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3. Le frizioni fra il giudicato e la legalità costituzionale

3.2. Il giudicato nei conflitti costituzionali

La sentenza pronunciata in via definitiva può essere sottoposta al sindacato della Corte costituzionale in sede di conflitto tra poteri dello Stato o tra lo Stato e le Regioni. Diversamente dall’ipotesi del superamento del giudicato quale conseguenza indiretta della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma cui la sentenza definitiva aveva medio tempore dato applicazione, nella fattispecie ora in esame il provvedimento giurisdizionale viene a costituire direttamente oggetto del giudizio della Corte. Coerentemente con la natura impugnatoria del procedimento così instaurato, al riscontro dell’illegittimità dell’atto segue il suo annullamento.

E’ ormai pacifico nella giurisprudenza costituzionale che il conflitto interorganico possa avere ad oggetto atti emessi dagli organi giurisdizionali, laddove un altro potere dello Stato lamenti l’invasione o la menomazione delle proprie competenze costituzionali. Così, per fare solo alcuni significativi esempi, le Camere hanno proposto un conflitto nei confronti di una sentenza della Corte di cassazione che, per il suo carattere pretesamente creativo, avrebbe costituito esercizio (non della funzione giurisdizionale, ma) delle attribuzioni proprie del Parlamento103; il Presidente della Repubblica ha lamentato, con ricorso accolto dalla Corte costituzionale, che non spettava alla Procura della Repubblica valutare la rilevanza di intercettazioni di conversazioni telefoniche, sia pur indirette o casuali, che lo vedevano protagonista104; il Governo ha recentemente sollevato conflitto avverso la decisione con cui la Corte di cassazione aveva affermato la sindacabilità in sede giurisdizionale della delibera del Consiglio dei ministri di diniego dell’apertura delle trattative per la stipulazione dell’intesa con una confessione non cattolica105.

102 Cfr. supra, parr. 2.2 s. 103 Ord. n. 334 del 2008. 104 Sent. n. 1 del 2013. 105 Sent. n. 52 del 2016.

Similmente, atti giurisdizionali possono essere impugnati dalle Regioni o dalle Province autonome in conflitti intersoggettivi con cui, stante la radicale assenza di funzioni giurisdizionali in capo alle autonomie, esse lamentano la menomazione (e non anche l’invasione) delle proprie attribuzioni costituzionali. Si tratta, come ha messo in luce la dottrina, di una sorta di conflitti fra poteri mascherati, in quanto accanto al profilo dei rapporti tra i diversi livelli di governo (centrale e regionale) emerge quello dei rapporti tra funzioni o poteri (ad esempio, legislativo vis-à-vis giurisdizionale), profilo che anzi risulta spesso dirimente nella ratio decidendi della sentenza106.

Una volta ammessa la possibilità di impugnare in sede di conflitto un atto giurisdizionale, la Corte non ha potuto esimersi dal sindacare nell’ambito di questo strumento anche le sentenze passate in giudicato. A tal proposito, anzi, si è osservato che, “proprio perché il conflitto ha luogo nei confronti di una sentenza avverso la quale non è dato alcun mezzo di impugnazione, non possono sorgere nemmeno eventuali problemi relativi alla possibile concomitanza tra giudizio sul conflitto e giudizio di impugnazione”107. Così, la Corte costituzionale si è trovata più volte a valutare la legittimità costituzionale di sentenze assistite dall’efficacia propria della cosa giudicata, rispetto alle quali il ricorrente lamentava la menomazione o l’invasione delle proprie competenze costituzionali.

Occorre precisare, però, che la Corte costituzionale ha assunto un atteggiamento estremamente prudente nei confronti dell’annullamento di sentenze definitive, trincerandosi dietro una lettura molto restrittiva del principio secondo il quale in sede di conflitto (tra enti o tra poteri), non si può

106 In questo senso G.GROTTANELLI DESANTI, Differenziazione tra Assemblea regionale e

Camera di indirizzo politico regionale, in Giur. cost., 1964, 692 ss.; A. CERRI, Ancora sui

limiti di sindacabilità dell’atto del giudice in sede di conflitto, in le Regioni, 1991, 1049; C.

CONSOLO, Annullamento, in sede di conflitto di attribuzioni, di decisione della Cassazione

penale… perché frutto della disapplicazione di legge regionale ritenuta incostituzionale, in le Regioni, 1991, 1058. La circostanza, peraltro, determina uno “scollamento tra il soggetto

sostanziale e il soggetto processuale del giudizio”, giacché la rappresentanza in giudizio dello Stato, cui il potere giudiziario è riconducibile, è demandata al Presidente del Consiglio; sul punto, v. F. MARONE, Processo costituzionale e contraddittorio nei conflitti intersoggettivi,

Napoli, Editoriale scientifica, 2011, 168 s.

censurare l’error in iudicando eventualmente commesso dall’autorità giudiziaria.

Questo principio, che pur rispecchia una preoccupazione del tutto condivisibile della Corte, quella cioè di evitare che il conflitto dinanzi ad essa diventi un ulteriore mezzo di gravame delle sentenze, così introducendo in via surrettizia un quarto grado di giurisdizione, rischia però di essere ingiustamente restrittivo delle prerogative degli altri organi ed enti costituzionali, che si trovano difatti sprovvisti di un rimedio efficace con cui reagire all’eventuale sconfinamento dei giudici dalle funzioni che la Costituzione loro attribuisce.

In effetti, mentre il giudice ha a disposizione, oltre allo strumento del conflitto di attribuzioni, anche l’incidente di costituzionalità per reagire alla pretesa invasione o menomazione delle proprie prerogative, il sindacato sugli atti giurisdizionali introdotto tramite conflitto di attribuzione (tra enti o tra poteri dello Stato) si limiterebbe a verificare “la riconducibilità della decisione o di statuizioni in essa contenute alla funzione giurisdizionale” in quanto “si lamenti il superamento dei limiti, diversi dal generale vincolo del giudice alla legge, anche costituzionale, che essa incontra nell’ordinamento a garanzia di altre attribuzioni costituzionali”108. Ultimo organo deputato al controllo di legittimità (anche costituzionale) delle sentenze resterebbe, pertanto, la Corte di cassazione.

Questo orientamento rischia di essere anzitutto lesivo nei confronti del legislatore statale e, ancor di più, regionale. A quest’ultimo, in particolare, sarebbe sostanzialmente preclusa la possibilità di difendere la sfera di competenza costituzionalmente attribuitagli nei confronti di una particolare categoria di atti statali, quelli appunto giurisdizionali.

Inoltre, sotto diverso profilo, un’interpretazione così restrittiva impedisce al conflitto di farsi strumento – sia pur indiretto – di tutela dei diritti fondamentali, lasciando inattuate le potenzialità di utilizzo che in questa direzione sono emerse nel corso degli ultimi trent’anni, a partire dalla nota sent. n. 1150 del 1988 in materia di insindacabilità delle opinioni espresse ai

sensi dell’art. 68, primo comma, Cost.109, e, successivamente, nell’ambito di filoni giurisprudenziali differenti110. Potenzialità la cui valorizzazione sarebbe tanto più opportuna nei confronti delle sentenze definitive, in ragione dell’assenza, nel nostro ordinamento, di uno strumento di accesso diretto alla Corte costituzionale che consenta una verifica di legittimità costituzionale delle decisioni giurisdizionali di ultima istanza111.

Un esempio delle conseguenze di questo orientamento restrittivo della Corte sulle competenze del legislatore (regionale) e, in via mediata, sui diritti fondamentali dell’individuo parte del giudizio comune è dato dalla sent. n. 2 del 2007. Il conflitto, promosso dalla Regione Sardegna, aveva ad oggetto la sentenza con la quale, rovesciando le pronunce di primo e secondo grado emesse rispettivamente dal Tribunale e dalla Corte di Appello di Cagliari, la Cassazione aveva dichiarato la decadenza di un consigliere regionale perché presidente di un ente vigilato dalla Regione, applicando così un’ipotesi di incompatibilità prevista dalla legge (statale) n. 154 del 1981.

Tale legge, in particolare, era applicata nonostante l’art. 17, comma 2, dello Statuto regionale espressamente prevedesse quali ipotesi di incompatibilità l’ufficio di “membro di una delle Camere o di un altro Consiglio regionale o di un sindaco di un Comune con popolazione superiore a diecimila abitanti, ovvero di membro del Parlamento europeo” e nonostante la l. cost. n. 2 del 2001 avesse sostituito la legge regionale a quella statale

109 E soprattutto, sul piano sostanziale, a partire dalle sentt. nn. 10 e 11 del 2000, con cui la

Corte ha inaugurato un’interpretazione restrittiva del nesso funzionale tra opinioni espresse ed esercizio della funzione parlamentare; sul piano processuale, a partire dalla sent. n. 76 del 2001, con cui la Corte ha ammesso per la prima volta l’intervento in giudizio del terzo costituitosi parte civile nel processo da cui il conflitto intersoggettivo traeva origine; sul punto v. F. MARONE, Processo costituzionale e contraddittorio nei conflitti intersoggettivi, cit., 143 ss.

110 Oltre all’utilizzo del conflitto di attribuzione fra poteri come mezzo di tutela (mediata) del

diritto di difesa del privato leso dalle dichiarazioni dei Parlamentari rese extra moenia, potrebbe farsi l’esempio del sindacato sugli atti di autodichia degli organi posti ai vertici dell’ordinamento costituzionale, recentemente instradato sulla via del contenzioso in sede di conflitto dalla Corte costituzionale nella sent. n. 120 del 2014. Com’è noto, pendono attualmente in Corte due conflitti di attribuzione sollevati dalla Corte di cassazione (reg. ricorsi nn. 1 e 2 del 2015). Sulle potenzialità del conflitto di attribuzioni di divenire strumento (indiretto) di tutela dei diritti fondamentali sia consentito rinviare a R. LUGARÀ, I regolamenti

parlamentari al vaglio di costituzionalità: la Consulta indica la strada, in Rivista AIC,

1/2014, spec. 11 ss.

111 Sul punto si tornerà al paragrafo seguente, relativo al ricorso diretto alla Corte

quale fonte di integrazione dei casi di ineleggibilità e incompatibilità con le cariche di consigliere regionale attraverso l’abrogazione dell’art. 17, comma 3, dello Statuto.

Ciononostante, la Cassazione riteneva di poter applicare in via sussidiaria nel territorio della Sardegna la disciplina di cui alla l. n. 154 del 1981, pur riconoscendo l’esistenza di una riserva di legge regionale in materia. A tale risultato sarebbe giunta allo scopo di porre rimedio ad “una situazione di vuoto legislativo per non essere all’evidenza l’unico caso di ineleggibilità ed i pochi casi di incompatibilità statutariamente previsti suscettibili di soddisfare le primarie esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), di eguaglianza dei cittadini (art. 3 Cost.) e del possesso di determinati requisiti per l’accesso alle cariche elettive”112 e, pertanto, sulla base di una valutazione di pretesa illegittimità costituzionale della disciplina regionale.

La Cassazione, invero, una volta correttamente individuata la competenza in capo alla Regione, ove avesse dubitato della legittimità costituzionale della normativa regionale (eventualmente anche perché ritenuta carente alla luce dei principi costituzionali), avrebbe dovuto sospendere il giudizio e sollevare una questione incidentale dinanzi alla Corte costituzionale, denunziando l’illegittimità della normativa regionale nella parte in cui essa non prevedeva la presidenza di un ente sovvenzionato dalla Regione tra le cause di incompatibilità con la carica di consigliere regionale.

Al contrario, la Cassazione ha ritenuto di poter superare da sé tali dubbi mediante un’interpretazione costituzionalmente orientata, interpretazione che però ha di fatto travalicato i limiti logici di tale criterio, giungendo a un risultato (l’integrazione della normativa regionale con la l. n. 154 del 1981) radicalmente estraneo al quadro normativo di riferimento113.

Anche in questo caso di così palese sconfinamento dal limite della soggezione alla legge, la Corte costituzionale ha ravvisato la contestazione di

112 Così recita l’impugnata sent. Corte cass., Sez. I civ., 24 luglio 2006, n. 16889; cors. ns. 113 Per via della sent. Corte cost. n. 85 del 1988, che aveva escluso l’applicabilità della l. n.

154 del 1981 al territorio della Sardegna sulla base della specialità della normativa regionale in materia e, soprattutto, dell’avvenuta abrogazione dell’art. 17, comma 3, dello Statuto.

meri errores in iudicando, dichiarando conseguentemente inammissibile il ricorso. Così facendo, la Regione Sardegna si è trovata spettatrice impotente dell’invasione della propria competenza esclusiva in materia di casi di ineleggibilità e incompatibilità con la carica di consigliere regionale riconosciutale direttamente dalla Costituzione. Del pari, il consigliere regionale (illegittimamente) dichiarato decaduto dalla sentenza impugnata non ha trovato alcuna forma di tutela del proprio diritto fondamentale all’elettorato passivo.

Questa pronuncia merita di essere comparata con un precedente analogo nei confronti del quale, però, la Corte è pervenuta a una decisione di segno opposto. Il conflitto risolto dalla sent. n. 285 del 1990 aveva ad oggetto una sentenza con cui la Corte di cassazione disapplicava, ai sensi dell’art. 5 della l. n. 2248 del 1865, n. 2248, all. E, tre leggi regionali della Regione Emilia-Romagna, perché ritenute costituzionalmente illegittime per avere interferito in una materia, quella penale, riservata allo Stato. La Corte escludeva che la Regione avesse lamentato nel caso di specie un mero error in iudicando, in quanto la contestazione atteneva piuttosto al fatto che “la Cassazione, pur avendo ritenuto riferibili alla fattispecie le citate leggi regionali, le abbia espressamente disapplicate, considerandole alla stregua di atti amministrativi; e più ancora che, in base ad una valutazione di incostituzionalità delle anzidette leggi, anziché sollevare la relativa questione dinanzi alla Corte costituzionale, sia pervenuta direttamente alla disapplicazione delle medesime”.

La Corte di cassazione sarebbe quindi caduta in un errore non sul “concreto esercizio” della funzione giurisdizionale, ma sui stessi “confini”, giacché al di fuori di questi si porrebbe il potere di disapplicazione delle leggi. Il caso non sembra, invero, così distante da quello risolto con la sent. n. 2 del 2007, nel quale la Corte di cassazione, pur ammettendo l’esistenza di una riserva di legge regionale in materia, riteneva di poter integrare con il ricorso alla legge statale le ipotesi di ineleggibilità e incompatibilità, allo scopo di superare una pretesa incostituzionalità per omissione della disciplina

regionale. Anche in questo caso, infatti, la strada obbligata per la Cassazione sarebbe stata l’incidente di costituzionalità.

In effetti, sembra doversi affermare che, una volta ammessa l’esperibilità del conflitto per menomazione nei confronti delle sentenze, la Corte non dovrebbe più trincerarsi dietro l’inammissibilità delle censure volte a contestare un error in iudicando quando in gioco vi sia la violazione dei parametri costituzionali che disciplinano (o che comunque ridondano sulla) ripartizione delle competenze tra poteri dello Stato o delle attribuzioni tra lo Stato e le Regioni. A ben guardare, infatti, al di fuori dei casi di scuola del giudice che intenda emanare norme generali e astratte e farsi dunque legislatore, la menomazione della sfera delle competenze costituzionali è quasi sempre riconducibile a un passaggio motivazionale della sentenza e non al suo contenuto decisorio, in sé considerato. Basti pensare alla disapplicazione della legge, ritenuta esercizio di un potere “del tutto abnorme” dalla sent. n. 285 del 1990. E’ evidente che non è la disapplicazione, in sé, a ledere le competenze legislative della Regione114, ma a farlo sono le argomentazioni giuridiche spese dalla Cassazione a sostegno di tale disapplicazione. Nessuna lesione alle prerogative regionali, infatti, sarebbe stata lamentata se la Corte di cassazione fosse giunta al medesimo risultato argomentando, a partire dall’art. 9, comma 2, della l. n. 698 del 1981, la necessaria applicazione del principio di specialità tra disposizione penale e disposizione regionale che al medesimo fatto riconduce sanzioni amministrative115 ovvero ancora, in ipotesi, se alla disapplicazione fosse giunta ritenendo la norma regionale in contrasto con norme UE direttamente applicabili.

E’ dunque l’argomentazione giuridica a porsi in contrasto con le norme costituzionali che disciplinano l’esercizio della funzione giurisdizionale e a

114 O le funzioni di giudice della costituzionalità delle leggi che la Costituzione affida in via

esclusiva alla Corte costituzionale, com’è stato correttamente osservato dai commentatori della sentenza; cfr. sul punto A. CERRI, Ancora sui limiti di sindacabilità dell’atto del giudice

in sede di conflitto, cit., 1049, e C. CONSOLO, Annullamento, in sede di conflitto di

attribuzioni, di decisione della Cassazione penale… perché frutto della disapplicazione di legge regionale ritenuta incostituzionale, cit., 1058.

115 Secondo quanto prospettato, ad esempio, da L. ANTONINI, Disapplicazione davvero

ledere, conseguentemente, le attribuzioni costituzionali regionali, e non l’esito del giudizio in quanto tale. Non a caso, i commentatori della sent. n. 285 del 1990 hanno messo in luce la portata innovativa della pronuncia rispetto ai precedenti in cui la Corte aveva negato che il proprio sindacato potesse appuntarsi sul quomodo dell’attività giurisdizionale116, osservando che nel caso di specie, invece, la Corte “non esita a rivedere il ragionamento che aveva condotto la Corte di cassazione a disapplicare la legge regionale”117.

Eppure questa circostanza, più che l’esito di un utilizzo troppo ardito del conflitto da parte della Corte, appare piuttosto il frutto di un eccessivo timore della Corte a riconoscere apertamente che la violazione delle norme di riparto delle competenze costituzionali è, per la struttura stessa del procedimento giudiziario, un errore interpretativo. La distinzione tra ciò che costituisce error in iudicando e ciò che è invece riconducibile a un errore sui confini stessi della funzione giurisdizionale regge solo nelle (eccezionali) ipotesi in cui si lamenti l’invasione di competenze altrui.

Non è invece delineabile laddove, come avviene nella stragrande maggioranza dei conflitti interorganici e nella totalità di quelli intersoggettivi, si lamenti la menomazione di una propria competenza quale effetto dell’illegittimo esercizio della funzione giurisdizionale. Sarebbe allora auspicabile che la Corte reinterpretasse la nozione di error in iudicando, consentendo alle parti del conflitto di lamentare qualsiasi violazione dei parametri costituzionali relativi alla ripartizione delle competenze, rinvenibile anche nell’apparato argomentativo della sentenza, purché abbia influito sull’esito del giudizio e sia stata, dunque, concretamente lesiva della sfera di attribuzioni.

L’annullamento delle sentenze definitive da parte della Corte costituzionale pone un problema di tutela nei confronti delle parti del giudizio comune, che potrebbero anche non essere (e di regola non sono) gli stessi soggetti legittimati ad agire e a resistere in un conflitto fra poteri o di

116 M. D’AMICO, Alcune riflessioni in tema di conflitti di attribuzione fra Stato e Regioni su

atti giurisdizionali, in Giur. cost., 1990, 1791.

attribuzione. Sul punto, la dottrina si è giustamente domandata se “un tale annullamento extraprocessuale del giudicato, reso al di fuori del contraddittorio delle parti del processo a suo tempo concluso, lede forse il principio processuale di fondo del contraddittorio”118. Questione che certamente merita di essere approfondita, insieme a quella, più generale, della lesione del legittimo affidamento delle parti nella definitività degli effetti prodotti dal giudicato e della certezza del diritto quanto al rapporto sostanziale dedotto.

In effetti, le parti private non ricevono comunicazione alcuna della promozione del conflitto innanzi la Corte costituzionale, ma possono prenderne visione tramite la pubblicazione in Gazzetta ufficiale ai sensi dell’art. 27 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte. Eppure l’annullamento della sentenza cui può pervenire la Corte costituzionale e il vincolo che la Corte è suscettibile di produrre sull’eventuale attività giudiziaria susseguente a tale annullamento incidono direttamente sulle loro posizioni giuridiche soggettive. Le parti, in effetti, rischiano di essere pregiudicate dal conflitto non solo per l’ulteriore attività processuale che potrà essere loro richiesta dopo la sentenza della Corte costituzionale, ma anche nel merito delle loro pretese. Il giudice comune, infatti, a seguito dell’annullamento da parte della Corte, potrebbe trovarsi a dover rispondere alle domande attoree con l’obbligo di rispettare le indicazioni contenute nella sentenza del giudice costituzionale. Sembra allora opportuno che la Corte modifichi le norme che disciplinano la procedura dei giudizi dinanzi ad essa per estendere l’obbligo di notifica che ricade sul ricorrente ai sensi degli artt.

118 C. CONSOLO, Annullamento, in sede di conflitto di attribuzioni, di decisione della

Cassazione penale… perché frutto della disapplicazione di legge regionale ritenuta incostituzionale, cit., 1060. Una lesione del contraddittorio era individuata da A.

PIZZORUSSO, La magistratura come parte dei conflitti di attribuzione, in P.BARILE,E.CHELI, S.GRASSI (a cura di), Corte costituzionale e sviluppo della forma di Governo in Italia,

Bologna, Il Mulino, 1982, 220 s., nella circostanza che la Corte costituzionale non solo negava alle parti del giudizio comune la veste di litisconsorti necessari, ma ne impediva altresì l’intervento volontario nel giudizio innanzi ad essa incardinato. Secondo l’illustre Autore, ciò avrebbe comportato addirittura l’inefficacia della sentenza della Corte nei confronti delle parti del giudizio comune, essendo escluso che una tale pronuncia “possa esercitare effetti nel processo civile, ove sono in giuoco diritti di soggetti che non possono certamente venir espropriati ad opera dei pubblici poteri in virtù di una sentenza resa in un processo cui i titolari di essi non abbiano avuto modo di partecipare”.

24 e 25 delle norme integrative anche in favore dei soggetti nei confronti dei quali è stata resa la sentenza impugnata in sede di conflitto119.

L’esigenza di tutela del diritto di difesa delle parti private ha d’altro canto condotto la giurisprudenza costituzionale ad ammetterne l’intervento in giudizio “quando la pronuncia resa nel giudizio costituzionale potrebbe precludere la tutela giudiziaria della situazione giuridica soggettiva vantata dall’interveniente, senza che gli sia data la possibilità di far valere le proprie ragioni”120. Estensione del contraddittorio che, per le ragioni sopra esposte, deve certamente essere valutata con favore121.

A prescindere dalle considerazioni che precedono circa la necessità di