Epifanie e costanti mitiche in Armance
3.1.1. Il meraviglioso e la trascendenza
rattandosi di un personaggio che si va a inserire in un contesto storico, sociale e geografico preesistente e precostituito, la figura di Octave de Malivert si delinea secondo i canoni tradizionali della figura romanzesca rivisitati nondimeno, in chiave storica. Stendhal tratteggia cioè il suo visconte in modo che sia l’esponente più rappresentativo di un milieu (l’aristocrazia) e di uno stato d’animo (il disagio per l’impotenza sessuale e il male del secolo) riproponendo così sotto una nuova veste l’antica funzione.
Per giunta, fa del giovane rampollo allo stesso tempo la prova vivente del decadimento di una società e l’iniziatore di una nuova temperie culturale. Bisogna poi considerare, dell’ideazione dell’eroe mitologico, un altro aspetto cruciale: la relazione che andava a stabilirsi fra questa figura e il divino.
In una nascita che esula dall’ordinario troviamo la prima invariante, concernente la figura dell’eroe, che trasforma un personaggio in figura mitica. Secondo il codice
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mitico tradizionale il personaggio di primo piano è connotato da una funzione che può avere tre declinazioni: “quella di eroe culturale o civilizzatore (che fonda istituzioni civili o economiche), quella di eroe antenato (che fonda una stirpe, un popolo ecc.), quella di eponimo (che dà un nome a realtà geografiche)”114.
Spesso e volentieri, come è noto, gli eroi godevano della condizione di semidei, in quanto figli di un dio e di una mortale o perché frutto dell’unione di una dea e di un uomo. Se questo non era il caso, allora avveniva che il comune mortale ascendesse all’Olimpo per merito delle proprie gesta. Ciò pone l’eroe in una relazione di superiorità rispetto agli altri uomini, rientrando in quella categoria che Frye definisce il “mimetico- alto”:
Se superiore come tipo sia agli altri uomini che al loro ambiente l’eroe è un essere divino e la sua storia sarà un mito nella normale accezione di storia di un dio.115
Poiché prerogativa irrinunciabile per il romanziere di Grenoble era la verosimiglianza del racconto, era da escludersi che il suo personaggio si distinguesse per delle circostanze natali straordinarie o per delle gesta che andassero contro le forze della natura. Tenendo salda la mitizzazione del personaggio, ma nel rispetto del criterio della credibilità, Stendhal perseguì lo scopo di rivestire il suo eroe, Octave de Malivert, personaggio storicamente determinato, di un’aura. Merita, quindi riflettere sulla soluzione scelta per conferire al personaggio un carattere mitico. Il meraviglioso, il visconte veniva ad esibirlo sotto forma di status sociale che, in virtù della sua felice nascita in una famiglia antichissima, poteva vantare:
Je puis offrir un beau nom, une généalogie certaine depuis la croisade de Louis le Jeune, et je ne connais à Paris treize familles qui puissent marcher la tête levée à cet égard (A, 91).
Si notino l’enfatizzazione dell’aggettivo “certaine”, iperboli quali “treize familles”, il complemento circostanziale “à Paris”, che indica l’ambito di azione privilegiato, e il precisissimo complemento di tempo “depuis la croisade de Louis le Jeune” al fine di rimarcare il valore eccezionale che è proprio del suo cognome e del lignaggio che esso denota.
114 Cfr. Georges Dumézil, “La Préhistoire des flamines majeurs”, in Revue de l’Histoire des religions,
Paris, CXVIII, 1938, pp. 188-200.
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Un’altra pregnante esemplificazione dell’aura speciale che avvolge Octave la si riscontra nelle descrizioni che il narratore riserva al suo fisico e al suo temperamento. Nell’effigiarne il ritratto, l’accento di Stendhal cade sulle distinte qualità estetiche, mentre nel coglierne gli atteggiamenti più tipici, sovente l’autore si trova a ricondurlo ad un paradigma angelicato:
la hauteur de son caractère […] ses idées qui grandissaient à mesure qu’on les regarde […] sa simplicité pleine de noblesse (A, 100).
L’aura che circonda Malivert si estende, per contiguità metonimica, anche ai personaggi che con lui sono a più stretto contatto. Ad esempio la madre, parlando di lui e di sua nipote, Mlle de Zohiloff, non esita un attimo a paragonarli a “deux anges exilés parmi les hommes” (A, 117), i quali hanno difficoltà a relazionarsi con le “âmes vulgaires” (ibidem) che gravitano nei salotti.
Nel processo di mitizzazione la specialità di cui gode l’eroe deve essere abbinata ad una sua superiorità; trascendenza, rispetto ai suoi simili e alla natura stessa. Conformemente a questo precetto Stendhal innalza il protagonista maschile al rango dei cherubini.
L’eccezionalità biologica garantita al visconte dalla nascita, perciò, è elevata a superiorità eroica, come si evince dagli epiteti che lo connotano: “quelque chose de surhumain” (A, 95) alberga in Octave; agli occhi di Mme de Malivert, “il ne lui manquait qu’une âme commune” (A, 107), come da notazione narratoriale; o, ancora, la famigerata interrogativa cui si lascia andare il comandante di Soubirane: “Que diable es- tu?” (A, 90) la cui fortunatissima pregnanza risiede nel fatto che il pronome interrogativo non è il personale “qui”, il cui referente è un’entità umana, bensì il neutro “que”, utilizzato per designare un oggetto inanimato; per finire, come non contare nel novero delle espressioni indicanti sovrumanità la tranchante definizione di “monstre” (A, 231) che Malivert dà di se stesso, parlando con sua cugina Armance?
3.1.2. Il voto
L’incombenza di un voto sul destino dell’eroe e l’esperienza della catabasi sono altre due costituenti essenziali del codice narrativo del mito. La prima tradizionalmente coincide con una promessa di rinuncia all’amore che l’eroe o l’eroina decidono in totale
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libertà di formulare, percependo nel sentimento una minaccia. Si tratta, del resto, di un
topos letterario che conosce una grande fortuna in
epoca romantica; si pensi, ad esempio, ad Atala di Chateaubriand. Stendhal recupera questa topica per avvolgere di un alone mitico la propria storia ironizzando sull’engouement per il lirismo che provano i lettori del suo tempo, visto che il motivo che porta il suo eroe, Octave, a pronunciare un voto solenne è la sua impotenza sessuale. Una causa materiale e bassa, ben diversa, quindi, da quella che fa promettere alla madre di Atala la castità della figlia.
Nelle storie mitologiche “le décor de l’amour est […] l’intimité qui creuse jusqu’au mystère sacré”116
. Essere ad esso iniziati, quindi, può aprire, certo, le porte alla trascendenza ma anche a uno sconvolgimento emotivo irreversibile. Spaventati da questa eventualità i protagonisti scelgono la via dell’abnegazione.
Nell’Antichità classica il motivo della rinuncia amorosa ha avuto il suo sviluppo nella tematica dell’accecamento, le cui più emblematiche rappresentazioni si rinvengono nella storia di Edipo e nella storia di Amore e Psiche. L’esodo della tragedia di Sofocle precisa, difatti, come Edipo, una volta appresa la notizia del suicidio per impiccagione di Giocasta e scoperta la verità sulle sue origini117, per mettere fine a quella situazione scellerata si acceca con una fibbia della cintura della consorte, ritenendo che privarsi della vista, la cosa più dolce che gli è rimasta, sia la giusta punizione per i suoi nefandi crimini.
Quanto all’altro mito, nella versione tramandataci da Apuleio nelle Metamorfosi viene detto che Psiche può amare il dio a patto che faccia rinuncia totale a vederlo. La curiosità accesa dal tabù tuttavia finisce per indurla a trasgredirlo e ad essere per questo punita solennemente.
La dinamica della rottura del voto e della esemplare punizione, si mette in moto in Armance, come vedremo meglio più avanti in uno specifico paragrafo. Riguardo al
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Durand, op. cit., p. 200.
117 Cioè di essere il figlio, non dei sovrani di Corinto, ma di Laio, re di Tebe, che uccide in un alterco
lungo il viaggio che lo porterà a Tebe e di avere sposato Giocasta, vedova di Laio, nonché sua madre, e madre incestuosa delle loro figlie.
22 Anne-Louis Girodet de Roussy-Trioson (1767- 1824), “Funérailles d’Atala. Atala au tombeau” (1808), olio su tela, cm 207 x 267, Musée du Louvre, Parigi.
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topos della cecità, analizzando l’opera stendhaliana ne constatiamo la riproposizione
nella variante mitica dell’oggetto d’amore negato alla vista, tipica ad esempio della vicenda di Orfeo e Euridice: il mito, nello specifico, viene riproposto tel quel ne La
Chartreuse de Parme, dove Clélia Conti giura alla Madonna di non vedere più Fabrice
del Dongo.
Al sacrosanto giuramento di non lasciarsi irretire dal vortice della passione che al capitolo VI emana esplicitamente dalla bocca del visconte di Malivert, fa da contraltare il più completo abbacinamento di fronte alla donna amata; ecco l’eroe, dunque, profondersi in determinazioni rinunciatarie del tipo “C’est pour la dernière fois de ma vie que je la vois” (A, 178) oppure “il ne faut jamais la revoir” (A, 183).
Vedendo l’amore come una debolezza e come una deviazione dall’iter cavalleresco al quale tutta la sua esistenza si ispira (“tu es le devoir incarné”, dice lo zio al nipote, A, 90) l’eroe stendhaliano si ostina a non riconoscere i segni del suo innamoramento, diversamente da coloro che per diporto lo ostentano.
La perseveranza dell’“accecato” proseguirebbe per tutta la fabula armanciana se il personaggio di Mme d’Aumale non si decidesse a mettere il “cieco” visconte di fronte alla verità delle cose:
Ils [Octave et Armance] se rapprochèrent des autres promeneurs. Octave marchait un peu en avant. À peine Mme d’Aumale le revit-elle, qu’elle lui dit d’un petit air boudeur et sans qu’Armance pût l’entendre : « Je suis étonnée de vous revoir sitôt, comment avez-vous pu quitter Armance pour moi ? Vous êtes amoureux de cette belle cousine, ne vous défendez pas, je m’y connais. » (A, 168)
3.1.3. La catabasi
Il bagno di realtà cui la frase costringe il giovanotto fa venire in superficie il sentimento obliterato con la violenza della folgore (“Le mot de Mme d’Aumale fut un coup de foudre pour lui”, A, 168). La felicità procurata dalla consapevolezza di essere innamorato si rivela, nondimeno, fugace: a Octave, ora “héros converti à l’amour”118
, si impone infatti lo scotto da pagare per avere tradito il giuramento.
In breve, le porte che dell’Eden amoroso si erano dischiuse si sprangano subito, lasciando Octave in balia del fuoco della passione che lo consuma e che gli sarà fatale, data la sua impotenza sessuale. Per Malivert si profila quindi una vita d’inferno; siamo
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alla catabasi della figura eroica. Il protagonista d’altronde esibisce, a fianco alla sua immagine angelica, una connotazione infernale che è in linea con la sua natura di essere doppio: Octave insomma, come abbiamo visto, è un po’ angelo, un po’ diavolo.
Avendo già detto del primo versante, è giunto il tempo di esaminare il secondo. A percepirlo sono in primo luogo le persone che fanno parte del suo entourage, poiché per descriverlo usano parole difficilmente equivocabili, ad esempio: “Si tu n’es pas le Messie attendu par les Hébreux, tu es Lucifer en personne” (A, 90).
Al di là di queste battute che correlano verbalmente al regno dei dannati e al suo sovrano (“Lucifer”) l’eroe stendhaliano, alcuni dettagli ne precisano il profilo diabolico. Il primo elemento fisico che riferisce di uno spostamento del visconte verso il mefistofelico coincide con la sua impotenza.
Sappiamo infatti dalle Sacre Scritture che gli angeli e gli angeli caduti sono asessuati. Nell’infertilità sfocia parimenti la disfunzione sessuale dell’impotenza, sia essa coeundi o generandi.
Il secondo aspetto, non meno rilevante, che volge il sessuofobico protagonista verso un referente satanico è condensato nell’episodio del suo svenimento alla vista del pendente che orna il décolleté dell’amata cugina:
Il reconnut cette petite croix de diamants qu’Armance avait reçue de Russie […] Elle était cachée ordinairement, elle parut par le mouvement qu’[elle] fit […] Octave eut un moment d’égarement (A, 205).
In questa forte sollecitazione visiva che la croce di diamanti crea, la caduta in deliquio del nobiluomo mostra un profondo disagio psicopatologico le cui radici più profonde stanno nella tara fisica che egli si porta addosso. Il venir meno dinnanzi a quel particolare e prezioso ciondolo può essere letto quindi in più modi.
In primo luogo, può essere interpretato come un segnale della partecipazione di Octave alla dimensione satanica, visto che durante i riti del Sabba il demonio, dopo aver ricevuto dalle streghe l’osculum infame, le invita a parodiare la messa, a bestemmiare e soprattutto a calpestare croci, icone del martirio e del sacrificio di Cristo; in secondo luogo può essere, però, letto anche freudianamente come una testimonianza dello scompenso che l’io vive a causa della repressione censoria che il super-Io esercita sulla
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libido119; Octave pertanto, una volta di più, darebbe testimonianza della sua sofferenza di fronte a un simbolo fallico; in ultimo luogo, vi si può scorgere un segno della partecipazione di Malivert della dimensione divina (e quindi una sottolineatura della sua travalicazione al mimetico-alto; fra l’altro usata in connessione alle vele anche nella massoneria con connotazione di trascendenza) in quanto, oltre ad essere universalmente riconosciuta come il principale simbolo della cristianità, la croce è ab origine un simbolo pagano che allude allo scorrere delle stagioni e delle ere sulla Terra, tanto è vero che le prime riproduzioni di croci che l’archeologia attesta risalgono all’epoca mesopotamica e in special modo alla civiltà sumera che le impiegava per rappresentare il dio della vegetazione e della Natura Tammuz o Damuzi cui, vedremo nell’ultimo capitolo di questo lavoro, il protagonista del romanzo è assai prossimo. Il visconte, secondo questa lettura, sverrebbe perché sopraffatto dalle emozioni suscitategli dal confronto con una rappresentazione di sé tangibile, come Narciso che non riesce a resistere al riflesso della propria figura nell’acqua della fonte in cui si specchia.
Alla luce di questi elementi la nostra tesi è che non esiste un’interpretazione più giusta delle altre; tutte sono da ritenersi a nostro avviso valide, per cui crediamo che Octave de Malivert soffra di un delirio narcisistico, aggravato da un complesso edipico e da un complesso adelfico irrisolti, e che, in egual misura, partecipi di un lato angelico e di un lato demoniaco; è quasi come se nella sua persona albergassero quell’angelo custode e quel diavolo personale che la teologia medievale riteneva stessero sulle spalle destra e sinistra di ogni individuo120. Quasi a non smentire la marca ontologica della singolarità e della dualità allo stesso tempo.
Estrema nel bene e nel male, la famigerata domanda di Soubirane, “Que diable es-tu ?”, è, se ne conclude, la perfetta condensazione dell’ontologia malivertiana. La proposizione interrogativa fa battere l’accento sulla dubbia natura del giovane aristocratico, costruendosi sintatticamente sulla crasi tra una domanda vera e propria alla forme soutenue, vale a dire “Qui es-tu ?”, e un’esclamazione propria del registro basso: “Que diable !”.
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Cfr. Bellamin-Nöel, op. cit., p. 82. In particolare si consideri il lucidissimo punto : “Cette croix révèle et interdit avec la dureté et l’éclat d’une pierre impossible à entamer. En douterions-nous que l’épigraphe du chapitre a prononcé le mot « sein »”
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L’anomalia grammaticale che ne discende rivela allusioni subliminali; con l’insistenza del modo esclamativo, peraltro leggermente colorito, è come se si rimarcasse che Octave de Malivert trascende l’umano, sia perché impotente, sia perché partecipe di una dimensione iperurania. Il diabolico che coesiste con l’angelico, giustappunto. Quest’ultimo versante, fra l’altro, è non meno importante e non meno voluto da Stendhal, dacché l’angelo in massoneria, disciplina di cui è seguace, “indica la sorveglianza eterna del Grande Architetto”.121
Questa frase proferita dallo zio del protagonista in una conversazione comune conferisce più solide fondamenta all’impianto teorico che abbiamo in questa sede tentato di edificare. D’altra parte, il lemma latino diabolus rimanda al greco diáballein che significa “separare”, “scindere”; l’essere scisso tra due nature è giustappunto la caratteristica peculiare di Octave de Malivert: doppio, ambiguo, angelo e demone.
Aspetti cabalistico-massonici contrassegnano il prenome e il patronimico dell’eroe. Il nome di battesimo ha per iniziale la lettera “O”, cioè la lettera che occupa esattamente la posizione centrale nell’alfabeto latino, che se visto come un’unità, risulta da essa diviso in due tronconi, a ricordarci della dualità del personaggio. Inoltre, la lettera “O” è mediana, per ordine, rispetto alle consonanti B e M, con le quali iniziano i cognomi delle famiglie Bonnivet e Malivert, cellule dell’universo romanzesco armanciano, nelle quali, significativamente, l’autore fa risuonare, giocando con l’onomastica, i predicativi assiologici “mal” e “bon”, salvo poi evocare nel secondo morfema un’allusione paronomastica: “vet”-“vert”.
In quest’ultima come non notare l’omofonia con la voce del verbo vêtir alla terza persona singolare del presente? Si potrebbe così giungere ad ipotizzare un accostamento dell’avverbio “mal” al morfema “-vert”, retoricamente associabile alla diade paronimica “vet”/“vêt”, ad indicare l’inadattabilità del visconte Octave de Malivert alle consuetudini e ai valori del suo tempo. Egli incarnerebbe, alla stregua di quanto segnalato dal suo patronimico, non tanto il malus habitus, inteso moralmente come il “cattivo costume”, bensì come la condizione accidentale di colui il quale male interpreta (“mal vêt”) i costumi del suo tempo.
Infine, a corollario della disquisizione sull’onomastica precipua dell’eroe, come non vedere nel morfema “vert” un esplicito richiamo alle valenze sataniche del colore
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verde di cui abbiamo dato precedentemente illustrazione e che, certo, a quell’epoca non erano sconosciute?122.
Per completezza, bisogna evidenziare anche che la “O”, iniziale del prenome del giovane rinvia all’omega, cioè all’ultima lettera dell’alfabeto greco, equiparabile per valore alla lettera tau che chiude l’alfabeto ebraico e che è una trasfigurazione della croce. Senza tornare sulla simbologia della croce che abbiamo già illustrato, ci soffermiamo sul fatto che l’omega, come è noto teologicamente sottintende l’idea della fine di tutte le cose:
Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme […] Udii allora una voce potente che usciva dal trono […] “Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine”.123
Ulteriore indizio della connotazione demoniaca del protagonista è la riflessione che Mme de Malivert fa sullo sguardo del figlio: gli occhi di Octave “semblaient quelquefois regarder au ciel et y réfléchir le bonheur qu’ils y voyaient”, ma “Un instant après, on y lisait les tournements de l’enfer” (A, 96). Ove gli occhi sono lo specchio dell’anima, quelli del visconte sono in grado di incutere terrore, come più volte personaggi differenti rimarcano, e di penetrare i misteri infernali, come osservato dalla madre. Senza contare che quegli occhi neri come la pece fanno evidente richiamo ad una precisa tradizione iconografica.
3.1.3.1. L’iconografia del demonio nell’arte
Avendo testé chiamato in causa la tradizione che ha preso corpo attorno al personaggio, ci sembra opportuno sottolineare i punti di contatto tra l’incarnazione del male nella tradizione cattolica e l’eroe stendhaliano. Si voglia dunque scusare la parentesi che si sta per aprire, dacché, nella sua ricchezza di dettagli, essa è rivelatrice e utile alla nostra argomentazione.
L’iconografia del diavolo si è affermata lentamente; fatte salve le scene di esorcismo realizzate per l’illustrazione dei Vangeli di Rabula o il mosaico riproducente l’episodio biblico della Separazione del gregge di S. Apollinare Nuovo a Ravenna
122 Si pensi inoltre all’uso che del cromatismo del verde fa Balzac, coevo di Henri Beyle, nei suoi
romanzi, ove veste i personaggi più negativi, rasentanti il diabolico, di abiti verdi.
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(datato attorno al 520 d.C. circa), Satana può considerarsi assente dal panorama artistico paleo-cristiano.
Perché le apparizioni di quest’ultimo nelle opere d’arte si facciano strada si deve attendere la fine dell’Alto medioevo: sono gli artisti attivi nei secoli IX e X a ritagliare per Satana uno spazio iconografico, senza, per giunta, che caratteri negativi gravino sul personaggio. Portiamo l’attenzione nuovamente sul fatto che il serpente, emblema di Satana per eccellenza, in origine è considerato come l’animale in cui identificare il principio vitale e la fecondità.