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Il mix funzionale e le attività economiche

concettuale: gli approcci e le definizion

1.2 I principi definitor

1.2.5 Il mix funzionale e le attività economiche

Storicamente, la mixité tra residenza e funzioni non residenziali si è realizzata spontaneamente nei centri urbani con la compresenza di attività direzionali e commerciali, servizi pubblici, attività culturali e di intrattenimento, connotando lo spazio pubblico come luogo di

incontro94. In Europa, a partire dagli anni Settanta, l’intensificazio-

ne dei processi di metropolizzazione ha indebolito i sistemi urbani con particolare riferimento a fattori quali la dispersione spaziale, l’aumento degli spostamenti con mezzo privato, i nuovi modelli di consumo disponibili in ambito extra-urbano, con il conseguente adeguamento dell’offerta da parte del settore immobiliare per ri- spondere a questi nuovi stili di vita.

Il processo di continuo cambiamento delle imprese, accelerato dal- la globalizzazione, porta ad una costante ricerca di miglioramento nella gestione delle proprie risorse. Tra di esse emergono sempre più quelle relative alla localizzazione, alle caratteristiche dell’edi- ficio e alla qualità ambientale interna ed esterna; questi elementi influiscono particolarmente sui processi di rigenerazione urbana e sull’articolazione del mix funzionale a livello locale. Molto dipende, tuttavia, dallo specifico settore di attività, come di seguito sintetica- mente evidenziato.

Le attività produttive, industriali e artigianali, sono tra quelle rite- nute generalmente meno compatibili con le funzioni come la resi- denza e con i servizi ad essa generalmente correlati, che – anche per qualche forma di retaggio razionalista – nei piani vengono usual- mente tenute separate dalle altre attività urbane e localizzate nelle

93. Cfr. A. Rowley, op.cit.

94. Cfr. P. George, «Città», Enciclopedia

delle Scienze Sociali, Istituto della En-

ciclopedia Italiana Treccani, 1991, p. 25; I. Tagliaventi, «La città variabile», A. Bucci, D. Diolati (a cura di), Città,

commercio, architettura, Firenze, Ali-

nea, 2004, pp. 9–13; K. Lynch, Pro- gettare la città. La qualità della forma urbana, cit.

zone più esterne della città. Tuttavia, il dibattito e le sperimenta- zioni su questo tema si muovono da molti anni verso l’integrazione, promuovendo un approccio che tenga conto dell’impatto della sin- gola attività sul contesto, anche in considerazione del progressivo ammodernamento in senso ecologico dei processi produttivi, anzi- ché generalizzare una rigida regola a un intero settore. È questa, in

Italia, una posizione portata avanti dalla fine degli anni Settanta95

dall’urbanistica riformista:

L’esperienza di trent’anni ci ha progressivamente spinto a trasgredire e poi a rifiutare molte indicazioni della Carta d’Atene. Ad esempio, tra- sferire le fabbriche e le residenze operaie «nel sole e nel verde della campagna», come suggerivano i padri razionalisti, non è apparsa più una soluzione lungimirante. Perché nel frattempo avevamo imparato che l’inquinamento prodotto dalle fabbriche, se trasferito in campagna ci ritornava nell’aria che respiriamo, sulle foreste, nell’acqua dei fiumi: e che dunque l’inquinamento non va trasferito, ma ridotto e abbattuto nei processi di produzione. Così come abbiamo capito che all’espulsio- ne dalla città di fabbriche o residenze popolari, contribuiscono in modo determinante interessi economici esclusivamente guidati dalla valoriz- zazione dei suoli, che spesso contrastano con il più generale interesse di una integrazione produttiva e sociale di tutti i tessuti urbani96.

La localizzazione delle attività direzionali è stata oggetto, nei de- cenni passati, di un acceso dibattito, con riferimento ai fenomeni di terziarizzazione dei centri storici e di polarizzazione che l’alterna- tiva realizzazione di “centri direzionali” produce. Questa contrap- posizione si è nel tempo ammorbidita, tenendo conto che oggi «il terziario viene proposto come elemento di equidistribuzione e dif-

fusione della qualità»97 e come elemento qualificante degli insedia-

menti misti.

La cultura urbanistica moderna […] tende ad opporsi a questi risulta- ti negativi [la terziarizzazione dei centri storici] con la formazione di centri direzionali periferici, la cui realizzazione è stata però fortemen- te ostacolata per anni, finché il regime immobiliare ha ritenuto conve- niente la difesa dei valori centrali. Ma nei casi in cui tale decentramen- to si è realizzato, spesso l’alto pregio della destinazione direzionale ha eliminato la residenza dal nuovo insediamento […] creando così zone più rigidamente monofunzionali di quelle centrali: altro difetto da con- trastare riaccorpando anche in questo caso abitazione e produzione, massimizzando la vitalità e quindi la qualità del tessuto urbano con una pluralità di funzioni98.

In tempi recenti, a seguito dell’introduzione delle nuove tecnologie nelle attività direzionali e della possibilità di interazioni a distanza, alcuni sviluppi – soprattutto nel nord Europa – hanno suggerito che il “virtual office” possa sostenere, e anche prediligere, lo sviluppo di realtà decentrate suburbane, sia come luogo di residenza, sia come localizzazione ideale degli edifici direzionali, a scapito delle ubica-

zioni nei centri urbani99. Di questi ultimi viene apprezzata la vitalità

del contesto e gli effetti sull’immagine aziendale, tuttavia vi sono fattori quali l’accessibilità, la sicurezza e i costi che sono ritenuti prioritari: un ambiente funzionalmente misto può essere accettato soprattutto a livello di complesso immobiliare, ma meno a livello di

95. Il piano regolatore di Pavia del

1976, ad esempio, introdusse il prin- cipio della “salvaguardia produttiva” che si opponeva all’espulsione delle fabbriche all’esterno della città, pre- scrivendone invece il mantenimento e l’ammodernamento.

96. G. Campos Venuti, La terza genera-

zione dell’urbanistica, Milano, Franco

Angeli, 1989, p. 53.

97. P. Gabellini, op.cit., p. 188.

98. G. Campos Venuti, op.cit., p. 208.

99. Cfr. J. van Meel, The European Of-

fice. Office design and national context,

Rotterdam, 010 Publishers, 2001; R. Hascher, S. Jeska, B. Klauck, Office

Buildings, Basel, Birkhäuser, 2002; A.

Harrison, P. Wheeler, C. Whitehead,

The Distributed Workplace: Sustain- able Work Environments, London,

singolo edificio o di quartiere urbano100. Questo punto apre interro-

gativi sull’effettiva desiderabilità della mixité da parte delle attività direzionali che deve essere attentamente valutata in fase di pianifi- cazione, tenendo conto comunque i caratteri e le dimensioni della singola azienda influiscono in modo rilevante su questo aspetto. Per quanto riguarda, infine, gli spazi commerciali, che tradizional- mente caratterizzano le quinte dello spazio pubblico, i cambiamenti nella società, la crisi economica e l’avvento dell’acquisto elettronico hanno portato in Italia a una diminuzione dei negozi nei centri ur- bani e del numero di operatori, a cui corrisponde un aumento delle grandi superfici di vendita e la concentrazione degli operatori, ma anche la comparsa di fenomeni di demalling. Già negli anni Novanta, il mercato retail Regno Unito – che vedeva dimezzate il numero del- le unità del 1950, con un aumento del 30% delle superfici rispetto agli anni Settanta – contava poche dozzine di operatori nel settore della distribuzione, i quali si sviluppavano per guadagnare quote di

mercato anziché per soddisfare i bisogni della popolazione101.

La crisi del commercio al dettaglio e il fenomeno delle dismissioni com- merciali […] vedono coinvolti anche molti paesi europei, e da qualche anno toccano da vicino anche il nostro Paese. I cambiamenti nelle abi- tudini di spesa dei consumatori, la crisi economica dell’ultimo decen- nio, il consistente sviluppo dell’e-commerce e la costruzione di nuove strutture di vendita di grandi dimensioni stanno, infatti, sempre più accompagnandosi a una crescente presenza di negozi vuoti nei centri urbani e alla chiusura anche di centri commerciali extra-urbani102.

In Europa, il commercio è un elemento fondamentale di cui tengono

conto le politiche urbane103 orientate alla rivitalizzazione centri ur-

bani, con significative sperimentazioni in Gran Bretagna, Portogallo

e Francia104, finalizzate all’arresto dello spopolamento, di persone e

imprese, e al miglioramento della loro attrattività.

Il commercio locale, infatti, per la capacità catalizzare i fenomeni di aggregazione, di infondere senso di sicurezza e di includere social- mente le fasce deboli della popolazione, gioca un ruolo vivificatore del centro urbano, anche contribuendo a formarne il senso di ap- partenenza e l’identità; tali caratteristiche appaiono tanto più im- portanti se paragonate alla generale tendenza verso l’omologazione e l’appiattimento degli spazi urbani e delle sue funzioni. In tal senso può essere assimilato a un “servizio pubblico”, come recentemen- te proposto nel nuovo Piano di governo del Territorio del Comune di Milano che lo ha introdotto nel proprio Catalogo dei servizi, o ancora può configurarsi «come un bene pubblico: la cui presenza arreca benefici anche a chi non ne usufruisce direttamente, mentre il suo costo è prevalentemente a carico di coloro che se ne servono e solo in misura assai ridotta a coloro che non ne usufruiscono. Tale condizione potrebbe fornire una spiegazione di natura economica, seppure non una giustificazione dal punto di vista politico-ammi- nistrativo, della ridotta attenzione di cui la sopravvivenza del com-

mercio urbano in genere è stata sinora oggetto»105.

100. Cfr. A. Rowley, op.cit.

101. Ibidem.

102. L. Tamini, L. Zanderighi, Dismissioni

commerciali e resilienza. Nuove politi- che di rigenerazione urbana, Milano,

EGEA, 2017, p. 8.

103. Si vedano, in merito, gli approfon-

dimenti in questa tesi sulle Planning

Policy inglesi (Scheda 1.2) e sulle ri-

cerche e sperimentazioni francesi (Scheda 1.4).

104. Cfr. C. Morandi, Il commercio ur-

bano: esperienze di valorizzazione in Europa, Santarcangelo di Romagna,

Maggioli Editore, 2011.

105. F. Brunetti, C. Santini, «Percorsi

di sopravvivenza per il commercio urbano: insegnamenti dai “piccoli leader”», Sinergie, n. 71, 2006, pp. 250–251.

Quest’ultima riflessione da un lato introduce l’opportunità di un’a- zione pubblica che consideri la capacità di questo settore economi- co di valorizzare le basi socio-culturali, le identità locali, le relazioni stratificate e le conoscenze, dall’altro pone la questione di come il privato possa assumere nuove forme e modi di operare in risposta alle modificate esigenze del consumatore e, più in generale, della so- cietà. Sono entrambi temi che interessano il campo della pianifica- zione urbanistica, soprattutto in relazione al tema della mixité fun- zionale, che in questo settore di attività necessita di ragionamenti e previsioni a grana fine, guidando le spontanee inclinazioni delle imprese verso la creazione di un mix efficace di attività in equilibrio con le altre funzioni urbane.

Gli usi che compaiono più frequentemente nel dibattito sulla mixité, dunque, afferiscono ai settori del commercio e dei servizi, del di- rezionale pubblico e privato e del loro rapporto con la funzione residenziale, mentre meno spazio viene dato agli usi produttivi, industriali e artigianali, alla logistica e alle aree per infrastrutture

tecnologiche106. La separazione tra spazi della produzione e quelli

destinate ad altre funzioni urbane è stata, più di altre, oggetto di una particolare attenzione nell’urbanistica razionalista, tanto da co- stituire una delle sue argomentazioni più forti, e che si è sostanziata con successo attraverso la zonizzazione monofunzionale nei piani; tuttavia, da molto tempo questo principio di pianificazione è stato criticato, proponendovi, in alternativa, quello dell’integrazione.

La necessità integrazione sociale e produttiva costituisce uno dei prin- cipi della proposta riformista; attraverso la verifica critica dei modelli dell’urbanistica moderna, che nella pratica non raramente celavano finalità di carattere speculativo, emerge come la scelta di separare la funzione produttiva dalle altre attività umane abbia avuto anche carat- teri non pienamente giustificati. Si è compreso che la separazione del lavoro non porta giovamento alla vitalità dei tessuti urbani, né riduce l’inquinamento sulla città, in quanto il punto dove questo va ostacolato più efficacemente è nell’ambito dei processi produttivi107.

Oggi, la diffusione e la tendenza a prevalere di modelli produttivi radicalmente diversi da quelli della tradizionale città industriale, decisamente più compatibili con le altre funzioni, evidenzia l’op- portunità di un ritorno all’integrazione delle diverse dimensioni della vita urbana. Una necessità che oggi è sempre più evidente per generare qualità, ma che sconta la permanenza nelle norme e nella prassi operativa la tendenza a separare le funzioni produttive tout court, quando invece il criterio potrebbe essere quello di permette- re sempre l’insediamento di tutte le attività produttive compatibili, ed isolare, invece, solamente quelle che producono particolari effet- ti indesiderati o manifestano specifiche esigenze spaziali e localiz- zative legate ai processi produttivi.

Il rapporto tra città e produzione nel capitalismo cognitivo

Il riscontro di nuove forme di organizzazione degli spazi della pro- duzione, radicalmente diverse dal passato, è interessante nella pre-

106. Cfr. J. Grant, «Mixed use in theo-

ry and practice: Canadian experience with implementing a planning princi- ple», cit.

figurazione di nuovi assetti urbanistici della città che vadano verso l’integrazione del lavoro nei tessuti urbani. In particolare, alcuni elementi di innovazione, quali la frammentazione dimensionale e i processi di micro-sostituzione, il ritorno degli spazi della mani- fattura nella città compatta, l’importanza assunta dalla conoscenza nei nuovi processi produttivi e la crescente dimensione relazionale all’interno dei luoghi della produzione, contribuiscono a tracciare

nuove relazioni tra spazi della produzione e spazi urbani108.

Il rinnovamento del rapporto tra urbanistica e produzione appare tanto più necessario con la comparsa di nuovi paradigmi economici conseguenti alla deindustrializzazione della città fordista iniziata negli anni Ottanta, alla globalizzazione e alla smaterializzazione del- la produzione. Nel capitalismo contemporaneo, il ruolo svolto dalla conoscenza assume una portata rivoluzionaria e costituisce l’attua- le motore della crescita economica: il lavoro è divenuto per lo più di tipo cognitivo, il consumo si realizza nella sua dimensione di “espe- rienza” e nel riconoscimento di attributi immateriali al bene da ac- quistare. Questo comporta che il fattore di produzione “conoscenza” determini uno sviluppo di tipo qualitativo orientato ad aumentare il valore aggiunto del prodotto nelle fasi di produzione immateriale (design, pubblicità, servizio al cliente, ecc.), anziché in quelle della manifattura, con evidenti ricadute sulla città in termini spaziali e lo- calizzativi, determinando il passaggio da una produzione estensiva, ad alta necessità di spazio, a una di tipo intensivo, a bassa necessità

di spazio ma ad alto bisogno di qualità urbana109.

La dimensione globale dell’orizzonte di riferimento determina l’au- mento dell’importanza delle reti e delle relazioni, e la necessità di compensare i differenziali dei costi del lavoro con differenziali co- gnitivi di pari importanza, facendo valere i sistemi locali come ri- sorsa unica. Globalizzazione e smaterializzazione cambiano il modo di fare innovazione e determinano la necessità di riposizionamento del settore produttivo, in cui l’accesso delle conoscenze avviene con la ricerca e il global sourcing (anziché con macchine, lavoro spe- cializzato, imitazione), mentre la creatività si realizza attraverso la multiculturalità, un ambiente metropolitano e la propagazione della

conoscenza attraverso comunità epistemiche110.

Se si assume come valida la teoria che il capitalismo – nelle sue di- verse declinazioni – possa determinare la conformazione fisica del- lo spazio urbano e le caratteristiche culturali e sociali degli abitan-

ti111 e si ritiene che l’urbanistica abbia anche la finalità di sostenere

la crescita delle città ricomponendo le fratture sociali determinate dal modello economico dominante, allora, con l’affermazione dell’e- conomia cognitiva e dell’industria culturale, in cui il capitalismo co- gnitivo sostiene la rinascita urbana, risulta ancora più necessario rivedere gli strumenti della pianificazione per predisporre le con- dizioni per uno sfruttamento positivo della globalizzazione, tanto nelle grandi aree quanto nei piccoli centri, facilitando la creazione di sinergie tra funzioni, produttive e non, ed evitare la segregazione spaziale tra nuovi gruppi sociali.

108. Cfr. C. Pacchi, «Città e produzio-

ne. Una nuova connessione», Urbani-

stica, n. 158, 2016.

109. Cfr. L. Murrau, «L’economia della

conoscenza e la rivoluzione del capi- talismo cognitivo», Menabò di Etica e

Economia, febbraio 17, 2010.

110. Cfr. E. Rullani, La fabbrica dell’im-

materiale, Roma, Carrocci, 2004; E.

Rullani, «L’economia della conoscen- za e il lavoro che innova», Knowledge

Working. Lavoro, lavoratori, società della conoscenza, Milano, Mondadori,

2008, pp. 165–184.

111. Cfr A. J. Scott, Città e regioni nel

nuovo capitalismo. L’economia sociale delle metropoli, C. Trigilia (a cura di),

L’incompatibilità che veniva attribuita tra le “città della produzione” (industria, artigianato, commercio, ecc.) e le “città d’arte e cultura” oggi sta scomparendo a favore della più sincretica visione della cit- tà post-fordista, una declinazione della quale è la “città creativa”, dove lavoro, residenza, tempo libero, cultura e l’ambiente fisico si integrano secondo diversi gradi di coesistenza; appare sufficiente- mente solida la definizione di ‘capitalismo cognitivo-culturale’ per sottolineare come le basi della maggior parte dell’attività economi- ca, soprattutto nei centri più avanzati, siano costituite dalle capacità cognitive ed emotive della forza lavoro, che rappresentano anche la “terza ondata” dell’urbanizzazione, a seguito della prima basata sul sistema fabbrica-laboratorio e della seconda associata al fordi- smo112.

In questa nuova struttura economica, le attività produttive e i grup- pi socioeconomici si addensano nelle aree urbane principalmente per due ragioni: la possibilità di fitte reti di relazioni formali e infor- mali che permettono la circolazione della conoscenza e delle infor- mazioni; la riduzione dei costi e dei rischi connessi alle difficoltà del mercato del lavoro contemporaneo.

L’osservazione delle dinamiche della produzione creativa e cultu- rale, ai fini dell’individuazione di strategie di rigenerazione urbana basate sulla mixité funzionale, risulta particolarmente interessante negli spazi centrali della città compatta, caratterizzati da una den- sità edilizia relativamente elevata – e, quindi, prossimità – e da una porosità permessa dalle dismissioni di piccola scala che hanno con- sentito un certo ricambio funzionale. In questo contesto, una chiave di lettura importante degli spazi di lavoro contemporanei, dall’in- terno all’esterno, è la tensione tra possibilità di messa in comune di spazi, pratiche e informazioni – peculiarità del capitalismo cogni- tivo – e strategie di separazione – propria del modello industriale

tradizionale113. L’organizzazione spaziale interna risente della ri-

duzione delle dimensioni fisiche e della mobilità dei dispositivi di lavoro e della recuperata concezione delle forme di lavoro artigiano che si traducono in spazi flessibili (non specializzati) e visibili (tra- sparenti); la rilevanza attribuita alle interazioni determina, inoltre, la creazione di spazi porosi e permeabili di relazioni con l’esterno, da sale per seminari condivise, a caffetterie, a spazi aperti, destina- ti alla frequentazione di pubblici diversi che evidenziano il confine sfumato esistente nel capitalismo cognitivo tra momenti di lavoro e di ricreazione; lo spazio pubblico esterno, invece, non appare di- rettamente influenzato dalle nuove attività, se non per gli effetti di addensamenti di attività simili o di usi temporanei. Si osserva come «[…] alla scala urbana questi spazi non assumano connotati molto differenti da quelli degli spazi di lavoro novecenteschi (concentra- zione e specializzazione funzionale, separazione dall’esterno, filtro all’ingresso, in molti casi invisibilità). Alla micro-scala invece avven- gono i processi di scambio più interessanti, che si si basano tuttavia su processi di creazione di comunità specializzate, in questo senso

112. Cfr. A. J. Scott, «Beyond the Creative

City: Cognitive–Cultural Capitalism and the New Urbanism», Regional

Studies, n. 48:4, 2014, pp. 565–578.

113. Cfr. A. Bruzzese, C. Pacchi, «Spazi

e pratiche sociali nelle nuove forme del lavoro», Urbanistica, n. 158, 2016, pp. 127–130.

relativamente tradizionali, che tendono quindi a escludere contatti

di più ampio raggio»114.

Nel ripensare il futuro delle città, e nello specifico quelle italiane, l’introduzione delle nuove tecnologie può essere l’occasione per individuare una modalità di valorizzazione integrata dei materia- li urbani esistenti e di un grande patrimonio culturale diffuso. Una mixité armonica che si realizza anche tra innovazione e tradizione, in alternativa al modello delle smart city che «vengono vendute non tanto per attuare una città ideale, quanto come ricette necessarie per combattere un futuro apocalittico, fatto di carenze energetiche, traffico invivibile, inquinamento diffuso e problemi diffusi di sicu- rezza», un modello che «non tiene conto di una dimensione rilevan- tissima della città, che non è solo quella che viene amministrata e quella che consuma, ma quella che produce, sempre più importante perché il settore dei servizi – motore crescente dell’economia occi-

dentale – abita prevalentemente in città»115.

Alcuni scenari produttivi appaiono, quindi, come ambiti di interven- to meritevoli di attenzione, per creare una città intelligente e fun- zionalmente mista, «che utilizza innovazione, tecnologie, creatività, cultura e comunità per garantire sviluppo economico, qualità della vita e attrattività di persone e risorse, con benefici positivi per cit- tadini e imprese e di conseguenza per tutto il territorio circostan- te»116:

ି i distretti artigiani, dove artigianato tradizionale e maker con- temporanei si contaminano;

ି i distretti del commercio, visti come ‘neo-ecosistema urbano’ che, nel fornire lavoro e servizi, contribuiscono anche alla cre- azione di capitale sociale e sicurezza, contenendo gli impatti ambientali;

ି il turismo culturale, in cui il territorio con caratteri peculiari di- venta chiave dell’economia post-industriale e fonte di vantaggi competitivi;

ି la produzione e il consumo di cibo, e i conseguenti nuovi rap-