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Il fallimento nel decreto legislativo: un’assenza che pesa

2.3.1 Alcune soluzioni prospettate da dottrina e giurisprudenza

3.1 Il fallimento nel decreto legislativo: un’assenza che pesa

Come ultima figura non regolata dal legislatore del decreto 231/2001 si analizzerà il fallimento, istituto anch’esso di assoluta centralità nella vita di un’impresa. Il fenomeno è stato e continua ad essere ignorato dal legislatore che non ha provveduto ad offrire delle soluzioni nei casi in cui esso dovesse essere dichiarato in pendenza di procedimento ai sensi del decreto oppure nella fase esecutiva dello stesso.

La convivenza e il rapporto tra il fallimento dell’ente e i dettami del decreto legislativo danno luogo a problemi di natura sanzionatoria e processuale, oggi in parte risolti solo grazie a quello che sembra essere un punto di arrivo raggiunto in sede giurisprudenziale: il fallimento dell’ente imputato ai sensi del 231/2001 non comporta l’estinzione del reato e quindi non costringe il giudice a dichiarare sentenza di non doversi procedere.

A tale conclusione si è arrivati nel corso degli anni, con uno scontro consumato nelle aule dei tribunali tra giurisprudenza di merito e giurisprudenza di legittimità, con la prima orientata verso l’estinzione del reato ex 231/2001 a seguito di fallimento dell’ente.

Si ricorda a tal proposito una sentenza del Tribunale di Palermo secondo la quale il fallimento della società sarebbe un fatto equiparabile alla morte dell’imputato, in virtù della cessazione di ogni attività dell’ente.218

In detta sentenza il tribunale palermitano aveva precisato che in caso di fallimento della società in pendenza di procedimento ai sensi del 231/2001 verrebbe meno l’interesse alla prosecuzione in virtù dell’inefficacia dell’ipotetica sanzione inflitta all’ente insolvente.

Uno dei problemi infatti era proprio questo, ossia la possibile violazione dei principi costituzionali in merito alle sanzioni: se l’ente si estingue a seguito di fallimento, un’eventuale sanzione pecuniaria inflitta tramite sentenza di condanna non ricadrebbe su di esso ma, indirettamente, sul ceto creditorio che si vedrebbe lo Stato come creditore concorrente.219

In realtà questa affermazione non trova molto seguito già sulla base della stessa legge fallimentare e in particolare dell’art 118 sia pre che post riforma del 2006220, il quale ammette che il fallimento possa

chiudersi per soddisfacimento dei creditori o per mancanza di insinuazioni al passivo, con un ritorno della società all’attività senza che si abbia quindi l’estinzione della stessa. La morte della società a seguito del fallimento è quindi una mera eventualità tutta da accertare, non può essere oggetto di previsione giudiziale soprattutto in sede penale.

Il fulcro del problema è proprio questo: l’estinzione dell’illecito a seguito dell’estinzione dell’ente fallito. Su questo le corti si sono

218

Trib. Palermo g.u.p. 2007. Per un commento alla sentenza si veda Riv. Pen. 2008 797, con nota di DI FRESCO, La morte per fallimento della società. Note a margine

di una pronuncia in tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche

219

DI GERONIMO Commento all’art 42, op cit pag 1021

220

schierate e di questo si darà conto nel proseguo della trattazione, con particolare attenzione ad una delle ultime pronunce della Corte di Cassazione, che ha annullato con rinvio una sentenza del g.u.p. di Roma.221

3.2.1. La pronuncia della V Sezione: un importante

punto di svolta

E’ arrivato il momento di affrontare la pronuncia della V Sezione della Corte di Cassazione n. 44824/2012. Essa segna il punto finale di un giudizio di cassazione promosso dalla Procura di Roma contro la sentenza di non luogo a procedere emessa dal g.u.p. della stessa città nel Gennaio dello stesso anno.

Senza entrare nel merito del fatto222

, sono invece importanti le motivazioni che avevano portato il g.u.p. a dichiarare il non luogo a procedere. Tale decisione era stata presa alla luce dell’accostamento del fallimento della società con la morte dell’imputato, disciplinata ai sensi dell’art 150 c.p., che permette quindi al g.u.p. di dichiarare sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art 425 c.p.p., norma utilizzabile grazie al rinvio espressamente previsto alle norme del codice di rito dagli art 34-35 del decreto legislativo.

Il g.u.p. ha quindi valutato come fortemente improbabile un ritorno in

bonis della società fallita, ed ha fondato l’accostamento tra fallimento e

morte dell’imputato sulla base dell’estinzione dell’ente.

Da queste considerazioni, il g.u.p. conclude per una inutilità di un’eventuale sanzione pecuniaria eventualmente comminata, che non

221

Lo si anticipa, ci si riferisce alla pronuncia della V Sez C. di Cass. n. 44824/2012

222

Si veda ROSSI, Fallimento, “morte” della società ed estinzione della

avrebbe colpito l’ente, ormai prossimo a morire, quanto i suoi creditori già insediatesi nella procedura concorsuale. La sanzione quindi non avrebbe potuto esplicare la sua funzione rieducativa ma sarebbe stata indirettamente scontata da un soggetto diverso, ossia i creditori dell’ente che vedono nello Stato un creditore concorrente che viene a togliere liquidità all’attivo residuo, con violazione indiretta dell’art 27 della Costituzione.

Il g.u.p. osserva inoltre come il capo II del decreto non dedica alcuna norma in tema di fallimento: a suo dire questa assenza in un capo del decreto che, tendenzialmente, disciplina la prosecuzione dell’ente e dei suoi rapporti successivamente alla vicenda modificativa, rivelerebbe l’opposto carattere estintivo del fallimento.

Alla luce di tutto questo, la Procura di Roma chiede l’intervento del giudice di legittimità che, come era prevedibile annulla con rinvio la pronuncia del g.u.p.

La Sezione V risponde puntualmente alle argomentazioni del g.u.p., precisando anzitutto come non sia di sua competenza una valutazione sull’effettiva possibilità che la società torni in bonis dopo la procedura concorsuale, trattandosi di valutazioni tecniche che spettano al giudice fallimentare con l’aiuto, al limite, del curatore.

Ad ogni modo, anche se fosse già certo il non ritorno in bonis della società, ciò non basterebbe a dichiararla estinta in virtù dell’art 2495 c.c. che, come si è in precedenza osservato, dispone che l’estinzione della società si abbia solo a seguito di cancellazione dal registro delle imprese.

In questo senso la Cassazione segue quanto già affermato in una precedente pronuncia, che aveva puntualizzato come il fallimento non

determinasse affatto a priori l’estinzione della società223 e di

conseguenza venisse meno la premessa fondante il non luogo a procedere.

In merito all’accostamento tra morte dell’imputato e fallimento della società, la corte ha precisato che il codice penale all’art 150 dispone l’estinzione del reato a seguito di morte in virtù della mancata esistenza del soggetto, al quale non sarebbe possibile comminare nessuna pena. I giudici di legittimità invece paragonano la società fallita ad un malato grave, ma ancora in vita.224

Venendo meno l’automatismo per cui il fallimento della società ne determina l’estinzione con conseguente estinzione del reato, la Corte dichiara che l’eventuale pretesa dello Stato può essere soddisfatta mediante il suo inserimento nel passivo fallimentare al pari di tutti gli altri creditori. In tal senso, non può rilevare in alcun modo un’ipotetica difficoltà per lo Stato di ottenere il soddisfacimento del credito, non essendo questo sufficiente a dichiarare il non luogo a procedere in virtù dell’obbligatorietà dell’azione penale.

Nemmeno quanto affermato dal giudice di merito in relazione al capo II sembrerebbe avere senso: la mancata previsione del fallimento all’interno del capo non è certo un atto voluto e pensato per differenziare gli effetti dello stesso rispetto a quelli delle vicende modificative; piuttosto, evidenzia come a detta del legislatore delegato il fallimento non sia un evento idoneo a modificare la sorte delle sanzioni, al contrario della trasformazione, fusione e scissione.225

223

Cass. Pen. sez V 2 Ottobre 2009 n. 47171 in Riv. Pen. 2010 515 con nota di CORUCCI, La morte del reo e il fallimento dell’ente: il parallelo che non c’è

224

“malato grave, la cui morte è altamente probabile, ma non certa nel se e nel quando”. Così dispone la sentenza al punto n. 6

225

Se non addirittura potrebbe essere semplicemente frutto di una trascuratezza e dimenticanza, per altro coerente con la mancata disciplina del fenomeno in esame

Sulla base di questi principi la Corte di Cassazione annulla con rinvio la sentenza del g.u.p. stabilendo che «il fallimento della società non è

equiparabile alla morte del reo e quindi non determina l’estinzione della sanzione amministrativa prevista dal decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231”

3.3 Il procedimento nei confronti della società fallita: