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Le sorti delle sanzioni nei confronti dell’ente fallito Infine, occorre chiedersi come regolare la sanzione pecuniaria in caso

2.3.1 Alcune soluzioni prospettate da dottrina e giurisprudenza

3.4 Le sorti delle sanzioni nei confronti dell’ente fallito Infine, occorre chiedersi come regolare la sanzione pecuniaria in caso

di condanna dell’ente fallito ai sensi del decreto legislativo 231/2001, una volta appurato che esso non si estingue dopo la dichiarazione di fallimento.

Primariamente, è bene sgomberare il campo da un dubbio: non esiste alcuna solidarietà passiva per il pagamento delle sanzioni pecuniarie in

capo alle persone fisiche su cui grava, in base allo statuto societario di riferimento, una responsabilità patrimoniale sussidiaria. 230

Questo lo si deduce agilmente dall’art 27 d.lgs. 231/2001, che fa gravare unicamente sulla società il debito per la sanzione pecuniaria. Partendo dall’esclusione della responsabilità solidale in capo ai soci, anche se illimitatamente responsabili, alcuni autori si sono spinti oltre sostenendo che se lo stato di insolvenza è dovuto unicamente al debito per la sanzione ai sensi del 231/2001, i soci non dovrebbero essere coinvolti dal fallimento della società; questo perché l’estinzione della procedura concorsuale ai soci illimitatamente responsabili si giustifica con la possibilità di aggredire i loro patrimoni personali, cosa che invece non può accadere in caso di passività conseguente alla sanzione pecuniaria ai sensi del decreto231

.

Questa posizione, se pur astrattamente ipotizzabile, non pare tenere conto del fatto che, ad ogni modo, i soci illimitatamente responsabili dovranno comunque contribuire col loro patrimonio personale per adempiere le altre obbligazioni diverse da quella derivante da responsabilità da reato; inoltre, e su un piano diverso, il fallimento della società si estende ex lege ai soci illimitatamente responsabili: difficile pensare di poter superare questo principio.232

Chiarito questo e tenendo fermo quanto statuito della Corte di Cassazione, non sembra problematico il caso in cui la sentenza definitiva di condanna venga emessa prima della dichiarazione di fallimento. Si tenga infatti conto che il fallimento determina semplicemente lo spossessamento dei beni della società e il loro impiego per la soddisfazione dei creditori, non andando ad intaccarne

230

DI GERONIMO op cit pag 1024

231

Si veda tra i tanti SANTI, La responsabilità delle società op cit 362

232

Ancora DE ANGELIS op cit 1328; questa tesi convince anche DI GERONIMO op cit pag 1026

la proprietà; di conseguenza il credito dello Stato può considerarsi a pieno titolo un credito concorrente con gli altri creditori del fallito senza alcuna violazione dell’art 27 del decreto.

Il quadro muta radicalmente nel caso in cui la sentenza di condanna sorga successivamente alla dichiarazione di fallimento, rendendo assai ardua l’ammissione del credito dello Stato al concorso. Ai sensi dell’art 52 l. fall. infatti la soggezione al concorso si riferisce in prima istanza ai crediti sorti prima della dichiarazione di fallimento, e a quelli successivi solo se prededucibili. 233

Ai sensi dell’art 111 l. fall. i crediti prededucibili sono quelli sorti in funzione della procedura concorsuale e quelli che sono definiti tali da una specifica disposizione di legge.

Stando alla lettera della legge quindi il credito dello Stato per la sanzione pecuniaria ex 231/2001 non sembra poter essere ammesso al concorso, in quanto sorto dopo la dichiarazione di fallimento e non essendo di certo un credito funzionale alla procedura concorsuale né esistendo alcuna disposizione di legge che lo classifichi come tale.

Si è cercato in realtà di trovare qualche spunto per salvare la situazione e poter quindi ammettere il credito dello Stato al concorso.

E’ stato detto, ad esempio, che se è vero che il credito derivante dalla sentenza di condanna è sorto dopo la dichiarazione di fallimento, il fatto illecito da cui esso ha origine è in realtà precedente, potendo quindi rientrare nella categoria ai sensi dell’art 52 l. fall. Questa deduzione è in realtà molto pericolosa, perché mette sullo stesso piano il reato presupposto che è una mera condizione necessaria per

233

In questo senso GUGLIELMUCCI, Diritto fallimentare, Torino, 2008, p. 198 ss.; CUOMO ULLOA, Gli effetti del fallimento per i creditori, in Il diritto fallimentare

riformato. Commentario sistematico, (a cura di) SCHIANO DI PEPE, Padova, 2007,

p. 176; INZITARI, Effetti del fallimento per i creditori, in Le procedure concorsuali.

Il fallimento, (a cura di) RAGUSA MAGGIORE-COSTA, vol. II, Torino, 1997, p. 34

un’eventuale responsabilità dell’ente, e una condanna che invece è il risultato di un iter processuale ben preciso, dove si procede all’accertamento della responsabilità sulla base di prove e nel rispetto delle garanzie costituzionali. 234

Altra spunto si è preso dall’art 96 l. fall. ai sensi del quale sono ammessi con riserva al concorso i crediti accertati con sentenza prima del fallimento, anche se essa non è definitiva. Da questa norma sembrerebbe ipotizzabile che il credito dello Stato possa essere ammesso se il fallimento intervenga durante il giudizio di appello successivamente ad una condanna in primo grado; c’è però un problema, ossia il valore costituivo del credito a favore dello stato che viene dato alla sentenza di primo grado, quasi a voler anticipare la condanna definitiva dell’ente. Ancor meno probabile quindi è un’ estensione in via analogica nel caso in cui il fallimento venga dichiarato nelle more del procedimento di primo grado, in assenza cioè di una sentenza se pur non definitiva; l’iter logico risulta infatti alquanto fragile e lontano dai principi di interpretazione analogica, considerando che l’art 96 l. fall. è una norma speciale235

In conclusione, ad oggi una condanna dell’ente ai sensi del 231/2001 che arrivi successivamente alla dichiarazione di fallimento si rivela un vicolo cieco: lo Stato non può essere ammesso al concorso con gli altri creditori e quindi non può trovare soddisfacimento del suo credito.

Ed ecco perché in premessa è stato chiarito come la pronuncia della Cassazione non sia di certo un punto di arrivo ma solo di partenza;

234

Considerazioni condivise anche da CHIARAVIGLIO, Responsabilità da reato

della persona giuridica e fallimento della società: un rapporto problematico in

www.penalecontemporaneo.it pag 8

235

COMERICI-CHINAGLIA, sub art. 96, in Commentario breve alla legge fallimentare, a cura di MAFFEI ALBERTI, Padova, 2009, p. 535

servono norme che risolvano i problemi pratici sia in ambito processuale che esecutivo, serve un intervento di riforma del legislatore se si vuole veramente dare un senso al lavoro della giurisprudenza.

Conclusioni

Terminata l’analisi delle figure rilevanti ai fini del lavoro, pare opportuno concludere con alcune considerazioni di carattere sistematico.

Deve essere tenuto fermo un assunto: le vicende modificative sono state senza ombra di dubbio uno dei punti maggiormente spinosi che il legislatore delegato ha dovuto affrontare, sia per l’assenza di regolamentazione nella legge delega sia per la specificità e tecnicità della materia.

Queste difficoltà si sono riversate inesorabilmente sull’impianto di regole che è stato tracciato sia nel capo II che nel capo III, aprendo la strada a censure di carattere costituzionale che hanno rischiato di mettere a repentaglio la buona riuscita dell’intero decreto.

Se l’intento iniziale era quello di bilanciare due esigenze così distanti tra loro come l’effettività del sistema da un lato e la tutela del soggetto risultante o beneficiario delle vicenda modificativa dall’altro, nella pratica ciò si è tradotto in uno squilibrio verso la prima di queste due esigenze; il legislatore infatti, temendo un utilizzo fraudolento di questi fenomeni, ha predisposto un sistema di regole che spesso condanna l’ente risultante dalla vicenda modificativa senza alcuna via d’uscita. Se ciò ha un senso nel caso della trasformazione societaria, lo stesso non si può dire per la fusione che ad oggi sembra l’istituto maggiormente problematico anche se la dottrina maggioritaria non sembra essere dello stesso avviso. Qualche margine di elasticità è invece emerso con la disciplina della scissione, nonostante anche in quel caso vi siano punti oscuri che rendono complicata l’interpretazione complessiva dell’art 30.

Lo squilibrio di cui sopra è ancor più apprezzabile nelle due norme del capo III che regolano gli aspetti processuali delle vicende modificative; il legislatore delegato ha avuto come unica preoccupazione la speditezza del procedimento e l’effettività di un’ipotetica sentenza di condanna, dimenticandosi forse che prima del buon andamento del procedimento penale vi è il rispetto dei principi che la Costituzione sancisce a favore dell’imputato.

L’errore più grande che il legislatore ha compiuto nella redazione del capo III è stato il non tenere conto di una diversità imprescindibile tra le varie vicende modificative, predisponendo una regolamentazione omogenea di fenomeni che sono tutto tranne che simili tra loro. Ciò ha portato a vulnus di tutela in caso soprattutto di scissione ma anche, indirettamente, nel caso di fusione societaria.

Altro errore commesso dal legislatore, e questo se vogliamo stupisce ancora di più, è stato il non tenere conto della disciplina sostanziale che lui stesso ha predisposto nel capo precedente: eclatante l’esempio della doppia legittimazione processuale in caso di scissione parziale, principio desumibile dall’art 30 ma di cui non vi è alcun accenno nell’art 42.

L’inesperienza e le difficoltà del legislatore si apprezzano ancor di più nell’assenza di una espressa regolamentazione dell’estinzione e del fallimento dell’ente; è difficile comprendere il motivo per cui fenomeni come questi, assolutamente normali nel diritto societario, siano stati ignorati non solo nel 2001 ma anche successivamente con l’assenza di riforme.

La conseguenza più immediata di una tale dimenticanza è il rischio di inefficienza del sistema repressivo, di effettività della sanzione e quindi della risposta punitiva; proprio quelle esigenze a cui tanto si è dato peso - e a che prezzo! - nel capo II e II del decreto.

L’impianto di regole sulle vicende modificative risulta alquanto problematico - se non addirittura pericoloso - sotto un altro punto di vista che non è stato fino ad ora esplicitato: ossia il fatto che tali norme sono l’argomento maggiormente utilizzato dai sostenitori della natura meramente amministrativa della responsabilità in esame. Il perché sembra piuttosto intuibile: a fronte delle norme del capo II e delle numerose - più o meno lampanti - violazioni dei principi penalistici, risulta più facile risolvere il problema facendo finta che esso non esista, escludendo il carattere penale della responsabilità e prediligendone piuttosto il carattere amministrativo, in modo che la sua traslazione automatica da un soggetto all’altra risulti più accettabile e meno stridente con le garanzie della carta fondamentale.

Non è questa la strada giusta, occorre invece un intervento del legislatore che possa meglio armonizzare l’impianto di regole con i principi costituzionali e anche con i dettami del codice civile e che dia finalmente una direzione chiara e precisa ai fenomeni attualmente assenti all’interno del decreto.

Nello specifico, occorrerebbe dare maggior credito a quell’orientamento minoritario che non è d’accordo sull’attuale lettera dell’art 29 che disciplina la fusione; altro punto che dovrebbe essere maggiormente chiarito riguarda il trasferimento della responsabilità da reato in caso di scissione ai sensi dell’art 30: si è già dato conto delle varie teorie, ma una disposizione espressa su questo punto risulterebbe alquanto funzionale anche in virtù delle problematiche che tale incertezza porta con sé quando l’interprete si trova di fronte alle regole del capo III ed in particolare dell’art 70.

E a proposito del capo III, se alcuni autori ritengono che la trasformazione societaria poteva non essere inclusa nei dettami dell’art 42 in virtù del fatto che essa si presenta come un mero cambio d’abito, si potrebbe addirittura ribaltare il ragionamento e concludere che forse

tale istituto sia l’unico compatibile con una norma del genere, assai debole in fatto di garanzie per l’ente che entra nel processo come imputato.

Per quanto concerne gli istituti analizzati nel quarto capitolo, sarebbe opportuno un intervento del legislatore che andasse a disciplinare l’ipotesi dell’estinzione dell’ente e che soprattutto desse degli strumenti in mano al giudice o quantomeno al pubblico ministero per poter combattere eventuali abusi di tale realtà; ci si riferisce ovviamente al caso in cui una società arrivi alla liquidazione solo per eludere le sanzioni ai sensi del decreto.

Infine, riguardo al fallimento, il discorso sembra lievemente più complesso: non basterebbe infatti una disciplina espressa che consenta al curatore di stare in giudizio assieme all’ente fallito, servirebbe anche una modifica della legge fallimentare che rendesse possibile l’ammissione al concorso del credito dello Stato.

Purtroppo, almeno per adesso, tutte queste aspettative sembrano destinate a rimanere inascoltate, visto che le recentissime proposte di modifica al decreto legislativo riguardano unicamente l’art 5 e l’onere della prova in capo agli organi apicali; aspetti senza dubbio importanti, ma che non sono i soli ad aver bisogno di essere novellati.

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