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CAPITOLO 1 EUGÈNE IONESCO: LE PREMESSE

1.5 Un comico ambiguo

Anche quella che possiamo definire come una specie di seconda fase di Ionesco (da

l'Impromptu de l’Alma, del 1955, con l'introduzione sulla scena del suo primo

personaggio/alter-ego: monsieur Berenger), una fase più “seria” o almeno più fruibile e comprensibile, rimane sempre all'insegna di un comico grottesco. Nell'Impromptu pour la

duchesse de Windsor, quando la padrona di casa chiede a Ionesco di non rappresentare 82 Lettera di Eugen Ionescu, datata 7 gennaio 1946 e spedita a Petru Comarnescu, citata in Giovanni

Rotiroti, Il segreto interdetto, cit., p.7.

“un'opera triste, uno di quei drammi moderni tipo Beckett o Sofocle che fanno piangere la gente”, Ionesco risponde: “qualche volta, signora, le commedie fanno piangere la gente più delle tragedie... per lo meno le commedie che scrivo io. Quando voglio scrivere una tragedia, li faccio ridere, quando voglio scrivere una commedia li faccio piangere”84.

Le ambiguità e le sofferenze del paese natale quindi non influenzano solo le prime opere dello scrittore ma, come abbiamo cercato di delineare, anche l'età più matura e, in definitiva, tutta la vita dell'autore. Protagonisti rimangono sempre i grandi temi metafisici, esistenziali, legati anche a quell'incompleta identità ebraico-romena, e alla costante ricerca del Senso Assoluto; una ricerca eterna, in solitaria, e destinata, per l'umana natura, al fallimento.

Tuttavia l'incomunicabilità che ne scaturisce non è totale nelle opere di Ionesco, il drammaturgo forse intravede una via di salvezza. Una timida “soluzione” può essere infatti intravista nella perpetua e instancabile patina di umorismo che vela ognuna delle sue messe in scena. Un umorismo che non è concepito solo come una repentina e amara risata, quasi automatica, di difesa, di fronte alla constatazione dell'inesorabile incertezza della vita, ma come la possibilità di un reale momento di liberazione. Forse addirittura il mezzo più profondo per prendere coscienza dello status tragicomico della vita umana:

L'umorismo permette di prendere coscienza, con libera lucidità, della considerazione tragica o ridicola dell'uomo; […] esso non è solamente l'unica visione critica valida, non è solo lo spirito critico stesso, ma – contrariamente alla evasione, alla fuga prodotta dalla rigidità del sistema che, sotto il nome di «realismo», ci trascina in gelide fantasticherie, fuori da ogni realtà – l'umorismo è l'unica possibilità che abbiamo di staccarci – ma solo dopo averla superata, assimilata, conosciuta – dalla nostra condizione umana comico-tragica e dalle difficoltà dell'esistenza. Prendere coscienza di ciò che è atroce e riderne significa diventare padroni di ciò che è atroce [...] la logica si rivela nell'illogicità dell'assurdo di cui ha preso coscienza; il riso è il solo a non rispettare alcun tabù; a non permettere che si stabiliscano nuovi tabù antitabù; il comico è il solo in grado di darci la forza di sopportare la tragedia dell'esistenza. La natura autentica delle cose, la verità, può esserci rivelata solo dalla fantasia più realista di tutti i realismi85.

Se infatti l'uomo, per Ionesco, è solo il «buffone di Dio», allora il mezzo comico non è che «l'intuizione dell'assurdo», il momento della caduta del velo, uno sguardo cosciente e allo stesso tempo leggero alla spiazzante insensatezza dell'esistenza. L'umorismo è per Ionesco, quindi, componente fondante della propria creazione. Un umorismo che si fonda, però, poco sulla parola nel suo significato letterale, sul linguaggio in senso stretto; su

84 Eugène Ionesco, Impromptu pour la duchesse De Windsor, ms, pp. 6-7, citato in Martin Esslin, Il teatro

dell'assurdo, cit., p.168.

questo piano, infatti, il teatro non può certo aspirare a competere con quelle espressioni umane che crescono proprio intorno al linguaggio logico-verbale, quali la dissertazione filosofica, il romanzo o la poesia. La parola infatti viene qui usata in tutto altro modo, in un modo teatrale, e condotta “al parossismo, per dare al teatro la sua vera misura che è una dismisura; la parola stessa deve essere spinta fino alle sue estreme possibilità, il linguaggio deve quasi esplodere, o distruggersi, nella impossibilità di contenere i significati”86.

Su questa linea Ionesco si colloca, quindi, agli antipodi del teatro naturalista, considerato immobile e conformista nel suo riprodurre il mondo fisico e i suoi linguaggi consueti, senza mettere nulla in discussione. Per Ionesco invece l'immaginazione è eletta come protagonista assoluta delle proprie opere, al di sopra di ogni altra forma di realtà. Emblema massimo di libertà, la fantasia creatrice è quindi considerata l'unica atta a poter esprimere una verità spontanea.

Nonostante la forte presenza di oggetti, di cose accumulate sulle scene ioneschiane possa essere interpretata come la manifestazione di una vittoria della materia pura e bruta sulla creazione intangibile del pensiero, una “vittoria delle forze antispirituali, di tutto quello contro cui ci dibattiamo”87, se ne può anche individuare, al contrario, una lettura opposta, decisamente antitetica.

Secondo il critico Sergio Torresani, infatti, “l'invasione delle cose” rappresenta per Ionesco lo spunto per ricordare al pubblico l'esistenza della complementarità opposta, esprimendo un “felice sintomo dell'altra presenza”88. A permettere questo ribaltamento paradossale qui è proprio l'umorismo che, allontanando la soffocante pesantezza della materia, riesce a dare sollievo, liberazione, salvezza, attraverso l'uso assurdo di un linguaggio libero, leggero, appunto, perché svincolato da ogni regola. In una parola permette quasi una forma di catarsi.

Un umorismo inteso dunque come “capacità umana di opporsi alla banalità, alla meschinità, all'idiozia, al peso bruto della materia, dell'angoscia, e di liberarsene”89, conclude Torresani. Infatti accanto ad una pesantezza angosciante, nelle opere di Ionesco, è sempre innegabilmente presente anche un opposto senso di leggerezza. Come spiega l'autore durante un’intervista:

86 Ivi, p. 31. 87 Ivi, p. 156. 88 Ibidem.

L'angoscia si trasforma improvvisamente in libertà; più nulla ha importanza se non lo stupore di esistere, la nuova sorprendente coscienza della nostra esistenza in una luce d'aurora, nella libertà ritrovata; siamo stupiti di esistere in un mondo che ci sembra illusorio, fittizio […] Senza dubbio, tale stato di coscienza è molto raro, la felicità, lo stupore di essere in un universo che non mi tiene prigioniero, che non esiste più, che non ha più consistenza90.

La patina comica in Ionesco è quindi un elemento focale, un meccanismo che si attiva dalla messa in scena di una situazione totalmente assurda, ridicola, priva di qualsiasi senso, anche solo di facciata, ma al tempo stesso nutrita di un'illogicità talmente pura da costringere lo spettatore ad un inevitabile esplosione di risa. La rilassatezza logica dei giochi di parole, dei nonsense gratuiti portano infatti il pubblico, di digressione in digressione, a perdersi nelle assurde e rocambolesche conversazioni inverosimili dei personaggi. Ad esempio, ne La cantatrice calva, i coniugi Smith non ci fanno ridere perché sono dei poveri sciocchi, ma perché, nella loro idiozia, sono anche i rappresentati di un senso comune più generico, che ci fa sentire lontani dalle loro folli peregrinazioni mentali.

Questo gioco puro con il suono e l'illogicità delle parole, questa naturalezza nel rivelare l'insita illogicità nella conversazione borghese, distingue Ionesco da altre avanguardie come quella dei Dada o dei Surrealisti che intendevano invece il discorso assurdo come una possibile, realistica, alternativa al discorso comune.

Come il filosofo Heidegger – nota il professor Stefano Brugnolo – Ionesco si scaglia contro la società moderna della chiacchera vuota, del cosiddetto “buonsenso”, che ha poco di buon e ancora meno di senso. Ionesco cerca così di distinguere l'irrazionale dall'insensato, analizzando le convenzioni profonde alla base del senso comune. Chi è – è questa la prima domanda che dovrebbe affacciarsi alla mente dello spettatore de La

cantatrice – a dare un senso alle nostre parole, alle nostre indiscutibili verità sociali? Il

nostro “senso comune” è legato ad una qualche ancestrale e biologica natura umana, o ci è semplicemente imposto da una specifica cultura, costruita dalla società in cui viviamo?

Chiaramente la seconda ipotesi è quella cavalcata da Ionesco – per cui niente può essere naturalmente dato per scontato, come verità oggettiva, reale – una considerazione che ci porta a riflettere sull'effettivo senso del nostro umano comunicare. È per questo che la vittoria moderna di quella chiacchera vuota di cui parlava anche il filosofo Heidegger, bollandola come l'espressione più evidente dell'inautenticità dell'alienata massa moderna, spinge i due autori verso la stessa direzione, verso la stessa necessità di cercare un'altra

90 Le parole di Ionesco, frutto di un'intervista, sono riferite da Gian Renzo Morteo, Introduzione a Il

forma di scambio comunicativo fra esseri umani. Tema ricorrente in quasi tutte le opere di Ionesco sarà, quindi, la presenza di questa forma ancestrale d’idiosincrasia nei confronti di quel “parlare per dir nulla”91.

Questa “stupefazione” quasi traumatica di fronte a una società moderna massificata e perduta nei più triti e vuoti cliché lega Ionesco al filosofo esistenzialista, distinguendolo invece dai suoi cugini realisti, come Flaubert, che riuscirono a descrivere la realtà contemporanea senza meraviglia, ma con naturale e realistica accettazione di un epocale stravolgimento ormai avvenuto.

È per questo incredibile coinvolgimento nei confronti dei cambiamenti sociali dei tempi, vissuti e sentiti così profondamente, che Ionesco finisce per nutrire, però, (anche in questo è vicino a dadaisti e futuristi) anche una certa forma di fascinazione e di piacere solo per il puro suono senza senso delle parole. È così che la messa in scena della parola vuota, del cliché insensato, del luogo comune non può non mostrare l'esigenza di ritrovare, al contrario, un senso perduto.

E così Ionesco, pensando di aver scritto, con la sua Cantatrice calva, una specie di

tragedia che stimolasse nello spettatore queste profonde riflessioni, si stupì di suscitare

invece un riso spensierato e allegro nella platea:

non ho mai capito, da parte mia – dice Ionesco – la differenza che si ravvisa tra il comico e il tragico. Il comico, essendo intuizione dell'assurdo, mi sembra più disperato del tragico. Il comico non offre via d'uscita. Dico: «disperato», ma, in realtà, è al di là o di qua della disperazione o della speranza.

[…] Ero convinto d'aver scritto una specie di tragedia del linguaggio!... Quando la commedia fu rappresentata rimasi pressoché sbalordito udendo le risate degli spettatori che presero (e prendono tuttora) la cosa molto allegramente92.

Eppure, questo accade perché la finale esplosione di risa, totalmente assurda e inaspettata, che nasce partendo da un banale discorso comune, nutrito da vuoti cliché, non può non muovere un senso di straniamento, ma anche, infine, di leggerezza; una leggerezza dovuta alla totale mancanza di sforzo logico da parte dello spettatore.

Quello che rappresenta Ionesco è in fin dei conti, infatti, un vero e proprio gioco di prestigio comico che suscita il riso, enfatizzando e portando al suo estremo una componente ludica non dichiarata, celata, ma insita in ogni essere umano. Un assurdo e infantile gioco che deriva dalla liberazione da ogni imposizione di senso del nostro

91 Eugène Ionesco, Note e contronote, cit., p. 173. 92 Ivi, p. 30 e 173.

“fanciullino” interiore, che, una volta sguinzagliato, è libero di uscire a giocare senza regole e può tutto, senza limitazioni. Questo gioco anarchico non può non divertire lo spettatore, rilassandolo e spingendolo a un riso senza giudizio.

Seguendo l'analisi di Stefano Brugnolo – che si ispira allo studio freudiano sul motto di spirito, riletto da Francesco Orlando – quello rappresentato da Ionesco è un language

automatique, simile al lapsus di cui parlava Freud. Un linguaggio automatico, che ci si

lascia sfuggire inconsciamente dalla bocca, ma che porta spesso con sé grandi verità. Così i nostri signori Smith, o i coniugi Watson ci ricordano un po' le gag dei buffoni di professione, solo che mentre questi sono consapevoli dell'effetto comico delle proprie interazioni, i personaggi di Ionesco lo conducono senza intenzione. È per questo che noi, a primo impatto, ridiamo di loro e non con loro.

Eppure questa idea freudiana di concepire il riso come un riconoscimento di una discordanza, di una trasgressione rispetto a un codice comune, da parte di un gruppo uniforme, non rispecchia perfettamente la concezione di Ionesco. E se per Freud:

Il riso nasce allorché qualcuno trasgredisce per ingenuità o scarsa applicazione mentale un certo codice linguistico o comportamentale, e che noi possiamo ridere di lui nella convinzione che invece quei codici non li trasgrediremmo93.

Per Ionesco è diverso, non si deride l'altro per un senso di superiorità. Gli errori, i lapsus dei suoi personaggi sono così enormi e esagerati da non poter essere correggibili. Quando la signora Smith, per esempio, compone una frase come questa: “lo yoghurt è quel che ci vuole per lo stomaco, le reni, l'appendicite e l'apoteosi”94 lo spettatore non può ridere di lei e sentirsi superiore a delle sciocchezze talmente esibite. Da questa frase possiamo, però, invece, desumere il meccanismo comico classico utilizzato da Ionesco.

Partendo dalla nozione comune che lo yoghurt faccia bene alla flora intestinale, e quindi generalmente allo stomaco, si passa ad affermare che faccia bene anche ad un altro organo interno, ma non logicamente collegato, come i reni, per poi passare, in climax, ad un collegamento totalmente incoerente con l'infiammazione dell'appendice, e finire, al culmine, a sostenere che lo yoghurt può far bene all'apoteosi. Ma è proprio la totale insensatezza di questo finale a costringere lo spettatore allo scoppio di riso. È infatti con quest'ultima affermazione che quel senso di incertezza dello spettatore sulla posizione da

93 Stefano Brugnolo, Le ambivalenze dell'assurdo nelle prime commedie di Ionesco in Commedie e

dintorni, a cura di Andrea Accardi e Sara Pezzini, Felici Editore, Pisa 2013, p. 23.

prendere davanti alla stoltezza della signora Smith crolla improvvisamente davanti all'evidenza del non senso esibito, della superfluità di prendere questa posizione.

“È evidente che il suo è un assurdo fine a se stesso, esibito in quanto tale, da godere in quanto tale”95 scrive Brugnolo. Ma i discorsi folli fra i coniugi Smith ci fanno ridere soprattutto per la loro modalità espressiva: discorsi assurdi, sì, ma sotto forma di logiche verità indiscutibili, ovvie banalità trite e ritrite. E quindi, in fondo, lo yoghurt potrebbe far bene anche all'apoteosi!

La comicità in Ionesco quindi non si limita alla moralistica messa in scena dei discorsi comuni per suscitare uno sdegno nello spettatore. Anzi, è proprio grazie alla sua esibita e paradossale intensificazione che, moltiplicando ossessivamente le assurdità pronunciate dai personaggi, in quel climax delirante e comicamente grottesco, Ionesco getta chi guarda in un senso di spaesamento che non permette di formulare giudizi netti e distaccati, ma, anzi, costringe a mettere violentemente in dubbio le più radicate certezze. Ionesco “ci mostra gli aspetti sovversivi della comicità, [che], anche quando sembra più sfrenata e gratuita, riesce comunque a illuminare aspetti fondamentali delle nostre vite […]”96.

Infatti la tragicommedia di Ionesco verrebbe semplificata e svalutata se recepita come una semplice critica ai costumi della società, come un'opera che pone un confine netto fra giusto e sbagliato, mettendo quest'ultimo sotto la lente inquisitrice del comico, che si eleva al di sopra della scena per prendersi beffardamente gioco della “piccola borghesia universale”97. “L'aspetto ludico, e un altro per così dire drammatico, convivono dunque nei dialoghi sconclusionati dei protagonisti di quelle commedie”98.

Eppure un'iniziale percezione fortemente politica del lavoro di Ionesco c'è stata, seguita poi da una forte disillusione nello scoprire che però non voleva esserlo, come abbiamo visto. Il motivo principale di questa errata interpretazione viene sicuramente dalla figura di Bobby Watson, quel personaggio senza volto che fa capolino in una delle surrealistiche conversazioni, ne La cantatrice, fra i coniugi Smith. Bobby è uno, nessuno e centomila volti allo stesso tempo. È un nome che si può appiccicare su tutte le facce della famiglia senza distinzione alcuna, né di genere né di età. Come se non bastasse, i Watson, tutti di nome Bobby, fanno anche tutti lo stesso mestiere, un mestiere alienante come quello del commesso viaggiatore (che vaga di luogo in luogo per invogliare a comprare della merce)

95 Stefano Brugnolo, Le ambivalenze dell'assurdo nelle prime commedie di Ionesco, cit., p. 24. 96 Andrea Accardi, Sara Pezzini, Premessa in Commedia e dintorni, cit., p. 9.

97 Eugène Ionesco, Note e contronote, cit., p. 173.

che li avvicina pericolosamente all'emblema di quell'uomo-ombra protagonista della nuova schiacciante società massificata. Risulta chiaro, quindi, a questo punto, l'equivoco che si era potuto creare dopo l’iniziale debutto de La cantatrice, di individuare erroneamente un forte risvolto politico nel teatro di Ionesco.

All’opposto, verosimilmente, più potente della semplice critica a una società opprimente, che spersonalizza i propri membri costringendoli a delle vite di routine agghiaccianti e tutte uguali, è qui la volontà di porre sulla scena un gioco liberatorio. Il gioco infantile dello scambio dei ruoli, del mascherarsi da genitore quando si è figlio, o di togliersi per un giorno la fede nuziale.

Il potersi spogliare, per un attimo, del proprio ruolo sociale, del “se stesso per l'altro”, è questo che prova a mostrare Ionesco. La libera assurdità che ne deriva, dopo un'iniziale sconvolgimento da parte del pubblico, sembra in ultimo andare a buon fine, riuscendo a rompere le dure barriere sociali, e costringendo lo spettatore ad un esplosivo riso liberatorio, senza inibizioni, senza più giudizi automatici e stereotipati.

È questa la reazione che Ionesco si aspetta dal proprio pubblico, insieme ad una più tragica riflessione sulla difficoltà di attuare questo gioco nella vita quotidiana, al di fuori del teatro.

Non è quindi un ammaestramento morale quello che cerca l'autore, ma forse solo la possibilità di giocare con quei ruoli opprimenti che noi tutti diamo per scontati e con i quali conviviamo giornalmente, trasportandoceli penosamente sulle spalle. Ionesco invece, come se fossero cappotti pesanti, li fa sfilare piano piano ai propri personaggi, senza che questi se ne accorgano, come accade con i coniugi Martin. La rocambolesca e parodiata “agnizione” dei due di essere marito e moglie, dopo una serie di investigazioni alquanto ridicole e assurde non ci fa più ridere solo di loro, ma anche con loro. Questo perché il risultato è divertente in sé, al di là di qualsiasi giudizio morale (Ionesco stesso aveva effettivamente sperimentato questo gioco con la moglie, una volta che si erano perduti e poi ritrovati nella metropolitana)99.

Vediamo ora un esempio di questo gioco delle parti, estratto dalla scena quarta:

[La signora e il signor Martin seggono l'uno in faccia all'altra, senza parlare, sorridono timidamente. Il dialogo che segue deve essere citato con voce strascicata, monotona, un poco cantante e assolutamente priva di sfumature.]

SIGNOR MARTIN: Mi scusi, signora, non vorrei sbagliare, ma mi pare di averla già incontrata da qualche parte.

SIGNORA MARTIN: Anche a me, signore, pare di averla incontrata da qualche parte.

SIGNOR MARTIN: Non l’avrò, signora, per caso intravista a Manchester?

SIGNORA MARTIN: Potrebbe darsi. Io sono nativa di Manchester! Tuttavia non ricordo

bene, signore; non potrei dire se è lì che l'ho vista, o no!

SIGNOR MARTIN: Dio mio, è veramente curioso!… Sta di fatto che io, signora, ho

lasciato Manchester circa cinque settimane fa.

SIGNORA MARTIN: Veramente curioso! Bizzarra coincidenza! Anch'io, signore ho lasciato Manchester circa cinque settimane fa.

SIGNOR MARTIN: Io ho preso il treno delle otto e mezzo del mattino, quello che arriva a Londra a un quarto alle cinque, signora.

SIGNORA MARTIN: Veramente curioso, veramente bizzarro! Incredibile coincidenza! Io

ho preso lo stesso treno, signore! [...].

Ed è solo dopo un lungo, contorto e alquanto bizzarro dialogo su questi toni che i due arriveranno alla ovvia conclusione:

[Il signor Martin, dopo aver lungamente riflettuto, si alza lentamente e senza fretta si dirige