Introduzione al secondo capitolo
2.1 La città pre-industriale e la crescita graduale: stratificazione e
2.1.1 L’organizzazione spaziale degli usi: gli indirizzi della trattatistica
Se nell’Alto Medioevo le forme della città vengono codificate secon- do i canoni della teologia, a partire dall’anno Mille sono i rilevanti cambiamenti nelle strutture politiche, sociali ed economiche che caratterizzano la società europea ad esercitare importanti influssi
sullo spazio urbano30. Emerge, infatti, nel Basso Medioevo, un nuovo
senso della città che, incentivando la prossimità spaziale, consente all’uomo un perfezionamento della sua natura associativa. Il con- cetto di “pubblica utilità” attiene ora alla sfera dei diritti dei citta- dini; la cittadinanza, che si realizza con la proprietà, è espressione di umanità, ogni persona viene definita dallo spazio che occupa, la città persegue l’utile e il bello.
Tuttavia non è presente, in questo periodo, nessun modello di or- ganizzazione urbana, nessuna sistematizzazione delle prescrizioni urbanistiche; nel caso dei comuni italiani, si susseguono, piuttosto, una serie di provvedimenti particolari in funzione delle necessità
contingenti, che vengono al più codificati negli statuti31. La separa-
zione di determinate funzioni risponde, in particolare, alla necessità di allontanare quelle attività caratterizzate da sgradevolezza, noci- vità o pericolosità per tutelare quiete, salubrità e incolumità pub- blica. Si pensi, ad esempio, al caso delle vetrerie di Venezia che, nel 1291, il Maggior Consiglio volle trasferite e circoscritte nell’isola di
Murano in quanto responsabili di disastrosi incendi32. Un caso rile-
vante è, inoltre, quello dello Statuto di Perugia del 1342, che tende a consolidare un insieme di regole relative allo spazio urbano. Oltre alla categorizzazione delle strade, vengono stabilite alcune regole di edificazione lungo di esse, con l’obbligo di chiedere preventiva autorizzazione, e, ai fini della ricerca, rileva il fatto che lo statuto trecentesco già individuasse luoghi della città e fasce di rispetto in- terdetti all’insediamento di alcune attività:
L’arte della fune e della sella d’asino non si deve esercitare nella piazza del comune, né quella del pellicciaio e del lanaiolo, e neppure è conces- so di vendere paglia o erba. L’arte del caldaraio, quella del panellaio e quella del fabbro sono vietate intorno alle scuole de doctore, al palazzo del podestà, del capitano e del giudice di giustizia, per cinquanta passi33.
È durante il Rinascimento che il discorso sulla città viene maggior- mente strutturato, individuando meglio il proprio oggetto, il pro- prio fine e i propri destinatari; tra le innovazioni di questo periodo, inoltre, è particolarmente rilevante l’acquisizione della fase di pro- gettazione come momento autonomo e antecedente quello dell’e- secuzione. Secondo Rosario Pavia, è riduttivo collocare la nascita dell’urbanistica come risposta ai problemi della città industriale, vedendo piuttosto quel periodo storico come un momento di stra- ordinaria riorganizzazione delle conoscenze con cui «la disciplina ha iniziato a ridefinire il suo statuto, le sue metodologie, i suoi am- biti operativi», mentre le origini dell’urbanistica sono anteriori e si possono rintracciare «nella fase di transizione della città di an-
30. Sulla “Rinascita dell’anno Mille”,
cfr. J. Le Goff, Il basso medioevo, Mila- no, Feltrinelli, 1967; G. G. Merlo, Basso
medioevo, Torino, UTET, 2010.
31. Cfr. F. Finotto, La città chiusa. Sto-
ria delle teorie urbanistiche dal Medio- evo al Settecento, Venezia, Marsilio,
1992.
32. «Per decreto del Maggior Consi-
glio di Venezia, nel 1291, le fornaci da vetro di Castello furono trasferite a Murano per liberare la città da indu- strie che potevano arrecarle distur- bi, o danni all’igiene». L. Mumford,
op.cit., p. 442.
tico regime alla città capitalistica; e per alcuni aspetti ancora oltre: nell’ambito delle trasformazioni urbanistiche della città rinasci-
mentale-barocca»34. Come evidenziato nelle ricerche di Françoise
Choay35, utopie e trattati di quel momento storico sono l’inizio di
articolate riflessioni ed elaborazioni urbanistiche in forma scritta, rispetto alle quali i testi successivi confermano o sostituiscono de- terminati paradigmi, espandendo la base di conoscenze e fornen- do loro una prospettiva, permanendo, tuttavia, una struttura logica nella forma della teoria costruttiva che dal XV secolo al XX secolo non presenta considerevoli discontinuità. Il trattato di architettura – nel quale il tema urbano, così come in Vitruvio, viene affrontato teoricamente e operativamente in stretta relazione a quello archi- tettonico – è, dunque, sede di elaborazione del pensiero urbanistico con effetti sulla costruzione della città che avverrà tra il Quattrocen- to e l’Ottocento; in particolare, è il lavoro di Leon Battista Alberti a
influenzare fortemente la formazione della disciplina36. Nei trattati
rinascimentali emergono i nuovi bisogni funzionali ed estetici della città preindustriale, per rispondere ai quali vengono messe a punto regole urbanistiche, programmi e impianti morfologici atti a gover- nare lo spazio urbano.
Leon Battista Alberti e il De Re aedificatoria
Nel De re aedificatoria (1452-1485) vengono codificate regole con- cettuali e operative per la costruzione della città sino ad allora og- getto di prassi, consuetudini e, al più, regolate dagli statuti comuna- li. Con Alberti si afferma l’autonomia della disciplina e si profila la figura professionale dell’architetto, «colui che con metodo sicuro e perfetto sappia progettare razionalmente e realizzare praticamente […] opere che nel modo migliore si adattino ai più importanti bi-
sogni dell’uomo»37: architettura e urbanistica servono, dunque, a
rispondere alle necessità della società civile. Nella sua visione, edi- ficio e città sono assimilati a un corpo umano di cui devono ripro- durre l’equilibrio e l’organicità, nell’assunto che «la città è come una
grande casa e la casa una piccola città»38 e quindi vada ricercata la
relazione tra le parti, alle diverse scale, architettonica e urbana. In Alberti, gli aspetti urbanistici che maggiormente rilevano sono la
scelta dell’ubicazione della città39 (l’ambiente) e le caratteristiche
del terreno su cui costruire un edificio (l’area); ma anticipa anche indirizzi per il dimensionamento rapportato alla popolazione, la localizzazione delle attività produttive, la distribuzione delle classi
sociali40, la classificazione di edifici notevoli e infrastrutture urbane.
L’Alberti, in modo pragmatico, accetta la città esistente, non delinea un disegno geometrico astratto ma individua un sistema di indirizzi per «una progettazione flessibile, attenta alle forme di governo, alla cultura degli edifici monumentali e alla funzionalità economica del- la struttura edilizia preesistente» e «accettando l’inerzia della città preesistente, Alberti concentra i nuovi canoni progettuali solo su al-
cuni privilegiati […] “isole” della nuova spazialità rinascimentale»41.
Risulta interessante valutare come nel De re aedificatoria si affronti la questione funzionale e i rapporti tra usi diversi nel tessuto urba-
34. R. Pavia, L’idea di città. Teorie ur-
banistiche della città tradizionale, Mi-
lano, FrancoAngeli, 1994, p. 14.
35. Cfr. F. Choay, La regola e il modello.
Sulla teoria dell’architettura e dell’ur- banistica, Roma, Officina Edizioni,
1986.
36. Cfr. R. Pavia, L’idea di città. Teorie
urbanistiche della città tradizionale,
cit.
37. L. B. Alberti, L’Architettura [De re
aedificatoria], P. Portoghesi (a cura
di), Milano, Il polifilo, 1966, p. 7. 38. Ivi, p. 66.
39. «Tutti hanno bisogno della città e
di tutti i servizi pubblici che ne fanno parte. Se, in base al parere dei filosofi, decideremo che la ragione e lo scopo dell’esistenza della città stanno in ciò, che i suoi abitanti possano vivere in tranquillità, nel modo più comodo possibile e senza molestie, indubbia- mente occorre meditare più e più vol- te in che luogo la si debba costruire, in quale posizione, con quale perime- tro». Ivi, p. 272.
40. In Alberti, è chiara la corrispon-
denza tra bisogno da soddisfare e funzione dell’edificio, ma anche tra
status e tipo edilizio, in quanto la for-
ma della città deve rispecchiare le dif- ferenze sociali: «Che gli edifici siano sorti per rispondere ai bisogni degli uomini, è manifesto. […] l’edificio può essere costruito o per necessità vi- tali, o per convenienza pratica, o per soddisfacimenti temporanei […]. Ma, osservando quanti e quanto diversi edifici si possano trovare, si intende facilmente che la loro esecuzione non è tanto rivolta ai fini suddetti, né ad alcuni di essi piuttosto che ad altri; la ragione fondamentale di questa infi- nita varietà sta bensì nelle differen- ziazioni presenti nella natura umana. E se abbiamo intenzione di classifica- re in modo adeguato […] i vari generi di edifici e le varie parti all’interno di ciascun genere, il metodo di una sif- fatta indagine impone in ogni caso di chiarire esaurientemente quali diffe- renze vi siano tra gli uomini: giacché gli edifici sono fatti per loro, e variano in rapporto alle funzioni che svolgono nei loro riguardi» Ivi, p. 265.
41. R. Pavia, L’idea di città. Teorie
urbanistiche della città tradizionale,
no. Alberti ha ben chiara la varietà di attività che si svolgono nella
città42, per le quali l’architetto dovrà trovare una ubicazione idonea.
Occorre cioè tener presente che genere di costruzione stiamo per in- traprendere: se un’opera pubblica o privata, sacra o profana, e così via […]. Ben diversa infatti è la qualità e la quantità dello spazio da adibirsi per un fòro, un teatro, una palestra, o un tempio; quindi ciascuna di tali opere, in base alla propria natura e funzione, esige una diversa forma e posizione per la sua area43.
Per l’Alberti urbanista, deve essere quindi, innanzitutto definito il disegno estetico e funzionale della città, nella quale collocare i suoi elementi più significativi, dei quali fornisce gli indirizzi di proget- tazione
[…] il principale ornamento di una città è costituito dalle strade, dal foro, da ogni edificio e dalla sua posizione, costruzione, forma, colloca- zione: tutti questi elementi devono essere disposti e distribuiti in guisa da rispondere nel modo più adeguato alla funzione di ciascun opera e alle esigenze di praticità e decoro. Giacchè, dove manchi l’ordine, anche la comodità, la piacevolezza, e la dignità scompaiono44.
Così in città prevede la distribuzione di grandi piazze che possono
ospitare funzioni diverse45 «in tempo di pace serviranno per i mer-
cati o per gli esercizi fisici dei giovani; in tempo di guerra vi si am-
mucchieranno le riserve di legna e di foraggio»46; di edifici pubblici
di governo «nel centro della città» con quelli per l’amministrazione della giustizia «nelle sue adiacenze […] per dare agio, a chi fosse occupato in campagne elettorali o in vertenze giudiziarie, di fare
l’una e l’altra cosa senza venir meno al proprio ufficio»47; di edifici
religiosi principali «situati nella posizione più conveniente al cen-
tro della città»48 e monastici che «non dovranno trovarsi in mezzo
al rumore e alla confusione degli artigiani, ma neppure essere in-
teramente isolate dal consorzio dei cittadini»49; di edifici per spet-
tacoli «la sede adatta al teatro è all’interno della città, quella per
le corse sui cocchi fuori delle mura»50; di scuole e auditorium che
«in zone che non riescano importune per chi li frequenta: dovranno essere lungi dal frastuono degli artigiani, da esalazioni e da fetori;
non dovranno essere turbati da gente sfaccendata […]»51; di altre
attrezzature pubbliche come i granai, le casse pubbliche gli arsenali, che «vanno sistemati in mezzo alla città, nella zona più frequentata,
perché siano più sicuri e a disposizione di tutti»52.
Dalle parole dell’Alberti si evince un approccio razionale al progetto
urbanistico, che tende a dividere la città per zone omogenee53 ri-
spetto agli usi e ai suoi abitanti54, per conciliare “convenienza pra-
tica” e “comodità” con “decoro” ed “eleganza”. Tuttavia, animato da spirito pragmatico, egli osserva la città esistente e, riscontrando una radicata mescolanza di usi diffusa nei suoi tessuti urbani, considera una distribuzione mista delle attività:
Riuscirà pure d’insigne ornamento per la città il distribuire le diverse botteghe degli artigiani in diverse zone e quartieri appositi: in prossi- mità del fòro i banchieri, i decoratori, gli orefici; più in là le spezierie, le sartorie e in genere gli esercizi reputati più rispettabili; in zone perife-
42. «Occorre poi tener presente che
una città non è destinata solo ad uso d’abitazione; dev’essere bensì tale che in essa siano riservati spazi pia- cevolissimi e ambienti sia per le fun- zioni civiche sia per le ore di svago in piazza, in carrozza, nei giardini, a passeggio, in piscina etc». L.B. Alberti,
op.cit., p. 290.
43. Ivi, p. 52. 44. Ivi, p. 534.
45. «Il foro può essere occupato dal
mercato della valuta [le botteghe dei banchieri, N.d.A.], ovvero dal mercato delle erbe, ovvero del bestiame o an- cora del legname e così via. Ognuno di questi tipi di foro deve avere in città un luogo e degli ornamenti a lui pro- pri». Ivi, p. 714. 46. Ivi, p. 330. 47. Ivi, p. 370. 48. Ivi, p. 235. 49. Ivi, p. 364. 50. Ivi, p. 536. 51. Ivi, p. 366. 52. Ivi, p. 394.
53. Cfr. nota al testo di P. Portoghesi.
Ivi, p. 396.
54. Trattando delle “Opere di carat-
tere particolare” nel Libro V, Alberti afferma che dopo aver «chiarito nel libro precedente come occorra adat- tare i vari tipi di edifici alle diverse categorie dei cittadini e degli abitan- ti» e trattato degli edifici comuni alla cittadinanza, intende occuparsi «di ciò che risponde alle necessità o alla convenienza di particolari gruppi» in quanto «altri sono gli edifici desti- nati all’intera collettività, altri quelli riservati ai maggiorenti, altri ancora alla plebe». Prevedendo il caso di una città in cui colui che detiene il pote- re politico, debba difendersi dai suoi stessi abitanti, maggiorenti o plebe, sia consigliabile la divisione della cit- tà in parti (secondo uno schema a cer- chi concentrici che Erodoto attribuiva alla città di Babilonia) che «si attua nel modo più conveniente costruen- dovi un muro […] in forma di cerchio all’interno di un cerchio più grande. Difatti i cittadini abbienti, desiderosi di larghi spazi, acconsentiranno di buon grado ad abitare al di fuori del- la prima cinta, lasciando volentieri il centro col macello, le officine e le [>>]
riche si apparteranno infine quelli sporchi o puzzolenti, specialmente le fetidissime concerie […]. Probabilmente taluno vorrebbe che i paraggi delle abitazioni dei maggiorenti fossero del tutto scevri dal contatto im- puro con la plebaglia. Altri preferirebbe che tutti i quartieri cittadini fossero provvisti senza eccezioni di tutto quanto possa essere di utilità a chicchessia; pertanto non sdegnerebbe che alle case degli ottimati si frammischiassero rivendite e altrettali botteghe55.
In definitiva, la città teorizzata dall’Alberti accetta la mixité di tutte le funzioni comuni nei tessuti urbani, ponendo in risalto quelle di particolare importanza pubblica e isolando solo quelle ritenute in-
salubri o quelle con particolari necessità dettate dall’uso56.
Il Filarete e il Trattato di Architettura
Antonio Averlino, detto il Filarete, compone il suo Trattato di Ar- chitettura tra il 1460 e il 1464. In forma di racconto, egli descrive la costruzione dell’immaginaria Sforzinda, sostenendo come la rea- lizzazione di una città sia il fine più alto dell’architettura, la somma aspirazione per un progettista e il suo committente, il cui dialogo anima il trattato. A differenza del carattere normativo e program- matico dell’Alberti, in Filarete è il disegno ad assumere maggiore importanza, per la sua capacità di poter prevedere gli esiti spaziali e formali dell’idea progettuale. Tuttavia, per la grande estensione del progetto urbanistico, di una dimensione inusuale per l’epoca, Fila- rete non riesce a riproporre la metafora albertiana del corpo umano alla scala della città (limitandosi, dunque, a quella dell’edificio), i tessuti urbani non vengono graficamente rappresentati e appaiono più attendibili le regole urbanistiche, dimensionali, tipologiche e compositive che fornisce in forma testuale sui singoli elementi della città.
Coerentemente con la concezione verticistica della società del Fi-
larete57, fondata sul principio di autorità, egli concepisce la strut-
tura urbana secondo un’organizzazione gerarchica: pone i palazzi più rappresentativi al centro della città, verso cui convergono tutte le strade che attraversano le porte; distingue le zone e le tipologie
abitative secondo i ceti sociali58; specializza le piazze a seconda del
fruitore prevalente. Così al centro viene posta la piazza principa- le, destinata alle funzioni più nobili, a nord viene posta la piazza dei “mercatanti” e a sud quella del mercato; su di esse e tra di esse Filarete prevede dettagliatamente un’articolata distribuzione delle attività urbane.
«Le porte saranno negli angoli non retti; poi le strade si partiranno dalle porte e andranno tutte al centro. E quivi farò la piazza […]. E in testa d’essa sarà la chiesa catedrale colle sue appartenenze. Dall’altra testa sarà la corte, cioè il palazzo signorile, e ancora gli altri palazzi appar- tenenti, come quello del podestà e quello del capitano, con tutte quelle cose che a loro s’appartiene. […] Poi faremo dall’un canto all’altro della piazza due altre piazze: cioè una per li mercatanti, l’altra per fare il mer- cato delle cose meccaniche, cioè delle cose che bisognano per vivere. […] E poi distribuiremo gli altri edificii publici e privati, e così ancora chiese, secondo el luogo che meglio parrà a noi che stiano bene. E poi
55. Ivi, p. 536.
56. È il caso, ad esempio, degli ospe-
dali degli ammalati contagiosi «che dovranno essere tenuti lontano non solo dalla città, ma anche dalle pub- bliche strade», dei cantieri navali che «si debbono collocare fuori dagli ag- glomerati urbani per il pericolo rap- presentato dagli incendi».
57. Non dissimile, in questo, dalla
concezione politica conservatrice albertiana, che tuttavia risulta più distaccata e teoretica rispetto alla cultura del Filarete. Cfr. L. Grassi, In-
troduzione, in Antonio Averlino detto
il Filarete, Trattato di architettura, Mi- lano, Il polifilo, 1972.
58. Filarete distingue tre categorie di
edifici privati: «Questi saranno: pa- lazzi da gentili uomini, e casamenti da populari e da comuni artigiani e da persone di bassa condizione e povera- glia». Ivi, pp. 51-52. Così vengono for- niti codici di ordini per il principe, il gentil uomo, il mercante e l’artigiano, mentre per il povero non si necessita di troppo «misuramento né scompar- timento di membri» in quanto si «farà come potrà, pure che possa stare al coperto». Ivi, p. 331.
nell’angolo retto per dirittura alla piazza lasseremo uno stadio di spa- zio per fare mercato di bestiame e anche d’altre cose […]. E a dirittura della corte lasseremo un altro spazio d’altrettanta distanza, per cagio- ne, quando scadesse fare alcune rapresentazioni di feste o di giostre o d’alcuna altra cagione, come dire uno teatro antico […]. E compartiremo tutti e’ luoghi, ciascheduno secondo il suo essere59.
In Filarete, così come in Alberti, è dichiarata la volontà di “comparti- re” tutti i luoghi per la distribuzione delle funzioni; dalla minuziosa descrizione delle attività previste nella fantastica Sforzinda, tutta- via, emerge un carattere sostanzialmente misto della città, conno- tata da una ricchezza e da una prossimità degli usi tipica della città preindustriale.
Francesco di Giorgio Martini e il Trattato di architettura civile e militare
Francesco di Giorgio Martini, nel Trattato di architettura civile e mi- litare, la cui stesura inizia dopo il 1492, tratta i temi dell’urbanistica con rigore disciplinare e, per la prima volta, in modo unitario e di- stinto, condensandoli in un’efficace sequenza. Nel terzo libro, Città e castelli, egli distingue il tema del governo dei tessuti urbani da quel- lo delle mura e della forma della città; per quanto concerne il primo, emerge un chiaro pensiero funzionale sull’organizzazione urbana, articolato in ventidue condizioni, generali e valide per tutte le città. Nelle prime tre, sono indicati gli spazi aperti – una piazza princi- pale al centro con un numero adeguato di piazze secondarie – ri- spetto ai quali pone in relazione gli usi, sottolineandone il carattere
strutturante per l’intera città60. Rispetto al luogo centrale, la piazza,
si collocano i luoghi del potere religioso e civile61 e gli spazi dello
scambio e della relazione62, in connessione con gli uffici pubblici63 e
i servizi privati64 del commercio e della somministrazione, rispetto
alla cui ubicazione Francesco di Giorgio Martini considera anche la necessità di sicurezza urbana (anticipando l’utilità degli “occhi sul- la strada” degli abitanti proposta da Jane Jacobs molti secoli dopo). Per le funzioni pubbliche particolarmente rilevanti, connotate da un alto valore simbolico, come i teatri, propone un principio di straor-
dinarietà dell’ubicazione65.
Le attività non residenziali e i servizi compatibili con la vita ur-
bana possono disporsi lungo le strade66 per la comodità degli abi-
tanti, così come una funzione produttiva di prestigio, quale l’arte della seta, può finanche costituire un carattere di “ornamento” per
l’intera città67. In quest’ultimo caso, Francesco di Giorgio Martini