Epifanie e costanti mitiche in Armance
3.2. L’eroe e il Mondo ovvero il mimetico-basso
3.3.1 I segni premonitori e i presag
La profezia oracolare è una pratica antichissima nonché una costante fondamentale dei racconti mitologici. Se ne trova traccia presso i popoli primitivi dove il capo tribù, re e sacerdote insieme, fornito di poteri superiori, continuava ad esercitarli anche dopo la morte, cosicché la sua tomba diventava un oracolo. “Oracolo”233
infatti deriva dal latino
oraculum e significa “responso uscito dalla bocca” del dio, ma per traslazione venne
anche a significare il luogo in cui il responso veniva dato. Famosissimi furono per esempio quelli di Delfi, di Dodona, di Cuma, di cui ci narrano i principali miti dell’Antichità classica, in cui la voce divina si esprimeva secondo modalità diverse che sacerdoti e pizie interpretavano per i richiedenti.
Anche in Armance di Stendhal può leggersi disseminata la saggezza dell’oracolo, sotto forma di prolessi, sebbene occorra uno sguardo attento per individuarla tra le righe. Del resto, il motivo della premonizione è molto sentito all’epoca: a confermarcelo c’è, ad esempio, il racconto La Peau de chagrin di Balzac del 1831, in cui l’omonima pelle, fra le mani del protagonista Raphaël de Valentin, da talismano che lo distoglie dall’iniziale progetto suicida, diventa il movente della sua precoce morte autoindotta.
Similmente alla prassi antica di cui ci danno testimonio i maggiori poemi epici e le principali raccolte mitiche del passato, nell’opera stendhaliana la voce vaticinante si manifesta in maniera molteplice. Nell’antichità numerosi erano i mezzi attraverso i quali avveniva la profezia – il chioccolio delle onde emesso dalle fonti sacre, sgorganti dalle viscere della terra, lo stormire delle fronde di alberi sacri (quali le querce del citato oracolo di Dordona), l’osservazione di visceri di animali sacrificati alla divinità e del comportamento delle loro pelli adagiate sul fuoco, l’evocazione delle anime dei defunti e via discorrendo – allo stesso modo in Armance l’anticipazione delle sorti è affidata, come vedremo, a parole proferite da persone che partecipano dell’ultraterreno come Octave, o a cose materiali.
233 Per documentarsi maggiormente in materia di oracoli, suggeriamo la consultazione di Il libro degli
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Il narratore, però, non serve i segnali della previsione divinatoria su un piatto d’argento al lettore. A delle allusioni abbastanza palesi, intreccia delle suggestioni assai meno scontate. Ci proponiamo di rintracciarle e di stilarne un inventario.
Concentriamoci dapprima sui segni premonitori più reconditi che rimandano soltanto in filigrana allo scacco del protagonista. Octave de Malivert, viene più volte precisato nel romanzo, dà pena a sua madre con le sue stranezze al punto da farle sospettare “une affection de poitrine” (A, 91) capace di condurlo alla morte. Per quanto tale malattia non venga confermata affatto dai luminari scomodati da Mme de Malivert, è vero che il ragazzo muore, appena ventenne, per un cedimento del cuore. Infatti l’intruglio tossico che egli si prepara con le proprie mani deriva la propria capacità letale dal fatto di agire direttamente sul cuore una volta entrato in circolo nel sangue. La “malattia di petto” tanto paventata orbene è un vero e proprio presagio.
La voce dell’oracolo si fa sentire poi anche attraverso Armance de Zohiloff. Ella infatti finisce per figurarsi anzitempo quella che sarà la sua fine, allorché, spaventata dai sentimenti amorosi incipienti verso il cugino, si ripete, credendo che sia l’unica soluzione, ossessivamente: “il faut me faire religieuse” (A, 129). Ancora più forte per la portata premonitrice è la frase “j’irai finir mes jours dans un couvent” (ibidem) cosa che realmente si produrrà. Infine, nel novero dei presagi, come non mettere la circostanza dell’annuncio della circassiana al diletto cugino del suo imminente matrimonio con un amico della famiglia di origine? Essa difatti ha per teatro il cimitero parigino del Père Lachaise e, elemento ancora più pregno di significanza, entro il perimetro del camposanto, la tomba di Abelardo, che fa da luogo dell’intima confessione. Per ovvie ragioni questi due siti non possono non essere messi in relazione con il fatto che proprio la celebrazione di un matrimonio – non quello prospettato dalla ragazza, bensì quello tra lei e il suo amato Octave – diventerà la prima cagione della morte del protagonista.
Sorprendono la quantità e la qualità di segni che fissano in anticipo il destino dell’eroe. Anche Hamm attira l’attenzione sulla presenza di indizi circa il fato cui va incontro Malivert; in particolar modo egli si concentra su quelli estrapolabili dai discorsi da lui fatti: “Mélancolique, le héros fournit des signes de son propre destin sinistre”234. Un ulteriore ma meno trasparente annuncio della sua fine funesta arriva al capitolo IX quando, beneficato dalla compagnia “amichevole” della cugina, Octave
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sente di avere meno in odio il suo entourage che stima ora più interessato ad arricchirsi che non a nuocere a lui, cosa di cui era invece convinto quando era in pieno delirio narcisistico e a reggerlo era il suo “fol orgueil” (A, 140):
« Mais, disait-il à Armance, tel qu’il est il est à prendre ou à laisser. Il faut tout finir rapidement et sans délai par quelques gouttes d’acide prussique ou prendre la vie gaiement. »235
Parlando alla cugina, Octave fa capire di avere preso coscienza del fatto che l’entropia intrinseca al suo
milieu di appartenenza è qualcosa da non domare con
la logica, ma da prendere con leggerezza, perché l’alternativa a ciò è la resa definitiva con il suicidio.
Quello che ci interessa, al di là delle conclusioni cui giunge l’eroe, è giustappunto la maniera con la quale secondo lui la persona vinta dalla vita dovrebbe darsi la morte, ovverosia “quelques gouttes d’acide prussique”; in essa, risiede infatti la prolessi, poiché l’acido prussico prefigura il miscuglio letale di oppio e digitale con il quale attuerà la sua uscita di scena dall’esistenza il visconte alla fine del racconto. Inoltre, ancorché sia allo stato naturale incolore, questa sostanza, una volta entrata in circolo, rende il sangue venoso di un colore rosso vivo, come sono i rossi i fiori della digitale e i papaveri da cui si estrae l’oppio.
Altri significativi prodromi dell’infelice sorte del protagonista sono rinvenibili nei suoi monologhi, a causa delle insistite sottolineature del piacere che procura la morte. Citiamo a mo’ di esemplificazione qualche passo:
si je pouvais en finir […] Avec quel plaisir il se serait donné la mort (A, 171). ah ! que la mort eût été agréable dans cet instant ! (A, 172)
quelles délices de recevoir un coup de fusil dans cette tête brûlante ! (A, 174) la mort était pour lui le premier des bonheurs. (A, 188)
il ne me reste qu’à mourir. (A, 237)
In accordo con la tradizione romantica, i passi testé citati sono accomunati dal tema del
cupio dissolvi, visto che ciascuno di essi celebra la morte per le sue virtù salvifiche, in
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quanto dispensatrice di piacere. In questo modo l’eroe palesa ancora una volta il suo
penchant regressivo; lo stesso regressus ad uterum cui deve ascriversi la delectatio morosa procurata dalla carcerazione, tipico tema stendhaliano. La pulsione di morte e il
piacere che ne deriva (ne attestano termini “plaisir”, “agréable”, “délices”, “bonheurs”) trova esaltazione patetica nella modalità enfatica delle forme esclamative o superlative (“le premier des”) e restrittiva che contraddistinguono il quarto e quinto intervento ad alta voce di Malivert. Questi ultimi non ricordano forse da vicino, fungendo da oscuro presagio, gli ultimi pensieri dell’eroe stendhaliano poco prima di morire? Osserviamo:
Il y avait un moment cruel. Mais bientôt l’idée de la mort venait le consoler et rendre le calme à son cœur. (A, 237)
Excepté le genre de sa mort, il s’accorda le bonheur de tout dire à son Armance. (A, 243)
un mélange d’opium et de digitale préparé par lui délivra doucement Octave de cette vie qui avait été pour lui si agitée. (Ibidem)
Le sourire était sur ses lèvres, et sa rare beauté frappa jusqu’aux matelots chargés de l’ensevelir. (Ibidem)
Tutte le frasi succitate, riferite agli ultimi istanti di vita di Octave, sembrano esattamente, nella presa di parola del narratore, la messa in scena delle sensazioni e dei fatti preannunciati. L’oracolo si è dunque avverato. La morte del giovane scaccia via tutte le tristezze (“moment cruel”), lasciandogli in dono la gioia (“bonheur”), cioè lo stato d’animo profeticamente aticipato. I segni palpabili sono la sensazione piacevole con cui egli si accomiata dalla vita – “doucement” fa infatti il paio con il “plaisir” evocato nelle anticipazioni – e l’espressione ridente e la bellezza che caratterizzano il suo corpo esanime, tali da impressionare persino i marinai che erano stati i suoi compagni di navigazione.
A margine di questo richiamo alla tradizione oracolare non possiamo impedirci di mettere in risalto come la maniera con la quale l’eroe va incontro alla morte sia rassomigliante a quella che hanno i grandi eroi della mitologia classica. Il visconte fa avverare magistralmente il topos mitico della “bella morte”. È noto infatti che “la condizione dell’eroe omerico è tragica e paradossale in quanto egli può raggiungere l’immortalità solo rinunciando alla vita eterna.
Unico strumento per affermare la propria soggettività, secondo i Greci, è legarsi agli ideali eterni di bellezza, valore e coraggio, rifiutando la morte naturale che
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aprirebbe la strada ad una mera vita nell’oltretomba, configurata come una dimensione in cui si aggirano ombre senza memoria e senza gloria. Per questo motivo egli cerca ostinatamente la bella morte”236
. Si prenda a modello la figura di Ettore, che è disposto ad andare incontro a morte certa pur di conservare il proprio onore e di non voltare le spalle al suo avversario (“No, non nella schiena d’uno che fugge, pianterai l’asta/ ma dritta in petto, mentre infurio, hai da spingerla”237
) così Octave, una volta preso il partito di liberarsi del fardello della vita, non retrocede dal suo proposito. Variante anti- eroica paradossale iscritta nella Storia è che, il protagonista, sia “sous le charme de l’amour le plus tendre” (A, 243); l’amare è il suo grande nemico, data la sua condizione di impotente.