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5. La responsabilità dello Stato per violazioni del diritto dell’Unione ad opera d

5.2. Il procedimento per infrazione

Un altro strumento che consente di censurare l’errata applicazione del diritto UE da parte di sentenze che hanno acquisito la forza di cosa giudicata è il ricorso per inadempimento ai sensi degli artt. 258 e 259 TFUE. Com’è noto, gli obblighi derivanti dai Trattati incombono sugli Stati membri in quanto tali, a prescindere dall’organo la cui azione o inerzia abbia concretamente dato luogo all’inadempimento, anche se si tratta di un’istituzione costituzionalmente indipendente290. Nondimeno, si tratta di un meccanismo che non è stato quasi mai utilizzato per questo scopo, avendo la Commissione assunto, comprensibilmente, un atteggiamento di estrema cautela rispetto alla possibilità di incidere sul rapporto cooperativo tra giudici nazionali e Corte di giustizia e, in particolare, sul corretto funzionamento del rinvio pregiudiziale291.

Nella sent. Commissione c. Italia292 la Corte di giustizia dichiara l’inadempimento degli obblighi imposti dai Trattati, per aver subordinato a condizioni eccessivamente difficili l’esercizio del diritto al rimborso di tributi incompatibili con il diritto dell’Unione. La Corte ricorda di aver già statuito, in una precedente pronuncia emessa in sede di rinvio pregiudiziale, che un’interpretazione della disciplina italiana come quella proposta dall’allora giudice a quo si sarebbe posta in contrasto con il diritto dell’Unione293.

290 In questo senso, v. già il caso C-77/69, Commissione c. Belgio, EU:C:1970:34, par. 15,

relativo al ritardo nell’approvazione di una legge per sopravvenuto scioglimento delle Camere belghe.

291 In questo senso A. ALEMANNO,F.IPPOLITO, La responsabilità dello Stato nei confronti

dei privati per le violazioni commesse dai giudici di ultima istanza: il risarcimento dei danni causati da sentenze definitive, cit., 76.

292 Sent. Commissione c. Italia, cit.

293 Nella sent. C-343/96, Dilexport, EU:C:1999:59, in particolare, si statuiva che “se, come

ritiene il giudice nazionale, esiste una presunzione di ripercussione su altri soggetti dei diritti e dei tributi illegittimamente pretesi o indebitamente riscossi e se è a carico del ricorrente la prova contraria di tale presunzione per ottenere il rimborso del tributo, si dovrà considerare che le disposizioni di cui si tratta sono contrarie al diritto comunitario. Se, per contro, come sostiene il governo italiano, spetta all’amministrazione dimostrare, mediante tutti i mezzi di prova generalmente ammessi dal diritto nazionale, che il tributo è stato trasferito su altri soggetti, si dovrà invece considerare che le disposizioni di cui si tratta non sono contrarie al diritto comunitario”. Concludeva pertanto che “il diritto comunitario osta a che uno Stato membro assoggetti il rimborso di diritti doganali e di imposte incompatibili

Successivamente adita in sede di ricorso per infrazione, la Corte rileva che l’applicazione che le autorità italiane hanno concretamente fatto di tale disciplina ha determinato il sorgere di condizioni eccessivamente difficili per l’esercizio del diritto al rimborso dei tributi. In particolare, l’interpretazione dominante della legge italiana, condivisa anche dalla giurisprudenza di legittimità, ha effettivamente stabilito una presunzione di traslazione del tributo su terzi, fissando dunque una lettura della norma incompatibile con quanto affermato nella sent. Dilexport294.

E’ interessante notare, però, che la Corte muove dalla constatazione che la disposizione italiana è di per sé neutra ai fini del diritto dell’Unione, mentre è l’interpretazione datane dall’amministrazione e dalla giurisprudenza a porsi in contrasto con le indicazioni offerte in via pregiudiziale. Ciononostante, la Corte riconduce l’inadempimento dello Stato italiano a un’omissione del legislatore, e non dei giudici. Sostiene, infatti, che sarebbe stato il legislatore a venir meno agli obblighi sovranazionali, perché avrebbe omesso di modificare la legge così interpretata al fine di impedire un siffatto risultato ermeneutico. E’ evidente, allora, la cautela con cui la Corte evita di ricondurre direttamente ai giudici la responsabilità dell’infrazione del diritto UE, in questo modo preservando il rapporto di cooperazione con i giudici nazionali. Tanto, con l’ulteriore conseguenza che è la stessa Corte a indicare le modalità di superamento dell’infrazione non certo nella generalizzata revisione dei processi conclusi in violazione del diritto UE, ma nell’obbligo per il legislatore di intervenire – pro futuro – per evitare il ripetersi di siffatti inadempimenti.

Quanto alla definizione di quali decisioni giurisdizionali siano suscettibili di dare luogo a un inadempimento agli obblighi sovranazionali, la Corte ha escluso che decisioni isolate o fortemente minoritarie in un contesto giudiziario caratterizzato dall’affermarsi di un diverso orientamento possano essere prese in considerazione, mentre lo stesso non è a dirsi per

con il diritto comunitario a una condizione, quale l’assenza di ripercussione di tali diritti e imposte su altri soggetti, relativamente al ricorrere della quale l’onere della prova incomberebbe al ricorrente” (parr. 52 - 54).

un’interpretazione giurisprudenziale diffusa, non smentita dalle pronunce delle giurisdizioni superiori. La Corte quindi privilegia l’esame di decisioni delle giurisdizioni supreme, ma non lo limita a queste, ammettendo che l’infrazione possa derivare anche da un costante orientamento dei giudici non di ultima istanza295.

Il ricorso per infrazione, dunque, è in grado di svolgere una funzione deterrente nei confronti di ripetute violazioni del diritto dell’Unione, ad opera di interpretazioni giurisdizionali diffuse. Tuttavia, il suo utilizzo a questo scopo è rimasto del tutto eccezionale, così come prudente è stato il modo di censurare l’attività ermeneutica dei giudici, rovesciando sugli Stati (e, in particolare, sul legislatore) il compito di immaginare procedure capaci di garantire il rispetto del diritto dell’Unione da parte degli organi giurisdizionali.

6. Rilievi conclusivi.

L’analisi della giurisprudenza ha messo in luce le condizioni alle quali la Corte di giustizia chiede alle autorità nazionali di porre rimedio a violazioni del diritto dell’Unione anche attraverso il superamento del (carattere di irretrattabilità del) giudicato. Occorre adesso volgere lo sguardo all’ordinamento interno e, in particolare, al ruolo dei giudici nazionali nella formazione e nell’implementazione delle regole delineate a Lussemburgo.

Non va sottovalutato, anzitutto, il ruolo del giudice nazionale nella formulazione del quesito pregiudiziale e, in particolare, nell’individuazione della norma o dell’istituto di diritto interno del quale sostanzialmente chiede una verifica di compatibilità con il diritto dell’Unione. Una disamina dei casi direttamente concernenti il nostro Paese mostra come, in realtà, molte questioni pregiudiziali in materia di giudicato avrebbero potuto essere evitate.

Il caso forse più evidente è quello Pizzarotti296, in cui la Sez. V del Consiglio di Stato si era rivolta alla Corte di giustizia per chiederle se potesse

295 In questo senso anche A. ALEMANNO,F.IPPOLITO, La responsabilità dello Stato nei

confronti dei privati per le violazioni commesse dai giudici di ultima istanza: il risarcimento dei danni causati da sentenze definitive, cit., 80.

296 Caso Impresa Pizzarotti, cit. Per la ricostruzione della fattispecie concreta, del

contenzioso interno che ha preceduto il rinvio pregiudiziale e della sentenza della Corte di giustizia v. supra al par. 2.1.3.

ritenere inefficace il giudicato formatosi con la sentenza resa in sede di ricorso avverso il silenzio, nei limiti in cui esso avrebbe portato, in ragione delle ulteriori decisioni di esecuzione e dei provvedimenti del commissario ad acta, a una situazione incompatibile con il diritto dell’Unione in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici. Ebbene: la questione appare mal posta perché già alla stregua del diritto interno, senza neanche bisogno di ricorrere a una interpretazione adeguatrice, un giudicato che avesse inteso riconoscere alla società il diritto alla realizzazione dell’opera pubblica non poteva ritenersi formato.

Il giudizio di cognizione da cui traevano origine i diversi giudizi esecutivi nasceva infatti da un ricorso avverso il silenzio-inadempimento proposto dalla società ai sensi dell’allora vigente art. 21-bis della l. n. 1034 del 1971. Poiché in quel tipo di giudizio il giudice amministrativo non può sindacare la fondatezza della pretesa e predeterminare il contenuto del provvedimento finale a meno che l’attività sia vincolata o si siano comunque esauriti gli spazi di discrezionalità della p.A., la portata conformativa della sentenza non poteva che essere circoscritta alla mera conclusione del procedimento volto a verificare la possibilità di realizzazione dell’opera. Neanche per effetto delle successive pronunce rese in sede di ottemperanza, dunque, poteva ritenersi che l’obbligo di mezzi (la valutazione circa la possibilità della realizzazione dell’opera) fosse divenuto un obbligo di risultato (la realizzazione dell’opera da parte della ricorrente)297.

297 In questo senso si è infatti sviluppato il seguito interno della vicenda, in particolare con la

sent. Cons. St., Ad. Plen., 9 giugno 2016, n. 11. Tale pronuncia è invero di estremo interesse anche per le considerazioni che l’Adunanza Plenaria offre ad adiuvandum della soluzione prospettata. Infatti il Consiglio di Stato ricorda l’orientamento delle Sezioni Unite della Corte di cassazione secondo cui “l’interpretazione da parte del giudice amministrativo di una

norma di diritto interno in termini contrastanti con il diritto dell’Unione Europea, secondo quanto risultante da una pronunzia della Corte di Giustizia successivamente intervenuta, dà luogo alla violazione di un «limite esterno» della giurisdizione, rientrando in uno di quei «casi estremi» in cui il giudice adotta una decisione anomala o abnorme, omettendo l’esercizio del potere giurisdizionale per errores in iudicando o in procedendo che danno luogo al superamento del limite esterno (in questi termini, cfr. Cass. Sez. Un. ordinanza 8

aprile 2016, n. 6891”. In questi “casi estremi”, ad avviso delle Sezioni Unite, “si impone la

cassazione della sentenza amministrativa «indispensabile per impedire che il provvedimento giudiziario, una volta divenuto definitivo ed efficace, esplichi i suoi effetti in contrasto con il diritto comunitario, con grave nocumento per l’ordinamento europeo e nazionale e con palese violazione del principio secondo cui l’attività di tutti gli organi dello Stato deve conformarsi alla normativa comunitaria»”. Il Consiglio di Stato recepisce tali princìpi nel

Un secondo caso che avrebbe potuto risolversi senza l’ausilio della Corte di giustizia, facendo ricorso, questa volta, all’interpretazione conforme al diritto UE, è Fallimento Olimpiclub298. La stessa Corte di cassazione, infatti, osserva nell’ordinanza di rinvio che per lungo tempo era prevalsa in seno alla propria giurisprudenza un’interpretazione dell’art. 2909 cod. civ. che valorizzava la c.d. frammentazione dei giudicati, e cioè la necessità di considerare autonomamente gli accertamenti relativi a ciascun periodo d’imposta. Le esigenze di effettività del diritto dell’Unione avrebbero pertanto potuto essere soddisfatte con la semplice preferenza, tra i diversi risultati ermeneutici emersi nella giurisprudenza di legittimità, di quello che avrebbe impedito l’indefinito ripetersi di identiche violazioni del diritto UE.

Un terzo caso rispetto al quale autorevole dottrina ha sostenuto l’inutilità ed erroneità del rinvio pregiudiziale è Lucchini299. Il Consiglio di Stato, in particolare, avrebbe dovuto annullare la pronunzia del TAR Lazio300 in ragione del semplice fatto che si trattava di un’ipotesi di annullamento d’ufficio doveroso301. Ciò in quanto la questione da dirimere non sarebbe

caso sottoposto al suo scrutinio, rilevando che essi “consacrano l’esigenza che tutti gli organi

dello Stato, a cominciare da quelli giurisdizionali, si adoperino, nei limiti delle rispettive competenze, al fine di evitare il consolidamento di una violazione del diritto comunitario. Tale preminente esigenza di conformità al diritto comunitario certamente rileva anche in sede di ottemperanza, essendo dovere del giudice dell’ottemperanza interpretare la sentenza portata ad esecuzione e delinearne la portata dispositiva e conformativa evitando di desumere da esse regole contrastanti con il diritto comunitario”. La conseguenza è quindi

quella di “funzionalizzare” istituti tipici del diritto processuale amministrativo. In particolare, “la dinamicità e la relativa flessibilità che spesso caratterizza il giudicato amministrativo

nel costante dialogo che esso instaura con il successivo esercizio del potere amministrativo permettono al giudice dell’ottemperanza – nell’ambito di quell’attività in cui si sostanzia l’istituto del giudicato a formazione progressiva – non solo di completare il giudicato con nuove statuizioni «integrative», ma anche di specificarne la portata e gli effetti al fine di impedire il consolidamento di effetti irreversibili contrari al diritto sovranazionale”. Ne

deriva che “il giudizio di ottemperanza può rappresentate in quest’ottica una opportunità

ulteriore offerta dal sistema processuale anche per evitare che dal giudicato possano trarsi conseguenze anticomunitarie che darebbero vita a quei «casi estremi» in cui, richiamando gli insegnamenti delle Sezioni Unite, la sentenza diventa «abnorme» e supera i limiti esterni del potere giurisdizionale”.

298 Caso Fallimento Olimpiclub, cit. Anche in questo caso si rinvia supra al par. 2.1.3 per una

descrizione della fattispecie e del contenzioso che ne è derivato sul piano interno e sovranazionale.

299 D.U. GALETTA, L’autonomia procedurale degli Stati membri, cit., 105 s. Al caso Lucchini,

cit., è dedicato il par. 3.1.

300 Che aveva accolto il ricorso della società avverso il provvedimento con cui si chiedeva la

restituzione dell’aiuto erogato.

301 Rileva peraltro l’Autrice che in questo senso si era già espresso, in una fattispecie analoga,

stata tanto quella di verificare se il giudicato civile nazionale potesse rendere giuridicamente impossibile il recupero dell’aiuto. Quanto, piuttosto, se il giudicato formatosi nel processo civile, sulla base di una sentenza della Corte d’appello nazionale adottata in spregio totale degli obblighi sovranazionali, fosse opponibile dallo Stato italiano all’Unione europea.

Questi casi dimostrano la grande rilevanza che deve essere attribuita al momento della formulazione del quesito pregiudiziale da parte del giudice nazionale. Quest’ultimo, in particolare, dovrebbe prediligere, per quanto possibile, soluzioni fondate sul diritto processuale interno, eventualmente interpretato in chiave adeguatrice, anziché esacerbare il contrasto con il diritto dell’Unione, prospettando questioni il cui impatto sul sistema processuale è difficilmente preventivabile.

Occorre adesso volgere l’attenzione al momento dell’implementazione della regola contenuta nella sentenza pregiudiziale. A tal proposito presentano rilievo costituzionale, in particolare, due aspetti problematici. Il primo attiene alla possibile discriminazione alla rovescia nei confronti dei titolari di diritti di origine puramente interna, rispetto a coloro che, invece, vantano posizioni di vantaggio che derivano da norme sovranazionali assistite dall’effetto utile. La linea di confine tra certezza e legalità propria del sistema processuale in generale e, in particolare, della disciplina sulla formazione del giudicato finirebbe con l’essere tracciata in un punto diverso per i primi rispetto ai secondi, con conseguenze che non appaiono trascurabili in termini di eguaglianza di trattamento e diritto di difesa. In una fattispecie cui può essere riconosciuta una qualche assonanza con il tema in esame, perché relativa a norma lato sensu procedurale, ancorché non processuale, le Sezioni Unite hanno invocato l’intervento del legislatore per il superamento della duplicità del regime giuridico dei tributi “armonizzati” e di quelli “non armonizzati”, in tema di contraddittorio endoprocedimentale in campo tributario302. Si trattava di un caso in cui la diversità di regime giuridico non poteva trovare composizione in via interpretativa, in ragione di un quadro normativo nazionale univocamente interpretabile nel senso opposto e, cioè,

nel senso dell’inesistenza di una clausola generale di contraddittorio endoprocessuale. Nell’ambito della disciplina sull’estensione del giudicato, invece, pare esservi spazio per un riallineamento del regime giuridico tra le posizioni di origine puramente interne e quelle di origine sovranazionale. Un esempio potrebbe essere dato proprio dalla frammentazione del giudicato tributario, opzione ermeneutica indifferentemente praticabile per i tributi “armonizzati” e “non armonizzati”303.

Il secondo profilo di interesse concerne il rifiuto, più o meno esplicito, di dare attuazione alle indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia e le forme che esso dovrebbe invece assumere per essere costituzionalmente legittimo (ancorché sempre illegittimo dal punto di vista del diritto dell’Unione). Il caso più eclatante può essere rinvenuto nel seguito interno della sent. Lucchini304. Come si ricorderà, la questione pregiudiziale era stata sollevata dal Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi in secondo grado sull’impugnazione del provvedimento emanano in autotutela per il recupero dell’aiuto di Stato. Nelle more del procedimento pregiudiziale, le Sezioni Unite della Corte di cassazione erano state adite con ricorso per motivi di giurisdizione, risolto nel senso della declaratoria di giurisdizione del giudice ordinario305.

La Corte di cassazione, in particolare, osserva che, nel caso in esame, “la pretesa della pubblica amministrazione di procedere alla revoca del contributo concesso è basata sì su un asserito vizio originario della concessione, erogata in violazione di un precetto comunitario (e di espresse decisioni della Commissione CECA e poi della Commissione CEE), ma non

303 La giurisprudenza della Corte di cassazione successiva alla sent. Fallimento Olimpiclub,

cit., è andata invece nel senso opposto. Il principio dell’estensione del giudicato anche sul contenzioso relativo a diverso anno fiscale è tenuto fermo come principio generale. La limitazione posta dalla Corte di giustizia è invece ricostruita come eccezione, peraltro riferita non a qualsiasi tributo “armonizzato”, ma soltanto all’IVA, oggetto della fattispecie concreta all’origine della sentenza Fallimento Olimpiclub; cfr., ex multis, sentt. Cass. civ., Sez. V, 25 marzo 2015, n. 5947, 11 marzo 2015, n. 4832, 26 gennaio 2015, n. 1293.

304 Sent. Lucchini, cit.

305 Sent. Cass. civ., Sez. Un., 19 maggio 2008, n. 12641. Conseguentemente il Consiglio di

Stato, tornato ad occuparsi della questione dopo la pubblicazione della sentenza della Corte di giustizia resa in sede di rinvio pregiudiziale, dichiarava il difetto di giurisdizione e rimetteva le parti innanzi il tribunale civile territorialmente competente; cfr. Cons. St., Sez. VI, 8 giugno 2009, n. 3464.

è espressione dell’esercizio di un potere di autotutela ispirato da un discrezionale apprezzamento del pubblico interesse. Essa, viceversa, muove dal presupposto che la revoca del contributo sia un atto cui la medesima pubblica amministrazione è tenuta, in adempimento degli obblighi comunitari che lo Stato italiano è vincolato ad osservare”.

Poiché la p.A. agisce in adempimento di un preciso dovere sovranazionale ed esercita “un diritto vantato dalla Comunità, quasi in veste di longa manus di quest’ultima”, la controversia non attiene alla legittimità dei modi di esercizio di un pubblico potere, bensì all’“esistenza stessa di tale potere (anzi: potere-dovere), in presenza di una posizione del privato consacrata da un precedente giudicato”.

L’esistenza di un giudicato, da una parte, ed i vincoli derivanti dal diritto UE, dall’altra, escludono radicalmente che possa configurasi un qualche margine di discrezionalità nell’esercizio del potere amministrativo di revoca del finanziamento. Di qui la giurisdizione del giudice ordinario.

Il giudizio è stato quindi riassunto innanzi il Tribunale Civile di Roma. Si è sottolineata nel par. 3.1 la chiarezza (e forse anche la durezza) con cui la Corte di giustizia ha imposto il recupero dell’aiuto di Stato illegittimamente erogato, anche a costo della disapplicazione dell’art. 2909 cod. civ. Si sono anche ricordati lo scalpore che la sentenza ha provocato nella dottrina e la sua forte eco nel dibattito scientifico. Desta grande sorpresa, quindi, che con una motivazione scarna e priva di riferimenti all’apparato argomentativo speso dalla Corte di giustizia306, il Tribunale di Roma, con sent. Sez. II, 23 marzo 2011, n. 6039, abbia semplicemente negato la possibilità che l’accertamento contenuto nel giudicato potesse essere messo in discussione con il provvedimento di recupero del finanziamento, dichiarando il diritto della società “di incamerare in contributo riscosso”307.

306 Per la verità, il Tribunale di Roma non cita neanche gli estremi della sentenza. In maniera

quanto meno semplicistica si limita a ricordare che il Consiglio di Stato aveva rimesso la questione davanti alla Corte di Giustizia, “chiedendole se il diritto comunitario prevalga o meno anche sul giudicato”, e che la Corte di giustizia aveva affermato “che il diritto comunitario prevale anche sul giudicato”.

307 La sentenza è stata impugnata dal Ministero dello Sviluppo Economico e il giudizio pende

attualmente innanzi la Corte d’appello di Roma con R.g. n. 2779/2012. L’udienza per la precisazione delle conclusioni è fissata per il l 2 maggio 2018.

Il Tribunale, invero, si limita a osservare che la primauté del diritto UE stabilisce un rapporto tra fonti e opera pertanto “nella creazione ed applicazione del diritto”. Diversamente, essa non potrebbe essere invocata per disattendere un giudicato, posto che quest’ultimo impedisce di mettere in discussione “non solo le decisioni sbagliate secondo il diritto interno, ma