• Non ci sono risultati.

I temi comuni: le istituzioni e il pubblico sul

CAPITOLO 3 IONESCO E MOLIÈRE: DUE IMPROMPTUS A

3.4 Impromptus a confronto

3.4.2 I temi comuni: le istituzioni e il pubblico sul

Kowzan, nella propria analisi sugli impromptus, mette a confronto quelli che definisce come i temi fondamentali della drammaturgia che uniscono, o differenziano, fra loro questi

impromptus, rendendoli unici rispetto alla miriade di altri impromptus comparsi nei secoli.

Innanzitutto vanno analizzate e differenziate le concezioni del ruolo dell'autore fra Molière e Ionesco, e, conseguentemente, le rispettive intenzioni artistiche.

Gli sforzi di Molière, ad esempio, in quanto autore comico del XVII secolo, sono soprattutto volti a difendere la commedia come genere, considerata, all'epoca, di valore inferiore rispetto alla tragedia, genere “nobile” di cui specialisti sulla scena erano gli attori avversari dell'Hôtel de Bourgogne.

È chiaro che in questo senso siamo, quindi, di fronte ad un teatro più didattico, il quale, con una forma di morale finale, cerca di raggiungere uno scopo preciso, esprimendo i valori e le posizioni dell'autore, opponendoli alla corrente opposta.

Per Ionesco, invece, così come per Giraudoux, i problemi sono diversi. Questi due, autori del Novecento, infatti, si pongono assolutamente contro ogni forma di teatro istruttivo, “didattico”, e si schierano, al contrario, dalla parte di quello che possiamo definire un teatro “d'immaginazione”. Come spiegherà efficacemente il personaggio di Renoir ne L'impromptu de Paris di Giraudoux, infatti: “il vero pubblico non comprende, sente […] quelli che vogliono comprendere a teatro sono quelli che non comprendono affatto il teatro”280.

Al teatro “scientifico” proposto dai Bartolomei, dunque, entrambi i drammaturghi novecenteschi, e Ionesco in particolare, oppongono un teatro “poetico”.

Allo stesso modo sia Giraudoux che Ionesco, chiaramente, si schierano contro il naturalismo e il verismo della messa in scena seicentesca di Molière, come abbiamo potuto approfonditamente osservare con la parodia del “realismo stilizzato” ne L'impromptu di Ionesco.

Da qui nasce spontanea la riflessione sul diverso rapporto che questi autori dovevano avere con il proprio contesto storico e sociale e, di conseguenza, la loro posizione nei confronti dell'istituzione.

Per quanto riguarda Molière, committente e principale destinatario dell'opera era il Re Sole in persona, il giovane Luigi XIV, che, salito al trono nel 1661, all'epoca aveva solo venticinque anni. Noto per aver trasformato, durante il proprio regno, la corte reale nel centro dell'intensissima vita culturale francese dell'epoca, Luigi XIV iniziò un patrocinio sulle arti, ponendosi come unico mecenate ed elargendo pensioni ad artisti e letterati.

Il re era dunque anche il mecenate e protettore dell'autore, il quale godette particolarmente delle attenzioni e delle protezioni del sovrano, senza le quali, tra l'altro,

sarebbe stato difficile sfuggire alle dure censure dell'epoca; il che significa, in sintesi, che lo stato, per Molière, era tutto rappresentato nella persona fisica del Re Sole.

Questo dato ha certamente un'importanza notevole, da non sottovalutare, nell'analisi del dramma seicentesco, e ne aiuta a chiarire la direzione precisa e gli intenti.

Non è un caso, dunque, che nell'opera di Molière, nonostante non venga inserita la presenza fisica del re sulla scena, il sovrano sia un personaggio costantemente atteso, di cui si parla sin dall'inizio dell'opera, e dunque, in qualche modo, sempre presente.

Alla luce di ciò, non ci deve sorprendere, dunque, il lungo monologo a lui dedicato dall'autore nella prima scena dell'opera, in risposta alle parole di Mademoiselle de Brie, la quale osa insinuare che l'autore avrebbe dovuto rifiutare la proposta del re.

Da questa risposta si possono comprendere le dinamiche sociali di corte che incidono marcatamente sulla rappresentazione teatrale dell'epoca:

Mademoiselle De Brie: […]. Dovevate scusarvi con il re, con tutto il rispetto; oppure, domandare un tempo maggiore.

Molière: Dio mio, signorina: se c'è una cosa che i re amano, è l'obbedienza pronta, se ce n'è una che gli dispiace, è imbattersi in obiezioni. […]. In quello ch'essi desiderano da noi, non dobbiamo mai curarci di noi stessi. Siam qui soltanto per il piacere loro, e quando ci ordinano qualcosa, tocca a noi cogliere al volo l'occasione. Meglio far peggio quanto ci chiedono, che non farlo abbastanza presto; e se ci tocca la vergogna di non esser riusciti, ci tocca pur sempre la gloria d'esser stati svelti ad obbedire al loro comando281.

Mostrando al sovrano un regista alle prese con i suoi attori indisciplinati, sembra che Molière qui voglia come strizzare l'occhio al proprio protettore, e tramite la messa in scena del proprio microcosmo, alluda in qualche modo alla propria condizione di regista come ad uno specchio della condizione del re stesso, regista e ordinatore per eccellenza282.

Un'esibita captatio benevolentiae all'interno delle opere dedicate ai sovrani era sicuramente di prassi all'epoca di Molière, ma è anche vero che, uno studioso di Molière come Kowzan, non può non rimanere con il dubbio che vi sia in queste parole anche un qualche grado di ironia283.

Certo, se c'è dell'ironia, è sicuramente sottile, dati i vari esempi che la storia ci ha lasciato di tali spropositate piaggerie, ma forse Molière, proprio per questo, può permettersi di giocare con tale registro adulatorio senza destare sospetti con le sue

281 Molière, L'Impromptu de Versailles, cit., p. 431.

282 Marc Fumaroli, Microcosme comique et macrocosme solaire. Molière, Louis XIV e L'Impromptu de

Versailles, in «Revue des sciences humaines», n. 45, gennaio-marzo 1972, p. 111.

esagerazioni, e, allo stesso tempo, accennando un occhiolino ad un pubblico attento, ma senza troppo esporsi, e mostrare, allo stesso tempo, gli scomodi compromessi e le difficoltà della propria posizione, del proprio ruolo di favorito e protetto del re.

Detto ciò, è però chiaro da L'impromptu de Versailles come Molière riconosca il ruolo essenziale del sovrano nel rendere possibile il proprio teatro.

La situazione è evidentemente diversa per Giraudoux e Ionesco, tre secoli dopo.

Neanche nell'opera novecentesca di Ionesco lo stato viene esplicitamente menzionato, eppure, è sempre possibile scorgerlo in filigrana. Soprattutto quando i tre critici espongono l'idea di un teatro normato fatto di “classi serali”, nel quale si danno giudizi e voti, dove gli spettatori saranno obbligati a vedere la stessa opera varie volte per poi essere interrogati, implicando, dunque, la presenza di un potere normativo che opera da dietro le quinte.

È chiaro che questa parodica esagerazione su una tale visione del teatro, messa in ridicolo dall'autore, non può non comportare comunque una riflessione sulla presenza di un organo necessario nella società che permetta la presenza di tale teatro, e che, quindi, peserà anche sulla scelta delle opere da rappresentare, guidando e condizionando il gusto del pubblico.

Sul valore dei gusti e del giudizio del pubblico nei confronti dell'opera teatrale, Ionesco si esprime nella commedia attraverso le parole del proprio personaggio che, spaventato dalle vessanti domande inquisitorie dei critici, propone, citando proprio Molière come esempio, una frase esplicativa del proprio modo di vedere il ruolo del pubblico nella realizzazione di un'opera; un ruolo assolutamente centrale, forse addirittura l'unico elemento capace di rivelare il valore di un autore e di un'epoca, evidentemente superiore, quindi, rispetto a qualsiasi giudizio derivato dai vari schieramenti della critica contemporanea. Così, infatti, rispondeva, Ionesco ai tre professori: “credevo che Moliére fosse universalmente, eternamente di valore, poiché piace ancora”.

Il gusto del pubblico dunque, viene considerato come unico termine di giudizio, come specchio diretto, prima reazione istintiva, e quindi più vera, più sincera, rispetto a quella mediata della critica che, a seconda della fazione da essa rappresentata, si pone come seguace delle mode del tempo, delle direttive vigenti, ed è quindi sottoposta alle regole e alle leggi dello stato sociale.

In conclusione, con L’impromptu de l'Alma siamo di fronte ad un'opera autoreferenziale, che costituirà forse un'“eccezione” per il teatro dell'assurdo, ma, come abbiamo visto, non per la categoria dell'impromptu.

Sulla scia di Molière, dunque, anche Ionesco, utilizza la tecnica dell'improvvisazione teatrale come escamotage per rispondere ai propri critici, così come l'illustre modello seicentesco, ma, motivo totalmente originale, anche per intavolare una vera e propria “lezione” di poetica, attraverso la messa in scena dell'antipoetica dei tre dottori, e poi attraverso il suo lungo e ambiguo monologo conclusivo. Una poetica che si porrà totalmente in opposizione alle mode brechtiane dell'epoca.

Il rapporto con la critica, dunque, ma anche con il giudizio del pubblico, i suoi gusti e le sue reazioni, risultano preponderanti; se Molière anelava ad una critica seria e competente che si concentrasse solo sul lavoro scenico dell'autore e della sua troupe, e non sui piccanti retroscena della vita privata dei singoli individui, Ionesco si batte per una critica che sia pura, libera, che riporti solo dei giudizi su ciò che ha visto, senza dettare delle leggi, senza essere, dunque, normativa, ma solamente descrittiva, lasciando spazio invece al giudizio del pubblico, ai suoi gusti, tema preponderante in tutta la sua opera.

CONCLUSIONI

L'analisi del Macbett e de L'impromptu de l'Alma mi ha offerto la possibilità di esplorare e di poter apprezzare profondamente due opere decisamente particolari e, sicuramente, d'"eccezione" all’interno del panorama ioneschiano.

Con il loro indissolubile legame a due grandi modelli classici, Shakespeare e Molière, queste pièce si confrontano, infatti, con il contesto storico in cui nascono e si sviluppano, ma anche, allo stesso tempo, con i loro grandi antenati, dai quali ricalcano – giocando con essi – le tematiche, la struttura, e le modalità di sviluppo del comico, di volta in volta riprese, innovate, o ribaltate.

Il confronto con tali modelli risulta un esperimento, dunque, certamente inusuale nella produzione e nella modalità creativa di Ionesco, ma che si è rivelato particolarmente utile ed esplicativo nel mostrarci i principali elementi poetici che stanno a cuore all'autore, la sua visione del mondo e del teatro.

Trovo, infatti, decisamente peculiare e di notevole interesse questo dichiarato omaggio che Ionesco fa alla tradizione, all'interno del contesto di un'avanguardia di rottura come quella del nouveau théâtre, in cui il drammaturgo si inserisce, comunque, a pieno titolo.

È, dunque, un talento non comune quello dimostrato dal nostro autore: il sapere collocare le proprie opere, di forte rottura e novità, pur sempre in un panorama più ampio, che sfida i secoli e le epoche storiche.

Il modo in cui Ionesco riesce ad inserire il passato nel presente e, si può dire, parafrasando il titolo della sua opera, il presente nel passato, lo rende, dunque, autore di un teatro d'avanguardia particolare, che mette in scena un comico assurdo, dissacrante, e

nonsense, ma che rimane pur sempre figlio della grande letteratura classica.

È grazie a questa sublime attitudine che Ionesco riesce dunque a riportarci, ad esempio, sulla scena di una Francia dell'era della società di massa, negli anni Settanta del secolo scorso, un personaggio come Macbeth, il tragico eroe scozzese che ha riempito intere biblioteche con studi dedicati alla sua figura controversa, e riuscire a farlo sentire comunque – allora come oggi – estremamente vicino al suo pubblico, vicino all'uomo moderno, perché vicino all'Uomo, nella sua essenza, senza tempo.

Ionesco cerca di esprimere, in definitiva – come scriverà più volte egli stesso – le proprie idee, i propri sogni, le proprie fantasie, senza alcuna limitazione impostagli dai rigidi sistemi di pensiero esterni che reggono la società moderna, ma nella modalità che più risponde al proprio essere, al proprio profondo modo di sentire umano, senza lasciarsi mai condizionare né limitare, dunque, dall'epoca storica nella quale è contestualmente inserito.

La presente tesi si sofferma su come esplicativo ed esemplare per tracciare una poetica dell'autore è stato anche il nutrito dibattito aperto attorno a Ionesco da parte della critica proveniente da vari orientamenti, di destra come di sinistra.

Ionesco si distanzia, infatti, sia dal canonico teatro di moda all'epoca, il teatro di intrattenimento, o 'teatro del boulevard' sia dalla corrente più socialmente attiva, che aspirava ad un teatro socialmente impegnato, politico, di ispirazione marxista.

In definitiva, Ionesco se si inserisce a pieno titolo fra i più grandi esponenti del nascente 'teatro dell'assurdo' europeo – secondo la definizione che ne diede Martin Esslin – mantiene, anche, però, sempre ed inevitabilmente, una sua peculiare componente di romenità che lo distinguerà dai colleghi “occidentali”.

Come abbiamo cercato di mettere in luce, infatti, le origini romene, ma anche le radici ebraiche, segnarono profondamente l'animo del drammaturgo, dando vita nelle proprie commedie ad una sua originale forma di comico; un comico ambiguo che sembra voler esser “preso sul serio”.

Dopotutto, come sottolinea non troppo ironicamente Ionesco, le sue commedie “qualche volta, signora, fanno piangere la gente più delle tragedie”284.

Dopo ben quattro secoli, infatti, Ionesco con il suo Macbett metterà in scena una “parodia seria” del Macbeth di Shakespeare, passando per l'Ubu Roi, il rifacimento di Alfred Jarry, e riadattandolo secondo i caratteri propri del 'teatro dell'assurdo'.

Nonostante la trama e i personaggi rimangano, a grandi linee, abbastanza fedeli al grande dramma shakespeariano, varie sono le modifiche strutturali e concettuali, dovute ad un contesto storico di realizzazione molto diverso, ma molte sono ancora le coincidenze tematiche che avvicinano Ionesco all'autore vittoriano, tanto da farne un degno “epigone”.

Abbiamo riconosciuto e messo in luce, in entrambi gli autori, il profondo interesse per la natura umana, anche nella sua componente più istintuale e violenta, sulla quale sembra proprio fondarsi ogni agire umano. Difatti, Ionesco individua e descrive il circolo di

284 Eugène Ionesco, Impromptu pour la duchesse De Windsor, ms, pp. 6-7, citato in Martin Esslin, Il teatro

violenza che da qui va attivandosi e che nasce da quella potente spinta umana al potere, quella “libido dominandi” – come la definisce l'autore – riconosciuta e poi canonizzata nella rinomata definizione nietzschiana “volontà di potenza”.

E non sembra quindi un caso che, con una semplice ma sottile modifica ortografica, il nome del protagonista, Macbett, finisca per rimandare al termine 'bête' francese, evocando così subito la bestialità del protagonista (Donatella Abbate Badin).

Ma mentre in Shakespeare questa circolarità angosciante sembra spezzarsi nel finale, con l'ascesa del nuovo re al potere e dunque con la vittoria del Bene sul Male, simboleggiato da Macbeth, in Ionesco questo non avviene. Anzi, è proprio quest'infinita dinamica circolare e ripetitiva a reggere, dall'inizio alla fine, quest'opera ambigua, portando ad una rappresentazione della vita come un vero e proprio circolo vizioso senza uscita, un tema caro all'autore, spesso riproposto nei propri lavori.

La tesi dimostra come di questa concezione dell'esistenza si può trovare conferma anche nelle scelte scenografiche attuate da Ionesco, il quale allontana i suoi personaggi dall'originale ambientazione scozzese del cinquecentesco Macbeth, lasciandoli fluttuare in un non-spazio senza tempo, affidando i cambiamenti temporali, su una scena brulla e arida, riempita a questo punto solo dagli attori, a puri giochi di luce e di suoni.

È stato poi messo in luce come comune ai due autori è anche l'interesse e il continuo gioco con la linea sottile che separa ciò che consideriamo il mondo reale dal mondo del fantastico, il regno dell'immaginazione e del sogno; tema indubbiamente e notoriamente cardinale per l'autore vittoriano, che viene accolto e condiviso a pieno da Ionesco, il quale ama indagare nella zona grigia, sfumata, che vive fra l'universo concreto, tangibile della vita, e quello messo in scena dall'immaginazione creativa.

Per quanto riguarda l'utilizzo di figure comiche tipizzate, è stata poi evidenziato come la figura stereotipata del 'Fool' per riportare un messaggio fondamentale ma camuffato dietro a una parodia sia un altro escamotage che Ionesco condivide con il grande drammaturgo cinquecentesco. E difatti, paradossalmente, sarà proprio il passaggio di un buffo cacciatore di farfalle in un campo di battaglia straziato dalle grida dei soldati e dai rumori della guerra a concludere la scena finale del Macbett.

Così Eugène Ionesco, appellato negli anni come il “clown tragico”, lo “Shakespeare dell’assurdo”, con il suo rifacimento del Macbeth riesce a mostrare perfettamente come,

anche dopo secoli, sotto molti punti di vista, si possa ancora ritrovare in Shakespeare “un nostro contemporaneo”, per citare il titolo del famoso libro di Jan Kott.

Passando al secondo testo drammaturgico fatto oggetto della presente analisi, occorre rilevare come con L’impromptu de l'Alma, invece, siamo di fronte ad un'altra tipologia drammatica di rilettura di un modello precedente.

L'impromptu è, infatti, un'opera autoreferenziale, che parla del teatro, e dunque di se stessa; la rivisitazione, quindi, qui interessa il tema fondante, la modalità metateatrale, più che la trama vera e propria, difatti molto differente.

Entrambe le pièce, infatti, si appoggiano su una struttura a matrioska, in cui l'azione centrale della commedia rappresentata è proprio la stesura e la realizzazione di una commedia, scritta dallo stesso autore; un'opera autoreferenziale, quindi, che costituirà forse un'“eccezione” tra la produzione del 'teatro dell'assurdo', ma, come abbiamo visto, non per la categoria dell'impromptu.

Sulla scia di Molière, anche Ionesco utilizzerà la tecnica dell'impromptu, dell'illusoria improvvisazione teatrale, come espediente per rispondere alle accuse dei propri accaniti critici.

Ma se Molière, nel XVII secolo, anelava ad una critica seria e competente che si concentrasse solo sul lavoro scenico dell'autore e della sua troupe, e non sui piccanti retroscena della vita privata dei singoli individui, Ionesco si batte per una critica che si presenti come pura, libera, e che riporti solo dei giudizi su ciò che ha visto, senza dettare delle leggi univoche e universali, senza essere, dunque, normativa, ma solamente descrittiva, lasciando così spazio, invece, al giudizio del pubblico, ai suoi gusti, e alle sue necessità.

Eppure, mentre in Molière della critica si sente solo parlare (anche se l'autore non rinuncia a fare addirittura nome e cognome del proprio aggressore) in Ionesco, andando oltre e superando il proprio modello, i critici appaiano effettivamente sulla scena, anche se vestiti dei panni di tre professori arroganti e ridicoli che rappresentano, evidentemente, parodiandoli, i maggiori esponenti della critica avversaria, soprattutto la corrente in voga del disimpegnato 'teatro del boulevard', e quella sostenitrice del nuovo autore tedesco Bertolt Brecht.

Ma il motivo veramente topico, centrale, che Ionesco riprende da Molière, sarà quello di intavolare sul palcoscenico una vera e propria “lezione”, dando voce alla propria poetica, prima attraverso la messa in scena dell'antipoetica dei tre dottori, e poi, di nuovo, con un lungo e ambiguo monologo conclusivo, finendo per fare de L'impromptu una specie di opera-manifesto.

Lo stesso era già avvenuto in Molière, anche se l'autore seicentesco aveva affidato a un altro personaggio – e non al Molière presente sulla scena – l'esposizione delle proprie riflessioni artistiche.

Il rapporto con la critica, dunque, risulta sempre preponderante per gli autori, ma in Ionesco non predomina certo, come abbiamo visto, sull'interesse per il giudizio espresso dal pubblico, per i suoi gusti e le sue reazioni.

In questo lavoro di tesi sono state dunque presentate due opere che rileggono due autori precedenti; la prima, il Macbett, in maniera manifesta e subito dichiarata nel titolo, nella ripresa della trama e nei nomi dei personaggi, mentre la seconda, L'impromptu de l'Alma, si rifà al grande autore seicentesco con omaggi e allusioni – a partire anche qui da quella nel titolo – ma senza ricalcarne la dinamica e i contenuti specifici della trama.

Abbiamo osservato come da queste due opere particolari e notevolissime si ricavino facilmente le posizioni di Ionesco sul proprio teatro, e sullo sviluppo del suo processo creativo, delineando al proprio interno – dichiaratamente ed esplicitamente con

L'impromptu dell'Alma, e più metaforicamente e suggestivamente nel Macbett – dei veri e