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unitario: risanamento, ampliamento e rappresentazione

3.1.2 I piani della razionalizzazione

La seconda generazione dell’urbanistica moderna, corrispondente alla fase di “razionalizzazione dello sviluppo capitalistico delle cit-

tà11”, si riferisce al periodo intercorrente tra i primi anni del Nove-

cento e la Seconda guerra mondiale. Tale generazione è influenzata soprattutto dalle innovazioni introdotte dalle numerose correnti artistiche, dalle elaborazioni architettoniche del Movimento moder- no, ma anche dal carattere di monumentalità richiesto alle città dai regimi autoritari di Italia e Germania.

I - La centralità del soggetto pubblico e le elaborazioni del Movimento moderno

A livello europeo, è in particolare negli anni tra il 1926 e il 1935 che matura il superamento del piano ottocentesco a favore del piano razionalista: la comparsa delle contraddizioni della libera iniziati- va, la Grande guerra, le lotte sociali e la crisi economica del 1929 sono circostanze, tra le altre, che suggeriscono una «programma- zione degli interventi del capitale, che tenda costantemente a eli- minare o a mitigare gli squilibri e i conflitti del modo di produzione capitalistico e a garantirne l’espansione. Ma è altresì evidente che a promuovere e ad attuare la programmazione non può essere altri che lo Stato [il quale] si avvia a diventare, seppure con toni diver-

si da paese a paese, capitalista esso stesso»12. Inoltre, nonostante i

piani, le città crescono caoticamente, occupandosi solo delle classi abbienti e non fornendo risposta alla questione delle abitazioni a basso prezzo, motivo di gravi tensioni sociali: si fa strada l’idea che «la trasformazione dello spazio condotta con criteri strettamente capitalistici […] si traduca in un ostacolo al generale consolida- mento e alla riproduzione del sistema. […] È in sostanza l’idea della città come mezzo indispensabile per la produzione, più che come

prodotto per lo scambio»13. E in questa nuova visione della città, il

soggetto pubblico si afferma come protagonista, ritagliandosi spazi di intervento sempre maggiori in qualità di programmatore di un’e- spansione razionalizzata che integra il processo di produzione dello spazio rimanendo nell’ambito del processo produttivo capitalisti- co: emergono così anche finalità diverse e significati maggiori della trasformazione urbana, rispetto al solo sfruttamento economico del processo di urbanizzazione.

Nasce così la necessità di un nuovo piano, capace di dare concretez- za ai nuovi equilibri tra soggetti e ai nuovi significati della trasfor- mazione attraverso nuovi contenuti e una nuova metodologia. Un piano che superi il carattere pattizio di impostazione ottocentesca per assumere quello di uno strumento di promozione e controllo dello sviluppo urbano condotto da un’amministrazione pubblica, incaricata di contemperare le diverse istanze del privato e della col- lettività.

Le rilevanti elaborazioni culturali e disciplinari di questo periodo, in particolare quelle prodotte dai CIAM, i Congressi internazionali

11. G. Campos Venuti, «Cinquant’anni:

tre generazioni urbanistiche», cit., p. 8.

12. G. Di Benedetto, op.cit., p. 22.

dell’architettura moderna, producono rilevanti innovazioni conte- nutistiche e metodologiche per la pianificazione urbana; in partico-

lare, si definiscono i principi fondamentali della Città funzionale14

che confluiranno nella Carta di Atene e che costituiranno la base della prassi urbanistica dei decenni successivi. Il modello canonico di riferimento della nuova “forma di piano” che ne deriva è il piano di Amsterdam del 1935.

Tra i principi più rilevanti, vi è quello della separazione delle fun- zioni urbane: i bisogni dell’uomo vengono identificati in quattro attività (abitare, lavorare, spostarsi e ricrearsi) che possono essere meglio soddisfatte se spazialmente distinte. Il piano organizza quin- di il territorio in aree funzionali omogenee, entro le quali svolgere una sola specifica funzione attraverso l’apposizione di un vincolo di destinazione d’uso. A tal fine, la preesistente tecnica dello zoning di origine tedesca viene assunta dal Movimento moderno per la re- dazione di un piano “per aree” e non più “per elementi” come era nell’Ottocento, e riadattata per una applicazione di carattere pre- valentemente funzionale – la differenziazione tipologica, con le sue conseguenze sul piano della segregazione sociale, viene mantenuta ma ridimensionata – rimandando agli strumenti attuativi successivi la progettazione urbanistica di dettaglio. Si passa, così, da un piano a un sistema ordinato di piani, ciascuno dei quali dipende gerar- chicamente dalle indicazioni di quello a scala superiore; si tratta di un’innovazione del procedimento organizzativo dettata dalla com- prensione dell’importanza del fattore temporale sui modi della tra- sformazione urbana, che devono potersi adeguare alle condizioni specifiche del momento attuativo. Tale rinnovamento metodologi- co, che introduce un carattere di flessibilità nella pianificazione, de- riva anche dalla metodologia razionalista della scomposizione del problema in problemi minori, cosicché la soluzione complessiva, la realizzazione del piano attraverso la sua gestione, è data dalla som- ma delle singole soluzioni.

Tra gli ulteriori elementi di innovazione elaborati dalla cultura ur- banistica in questa fase vi sono:

ି l’introduzione dell’analisi come momento conoscitivo dei biso- gni e delle tendenze di sviluppo, anteriore e necessaria alla fis- sazione degli obiettivi di trasformazione del piano;

ି la distribuzione degli interventi sullo spazio anche in funzione dei costi generali di impianto e infrastrutturazione (poiché la finalità del piano è garantire le condizioni per lo sviluppo capi- talistico, le trasformazioni devono impiegare i capitali stretta- mente necessari);

ି il concetto di indifferenza del valore dei suoli rispetto alla tra- sformazione, che sacrifica la rendita fondiaria attraverso l’e- sproprio preventivo e svincola le scelte localizzative dal prezzo dei terreni;

ି l’inclusione di tutto il territorio urbano nel progetto urbanisti- co, anche delle parti già edificate, con la definizione di funzioni e categorie di intervento per rendere maggiormente coerente

14. Per una trattazione più esaustiva

sulla Città funzionale, cfr. par. 2.2.1.III “L’affermazione della “città funziona-

le” nell’Europa del Secondo dopoguer- ra”

la città esistente con le previsioni di assetto urbano generale; ି il nuovo tipo di città realizzabile nelle espansioni, a cui è rivolto

comunque il maggiore interesse, caratterizzata dall’impianto aperto, dai tracciati viari indipendenti, dalla distribuzione delle funzioni e dagli ampi spazi verdi;

ି la forma dell’espansione lungo direttrici di crescita, superando il modello di crescita concentrica in tutte le direzioni.

II - La continuità con il piano ottocentesco e la nuova legge urbanistica

In Italia, i ritardi accumulati in campo economico rispetto agli altri paesi europei hanno ridotto lo sviluppo delle città nei primi anni del Novecento, fenomeno che si è poi accentuato durante il ventennio fascista con l’isolamento politico-culturale e le aspirazioni “rurali- stiche” e antiurbane del regime. Pertanto, nella prima metà degli anni di questa generazione “della razionalizzazione”, le tecniche di pianificazione si pongono invece in sostanziale continuità con quel- le dei piani ottocenteschi “della modernizzazione”. Le innovazioni di maggiore respiro internazionale riguardano soprattutto scelte sostanziali effettuate da singoli piani – emblematico, in tal senso, quello di Roma del 1909 – di riordino infrastrutturale e di razio- nalizzazione della crescita: si definiscono, ad esempio, le direzioni dell’espansione; si prevedono quartieri per case popolari; si stabi- liscono le densità edificatorie dei lotti tramite classificazione tipo- logica. Con l’affermarsi della cultura di regime, nella seconda metà degli anni di questa generazione, si vanno formando i cosiddetti “piani accademici” che rispondono ai canoni celebrativi della mo- numentalità fascista, prevedendo grandi spazi di rappresentanza ed espansioni edilizie caratterizzate dal carattere architettonico della cultura ufficiale.

Le elaborazioni dalla cultura razionalista sviluppatesi in Europa nella prima metà del Novecento vengono recepite nell’ordinamen- to italiano soltanto quando questa generazione urbanistica sta vol- gendo al termine. È, infatti, con l’approvazione della legge n. 1150 del 1942 che, in piena Seconda guerra mondiale, viene introdotto lo strumento del Piano Regolatore Generale. Le differenze tra le dispo- sizioni in materia urbanistica dettate dalla nuova norma e il sistema previgente sono notevoli:

ି il piano, innanzitutto, ha valore di legge;

ି è generale, pertanto la sua disciplina è stesa all’intero territorio comunale;

ି è unico, pertanto contempla sia la città esistente sia gli amplia- menti;

ି permette l’apposizione di vincoli di inedificabilità per le aree destinate a funzioni pubbliche;

ି configura la pianificazione come un sistema di piani a formazio- ne progressiva, dall’area vasta al piano particolareggiato; ି prevede la sua attuazione in modo indiretto, in quanto strumen-

to programmatico e vincolistico ma non attuativo, limitandosi a stabilire indici volumetrici, densità e destinazioni d’uso.

Tuttavia, è stato rilevato come si tratti «di una legge assai più avan- zata di quanto non consentirebbero le arretrate condizioni giuridi- che, politiche e culturali della nazione e che, di conseguenza, sarà

largamente incompresa e disattesa nel dopoguerra»15. Negli anni

della ricostruzione, infatti, la sua vigenza sarà sospesa a favore di strumenti urbanistici applicati ad ambiti territoriali parziali e di diretta esecutività, riproponendo le modalità operative precedenti. III - Il riordino infrastrutturale e l’organizzazione della crescita Come anticipato i piani di questa seconda generazione affrontano problemi in parte diversi da quelli della prima, che riguardano in particolare il riordinamento infrastrutturale e la riorganizzazione della crescita: le previsioni dei piani ottocenteschi avevano spesso determinato sulle città effetti negativi dovuti ad una espansione urbana aggressiva, massiccia e disordinata, accompagnata dall’as- senza di servizi minimi per la popolazione e di infrastrutture per lo sviluppo.

In termini di tecnica urbanistica, gli approcci funzionali in questi nuovi piani non sono particolarmente diversi da quelli dei piani precedenti: la matrice è ancora di stampo ottocentesco e prevede ampliamenti della città senza specificarne le funzioni, limitandosi al disegno della rete stradale e la definizione di regole per l’edifica- zione. Quindi, con una procedura simile alla zonizzazione, il piano attribuisce a ciascun lotto, determinato dal disegno della maglia via- ria, la possibilità di edificare un determinato tipo edilizio, cui corri- sponde un indice quantitativo. La definizione funzionale riguarda solo alcuni lotti: quelli destinati ad attrezzature pubbliche e quelli destinati ad industrie, le quali vengono accorpate in zone ben defi- nite. Nella città esistente, prosegue la previsione di sventramenti e di riedificazione dei fronti con edifici imponenti e dal carattere monumentale.

I piani differiscono invece per le scelte che rispondono alle peculia- rità socio-economiche della città e alle determinazioni di carattere politico. Nel caso di Roma e dei suoi due piani del 1909 e del 1931, risulta evidente la differenza di approccio che discende dai diver- si indirizzi politici: nel primo, della giunta progressista di Nathan, si prevedono bassi indici di edificabilità, aree per l’insediamento di funzioni di rango superiore come l’università, il miglioramento delle condizioni dei quartieri popolari e la tutela delle aree di pre- gio storico e ambientale; nel secondo, in pieno regime, si prevedono maggiori indici di edificabilità e ulteriori aree di espansione, un for- te programma di sventramenti del centro storico e il nuovo quartie- re direzionale dell’EUR.

A Milano, si formano invece i temi del sostegno alla crescita produt- tiva, della necessità di infrastrutture ferroviarie, dell’affermazione del rango territoriale della città che vengono affrontati dal piano Pavia-Masera del 1912, oltre che nelle proposte al concorso per il piano regolatore del 1927. Tuttavia, il piano Albertini del 1934 ri-

le dinamiche fondiarie dell’espansione, prevedendo l’urbanizza- zione dell’intera superficie comunale ancora non edificata, senza gerarchie, e un vasto programma di demolizione e sostituzione urbanistica nel centro storico. Le destinazioni previste sono quasi per intero quelle dell’edilizia privata, mentre le aree per edifici di interesse collettivo sono ridotte al minimo.

IV - I piani: Roma (1909), Roma (1931)

Le vicende che caratterizzano l’urbanistica di Roma nella prima metà del Ventesimo secolo, con i suoi due piani del 1909 e del 1931, ben rappresentano la generazione urbanistica della razionalizzazio- ne in Italia e l’evoluzione dei suoi contenuti e della sua tecnica, sia in relazione alla città esistente sia a quella dell’espansione.

I piani ottocenteschi avevano determinato una crescita edilizia ag- gressiva e incontrollata della città, con realizzazioni di quartieri re- sidenziali e insediamenti industriali fuori piano, a cui si aggiungeva il disordine delle zone popolari e l’assenza di servizi, opere pubbli- che e infrastrutture di supporto allo sviluppo. Il sindaco Ernesto Na- than, di orientamento progressista, tentò di porre rimedio nel 1909 all’esperienza non positiva dei piani del 1873 e 1883, con un piano di governo complessivo delle trasformazioni urbane di respiro mag- giormente europeo, redatto da Edmondo Saint Just di Teulada. Esso

Figura 3.4 Tracciato viario previsto dal piano regolatore di Milano del 1934 (Fonte: Urbanistica, n. 18-19).

prevedeva una crescita più equilibrata, con iniziative a sostegno delle classi popolari, la salvaguardia di aree verdi e archeologiche, con la previsione di grandi attrezzature urbane (ad esempio, la città universitaria, la zona industriale a Ostiense, i quartieri della Grande esposizione del 1911, ecc.), con l’orientamento degli ampliamenti lungo direttrici preferenziali, la riduzione delle previsioni di espan- sione e l’articolazione del disegno del piano in tre tipi edilizi, secon- do una disciplina che introduce indici volumetrici:

Il Sanjust individuò nella differenziazione dei tipi edilizi lo strumento più idoneo per un reale controllo della crescita della città. Rispettando i vincoli tipologici (fabbricati, villini, abitazioni nelle zone verdi) si sa- rebbe potuta infatti determinare, invece della tradizionale espansione compatta e indiscriminata, una serie alternata di zone più o meno den- samente abitate. Su questa base, e quindi sulle differenti densità, erano dimensionate tutte le previsioni tecniche del Piano, dalla rete delle fo- gnature alle sezioni stradali, alle attrezzature pubbliche16.

I contrasti che il piano causa a livello politico sono all’origine del- la sua mancata attuazione e della caduta della giunta comunale nel 1913. Il regolamento edilizio del 1912, che normava le caratteri- stiche dei tipi edilizi, viene sostituito nel 1920 per assecondare le pressioni dei proprietari delle aree, e verrà permesso un aumento delle densità edilizie: al posto del villino si consente la realizzazione del nuovo tipo “palazzina”, e, al posto del fabbricato, il nuovo tipo “intensivo”. Dopo un tentativo di variante al piano negli anni 1925- 1926, in pieno regime fascista, Marcello Piacentini è incaricato della redazione del nuovo piano del 1931, che costituirà il prototipo del “piano accademico”. Monumentalità degli spazi urbani (sia di nuova realizzazione, sia tramite sventramenti del centro storico), espan- sioni edilizie non articolate in quartieri riconoscibili ma sparse in tutta la città e differenziazione secondo le tipologie del piano del 1909, ma con densità aumentate, costituiscono i tratti caratteriz- zanti del piano. La sua attuazione avviene tramite piani particola- reggiati di esecuzione, che costituiscono altresì la base per l’espro- prio; tale meccanismo, che permette di rinviare le scelte esecutive e di sostenere la grande dimensione prevista dal piano, verrà assunto poi anche dalla legge urbanistica del 1942.

Al termine della seconda guerra mondiale, i diversi paesi coinvol- ti nel conflitto sono chiamati alla ricostruzione delle proprie città, ma mentre in molti contesti urbani europei le distruzioni sono colte come l’occasione per migliorare la qualità urbana, in Italia si sostie- ne una politica di ricostruzione al di fuori del disegno di un piano generale, strumento di cui l’Italia si era dotata solo pochi anni pri- ma, introducendo il “piano di recupero” che sostanzialmente pro- lunga la vita del collaudato piano ottocentesco: ristrutturazione del- la maglia viaria con sventramenti nel centro urbano ed espansione al suo esterno. In questa “prima generazione”, tuttavia, la disciplina si misura soprattutto con la dimensione dell’ampliamento, per la quale vengono proposti due distinti approcci: quello “accademico” e quello “razionalista”.

16. P. Rossi Ostili, Guida all’architet-

tura moderna 1909 2000, Roma-Bari,

Figura 3.5 Previsioni del piano di Roma del 1909.

Figura 3.6 Previsioni del piano di Roma del 1931 (immagine alla medesima scala della figura 3.4).

La fase successiva è caratterizzata dai piani della “seconda genera- zione”, quelli dell’espansione urbana supportata da una fase di forte crescita economica. Tra gli anni Sessanta e Settanta, le disordinate e inconsapevoli modalità di costruzione della città della generazione precedente costituiscono un nodo critico da affrontare, in quanto non è più rinviabile un’azione sulle problematiche che accompagna- no l’espansione quantitativa, in particolare le questioni della casa e dei servizi, ma anche quelle relative alla salvaguardia dei centri storici e alla conservazione degli ambienti naturali. Anche in questa generazione, emergono due distinti approcci al piano, quello “razio- nalizzatore” e quello “riformista”, che si distinguono in particolare per il diverso rapporto con il tema della rendita fondiaria.