono delle prove dell’aderenza di Armance alle costanti universali che agiscono nelle narrazioni mitologiche; l’assenza del mentore sarebbe conseguentemente il primo punto di scollamento dalla tradizione canonizzata dalla classicità.

Alla radice del termine “mentore” sta il verbo “mentor” che in greco antico significa “consigliare”; il “mentore”, pertanto, si legge nel Trésor de la Langue

française informatisé, è una “Personne servant de conseiller sage et expérimenté à

quelqu’un”211

. Inoltre, sappiamo dalla stessa fonte che il termine è un “P. allus. à un personnage de l'Odyssée d’Homère”212, cioè un nome proprio che si riferisce ad un personaggio che compare nel poema omerico, e che Fénelon rese celebre nel 1699 con le Aventures de Télémaque”213 con il significato di cui abbiamo già dato conto.

La consultazione del dizionario ci dà, riassumendo, due informazioni essenziali: la prima è che la prima attestazione del personaggio di Mentore risale a 5000 anni fa, quando si colloca la stesura dell’Odissea; la seconda è che la sua canonizzazione arriva con il romanzo barocco di Fénelon.

210 Hamm, op. cit., p. 168. 211

La definizione citata è reperibile s.v. “mentor” del Trésor de la Langue française informatisé, http://atilf.atilf.fr/dendien/scripts/tlfiv5/advanced.exe?8;s=2673888180.

212 Ibidem. 213 Ibidem.

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Rievochiamo la maniera in cui il personaggio viene presentato per la prima volta nella letteratura da Omero e il contesto della sua genesi. Immaginiamo, quindi, un ragazzo solitario che sta diventando uomo, incaricato, dal padre partito per combattere una guerra, lontano, di prendersi cura della madre. Bramando di avere notizie del genitore, il ragazzo, dopo molti anni, parte per mettersi sulle sue tracce prima a Pilo da Nestore e dopo a Sparta da Menelao. Un estraneo, con profondi e penetranti occhi che sembrano finestre sull’infinito, gli offre il suo aiuto. Come in una trance, il giovane si fa allora guidare da quella persona e si mette totalmente nelle sue mani.

Il tempo che stiamo immaginando è 5000 anni fa e il ragazzo Telemaco; suo padre è Odisseo, il re di Itaca, il quale lasciò la sua casa per raggiungere i greci, nella campagna contro Troia, mentre l’estraneo che si fa protettore del figliolo è il compagno e carissimo amico paterno Mentore, figlio di Alcimo, dietro le cui spoglie si cela la dea Pallade Atena, dai latini identificata con Minerva.

Questo è il primissimo riferimento al “mentore”, inteso, per via antonomastica, tanto come personaggio quanto come concetto. Mentore è più che un semplice insegnante per il figlio di Ulisse, un amico fraterno, un saggio consigliere e un attento protettore. Da questa sua polivalenza è dipesa la rilevanza che ha acquisito nelle successive attestazioni letterarie, affermandosi anche nel ruolo di faro per protagonisti più maturi, con le funzioni di mago, curatore, sapiente e talvolta persino sacerdote. Sua missione in molti racconti è quella di dotare l’eroe dello strumento, del mezzo “magico” che gli consenta di superare i propri limiti e di sormontare gli ostacoli più ardui; ciò avviene ad esempio nell’Eneide, nella quale l’eroe riceve dal suo mentore, Vulcano, le armi con cui sbaragliare, nella battaglia finale, Turno, il re dei Rutuli214.

Ciò chiarisce anche come mai sovente il mentore abbia nella tradizione letteraria la qualità della saggezza e, soprattutto nei miti dell’Antichità classica, venga dipinto come un personaggio di età avanzata (si pensi al figlio di Alcimo che ha la stessa età di Ulisse e che quindi non è più un aitante giovincello). Anche in età moderna le sue reinterpretazioni letterarie non di rado vanno in questa direzione, presentandocelo come un genitore, un nonno o un uomo di chiesa; è questo ad esempio il caso de La

Chartreuse de Parme stessa di Stendhal in cui l’abate Blanès è astrologo e maestro di

Fabrice del Dongo durante la sua prima giovinezza al castello di Grianta, e de Le Rouge

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et le noir in cui il vecchio curato Chélan segue negli studi l’adolescente Julien Sorel

assecondando le sue inclinazioni naturali per la teologia e le lettere latine.

Come abbiamo anticipato è stato Fénelon a riproporre per primo in ambito francese il personaggio omerico e a renderlo, per antonomasia, l’incarnazione del fidato consigliere con Les Aventures de Télémaque (1694); egli intese dare al giovane duca di Borgogna, di cui era a quel tempo precettore, delle dilettevoli lezioni di etica e di politica. Il romanzo epico, raccogliendo l’eredità dell’Odissea, narra le peripezie del figlio di Odisseo, Telemaco, che, spinto dall’amore filiale e patrio, si espone ai pericoli di un lungo viaggio per ritrovare il padre Ulisse, di cui da anni si sono perse le tracce. A accompagnare il giovane principe nella rischiosa e incerta avventura è Mentore, il quale, come vuole il poema di Omero, non era altri che la dea Atena, che rende tutti gli imprevisti e le difficoltà incontrati lungo il cammino fonti di riflessione e istruzione per il ragazzo.

Scopo di Mentore, nel romanzo, è infatti che il figlio di Odisseo alla fine del viaggio abbia acquisito il dono della saggezza. Anziché servirsi dei propri poteri di dea per conferirgli il senno senza sforzi, Atena preferisce inoculare nel giovane la sete di questa virtù sottoponendolo a dure realtà e a situazioni difficili, di modo che la sua conquista sia il frutto di un desiderio ed anche una ricompensa meritata per il cammino fatto moralmente; un cammino che passa dal riconoscimento dei propri errori e dal sincero pentimento.

Il romanzo barocco di Fénelon ha avuto un successo tale da fissare in uno stereotipo le caratteristiche peculiari del personaggio-guida di Telemaco, Mentore, che da quel momento, ha visto il suo nome proprio entrare nell’uso come antonomasia di “guida”, nella lingua francese e non solo. Effettivamente, se si stila un elenco delle principali definizioni del termine “mentore”, risulterà che tra esse regnano delle inconfondibili somiglianze e che le caratteristiche peculiari di base della figura che tornano con costanza sono quelle messe a fuoco da Fénelon nel suo romanzo.

Riportiamo le più autorevoli, tratte da riflessioni del mondo anglosassone che più di ogni altro si è dedicato alla questione, per darne un’idea, nella tabella consultabile in appendice a questo lavoro215. In sintesi, ad ogni modo, ne evinciamo che i punti

215 Si rimanda pertanto all’Appendice II. La tabella è stata mutuata dall’articolo “Mentoring the Gifted: A

Conceptual analysis” di Robert Grassinger, Marion Porath e Albert Ziegler e apparso in High Ability

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definitori comuni al modello mitico e dunque i requisiti imprescindibili sono essenzialmente la natura duale, personale e gerarchica della relazione tra mentore e suo assistito e il fatto che quest’ultima sia sempre orientata all’accrescimento culturale, emotivo ed esistenziale del protetto, sotto l’ininterrotta supervisione del protettore.

Adesso che abbiamo illustrato come il mitologema del mentore è nato e in che maniera e sotto che forma la sua funzione si è imposta, non ci resta che esplicitare la valenza universale in esso insita per passare ad appurare se nell’impianto dato da Stendhal alla sua opera tale costante sia contemplata.

Sull’onnipresenza del mentore nelle principali e 216

traduzioni culturali si è interrogato uno dei padri della psicanalisi, Carl Gustav Jung. Egli ha suggerito che la capillarità di questa figura ha radici psicologiche, perché risponderebbe all’esigenza squisitamente umana di essere rassicurati riguardo alla sopravvivenza degli insegnamenti pratici, culturali e sociali della propria civiltà. Lo studioso ha intravisto nel mentore la rielaborazione di un archetipo fondamentale della psiche, quello del Vecchio Saggio, mallevadore della trasmissione della paideia da una generazione all’altra e che in molteplici culture è trasmutato nella figura del mago, fornitore dell’oggetto sacro o fatato all’eroe che si ritrova anche nelle fiabe.

Siccome questo individuo modellare è la risposta alla domanda inconscia di conservazione condivisa dall’intera umanità, laddove questi non sia riconoscibile dai suoi membri in nessun individuo del proprio ambito di vita, conclude Jung, il singolo risolve di trovare il suo spirito guida in se stesso. Viene dunque in questo frangente attuata dal soggetto un’introiezione della figura mentorica. Un ripiegamento in sé permette al soggetto di udire quella voce dell’assennatezza, quei suggerimenti che solo un mentore sa dare; il super-Io si fa carico di dettare l’etica e di censurare le pulsioni dell’Es considerate sconvenienti.

E questo è esattamente quello che fa lo stendhaliano Octave de Malivert, il cui super-Io si fa metronomo dell’etica trascendente del dovere: uomo diabolico e angelico, nel suo isolamento al disopra del resto degli uomini, è più portato a sanzionare che ad agire; da eroe romantico, egli “ne connaît jamais qu’une alternative : être Dieu ou

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s’appliquer à le devenir”217

e arriva a farsi mentore di sé, al fine di non immischiarsi con le meschinità umane.

Octave, in primo luogo si edifica da solo culturalmente: “il lisait Helvétius, Bentham, Bayle et autres mauvais livres” (A, 109). Sempre da solo si forgia un proprio codice di condotta, quello della dedizione totale al dovere e agli autentici principi di nobiltà. Per giunta assume anche le vesti del mago: ne fornisce esempio un giocoso mascheramento nel bosco di Andilly con cui intrattiene Mme D’Aumale (capitolo XI), che per il suggestivo scenario che lo accompagna ricorda fortissimamente la figura del mago Merlino della “matière de Bretagne”. Sempre alle arti magiche Octave viene esplicitamente accostato, in qualità di loro depositario, da sua madre, la quale azzarda l’ipotesi: “tu finiras comme le Faust de Goethe” (A, 94). Peraltro, la predizione viene riecheggiata con ancora più potenza esattamente al centro del libro a sottolinearne l’importanza: il capitolo XV infatti si apre con la citazione dal Doctor Faustus di Marlowe.

Ciò testimonia ancora una volta che, scrivendo Armance, Stendhal non contravviene al canone mitologico della presenza di un mentore; la nuova veste che il mentore assume ora è quella di un Ideale di sé, spesso coincidente con un super-Io censorio. Nel brano che segue vediamo Octave imporsi la partenza per le Americhe – “Je vais partir, je dois partir” – di modo da scongiurare un avvicinamento emotivo ulteriore alla cugina:

Octave prit sa [d’Armance] main avec assez de brusquerie, la plaça sous son bras et marcha vers le Château. Mais il sentait que les forces lui manquaient aussi ; prêt à tomber lui-même, il eut cependant le courage de lui dire : « Je vais partir, je dois partir pour un long voyage en Amérique » (A, 175).

Non possiamo non sottacere inoltre che come nella relazione esistente tra Telemaco e il suo aio anche in quella che Octave intrattiene con se stesso c’è una componente costruttiva. Il rapporto tra il figlio di Ulisse e il mentore getta infatti un ponte tra due esseri opposti; da un lato, in quanto esponenti di due diverse generazioni, secondo l’asse oppositivo senex e puer, e, dall’altro, in quanto partecipanti l’uno della dimensione divina e l’altro della dimensione terrena. Lo stesso tipo di meccanismo speciale è quello che Octave de Malivert ha con il proprio mentore, se stesso.

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Da una parte invero egli è un ragazzo giovanissimo – ci viene più volte ripetuto che egli ha appena vent’anni – dall’altra parte, per via degli ideali in cui crede, egli incarna il passato. Per di più, da un canto, egli è connotato da un’essenza ultramondana e dall’altro dalla sua disarmante secolarità: ora creatura eletta ora maledetta, alle volte le due cose allo stesso tempo, il protagonista di Armance compie solitario il suo viaggio di formazione218.

Se si può maturare sotto la costante egida di se stesso, è in virtù dello sdoppiamento intersoggettivo che esperisce. Egli infatti intrattiene con il sé un rapporto di dualità (abbiamo avuto modo di darne ampia dimostrazione nel capitolo precedente), di privilegiata intimità (il che soddisfa la prima condizione perché si possa parlare di mentorato), e di sottomissione alla Legge del Padre, rappresentata dal suo Io ideale.

Che Octave abbia il ruolo autoreferenziale di mentore ce lo suggerisce anche l’eziologia della sua figura nella finzione narrativa. Sappiamo infatti che Stendhal voleva inizialmente dare al protagonista del suo romanzo il nome di Olivier, pagando tributo ai libri che gli avevano dato il primo spunto scrittorio e che optò per il meno allusivo “Octave” solo in un secondo tempo. “Olivier”, di cui il prenome “Octave” è quasi forma anagrammatica, ha, come abbiamo visto, il significato di “possessore di ulivi”. L’olivo porta con sé un’ulteriore connotazione: quella dell’arbusto sempreverde legato alla dea Pallade Atena, la quale, ci narra la mitologia, ne introdusse per prima la coltura tra gli uomini219. È risaputo che ad Atena, nascente dalla fronte di Zeus220, i

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Abbiamo visto come i suoi antagonisti siano suoi riflessi proiettivi, conseguentemente, pur recitando il ruolo degli oppositori, essi non possono essere investiti da quello di Nemico, rivestito invece dal milieu

ultra di cui l’eroe fa parte, come fa notare Norbert Sclippa: “le sens de l’oeuvre toute entièr reste

d’ailleurs, comme nous le verrons, politique”, Texte et ideologie. Images de la noblesse et de la

bourgeoisie dans les romans français, des années 1750 à 1830., New York, Peter Lang, 1987, p. 189.

219

Cfr. la voce “Minerva” in www.treccani.it. Ella, infatti, aveva chiesto al padre che le fosse consacrata una regione della terra che la potesse onorare, cosa che aveva chiesto da diverso tempo anche Poseidone e fu così che tra le due divinità si accese una violenta disputa per avere il dominio dell’Attica, la porzione di terra che Zeus aveva messo a disposizione per il culto di uno dei due dèi. Per sedare la contesa, il padre degli dei stabilì che avrebbe avuto il dominio dell’area geografica la divinità che avesse fatto alla sua città principale il dono più utile e mise a giudice della gara Cecrope. Quando la sfida ebbe inizio, alla presenza di tutto l’Olimpo, il dio del mare toccò con il suo tridente il suolo, e fece saltare fuori una nuova creatura che mai si era vista prima, il cavallo, che da quel momento popolò tutto il pianeta fornendo un validissimo aiuto all’uomo per tutte le sue attività. Atena, dal canto suo, percosse la terra con il suo magico giavellotto e in conseguenza di ciò spuntò un albero di ulivo. Cecrope decise che fosse la dea la vincitrice e da quel giorno l’Attica fu la sua regione, mentre la sua capitale prese in suo onore il nome di Atene, che conserva tutt’oggi.

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Tutto ebbe inizio quando a Zeus, che in quel periodo sposò Metis, venne predetto da Gea e da Urano che un giorno sua moglie avrebbe partorito due figli, il secondo dei quali lo avrebbe detronizzato. Spaventato da quella profezia, il padre degli dèi, dato che Metis era incinta del loro primo figlio, risolse di non correre rischi, ingoiandola. Il tempo per Zeus riprese a scorrere sereno e la predizione venne

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mitografi danno, per questa ragione, il significato di dea della saggezza. La dea rappresenta il trionfo della cultura sulla natura e il controllo della ragione sugli istinti umani; ella personifica inoltre l’alba, nonché il lampo che disperde le nuvole e riporta il sereno, motivo questo per cui le viene spesso attribuito l’epiteto di “glaucopis”, che vuol dire “dagli occhi scintillanti”. Similmente ad Atena Octave, che ha occhi espressivi, si distingue per la sua fame di sapere:

ses yeux jetaient une douce flamme (A, 123).

Le marquis [M. de Malivert] voyait avec une sorte d’horreur un jeune gentilhomme [Octave] se passionner pour les livres (A, 93).

Se la dea Atena era la paladina della ragione, delle arti, della letteratura e soprattutto della scienza, Octave, dal canto suo, è un fervente appassionato di letteratura e di scienza.

Cher Octave, c’est la violence de tes passions qui m’alarme [...] Tu lis des livres impies, et bientôt tu en viendras à douter même de l’existence de Dieu […] Te souviens-tu de ta passion pour la chimie ? (A, 94)

Infine ad appaiarli sta il fatto che così come la dea guerriera è, in accordo con la tradizione mitologica, vergine e pertanto avulsa dalla sfera dell’eros, allo stesso modo il visconte di Malivert non partecipa delle gioie carnali per via della sua impotenza.

Dietro all’onomastica legata all’eroe stendhaliano si cela un altro probabile motivo di giustapposizione con la figura mitica di Pallade Atena e quindi con la sua incarnazione del mentore: lo studioso Uchida e dopo di lui Laforgue rilevano nel cognome di Armance, sosia femminile di Octave, l’anagramma del sostantivo “philosophe”, che è anche il soprannome con il quale il protagonista è bonariamente soprannominato all’interno della storia:

Armance de Zohiloff : son nom, à la coloration slave, est l’anagramme phoniquement parfaite et orthographiquement approximative de “philosophe”.221

“Filosofo” in greco ha la significazione di “amante della conoscenza, del sapere”, e ciò ha una certa rilevanza se messo in parallelo con quanto da noi rievocato all’inizio di

dimenticata. Un giorno, però, iniziò ad essere assalito da fitte violentissime alla testa; non potendole più sopportare, chiese a Efesto di colpirlo con il suo martello sulla fronte. L’altro, dopo un iniziale rifiuto, venne persuaso dalle continue urla e insistenze del dio. Nel momento stesso in cui il suo arnese toccò la testa del padre degli dei, l’Olimpo tremò, i lampi sconquassarono il cielo e dal suo cranio uscì una densa nuvola nera, nella quale si trovava una creatura, vestita di una lucente armatura, che impugnava nella sua mano destra un giavellotto: era nata Atena.

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questo paragrafo relativamente alla dea della saggezza greca; cioè, che il suo nome deriva dal sanscrito e che significa “conoscere” appunto, mentre il sostantivo “mentore” ha insita nella radice “men” l’idea del pensare, come ci spiega bene Roberts nel suo saggio sulla figura di Mentore nell’Odissea di Omero:

Men is “one who thinks”, “tor” is the masculine suffix, “trix” the feminine. Therefore, he gives mentor meaning a man who thinks, and Mentrix, a woman who thinks.222

Nel documento Epifanie del mito in "Armance" di Stendhal (pagine 179-187)