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concettuale: gli approcci e le definizion

1.3 I modelli teoric

1.3.1 La diversità urbana di Jacobs

Jane Jacobs117 ritiene che siano soprattutto i singoli individui e orga-

nizzazioni, ciascuno agendo secondo i propri fini e idee e al di fuori di un quadro formale, ad arricchire la diversità urbana. Pertanto, il compito principale dell’urbanistica deve essere quello di creare un ambiente in cui queste attività possano svilupparsi positivamente poiché, la diversità non si genera ‘automaticamente’, ma si realizza mediante la formazione di “vari ed efficaci raggruppamenti econo- mici di funzioni” che necessitano di un quid che catalizzi la capa- cità di interazione economica degli abitanti/fruitori del quartiere. La sociologia indaga, quindi, le condizioni della diversità urbana, caratteristiche che i quartieri devono possedere per risultare eco- nomicamente e socialmente adatti alla formazione della diversità e alla sua crescita.

Particolarmente rilevante, nella riflessione di Jacobs, è il ruolo del- le attività economiche, come soggetti che necessitano di diversità dell’ambiente urbano per il loro sviluppo e, al contempo, la genera- no: «la diversità urbana consente e stimola essa stessa la formazio-

ne di altra diversità»118.

Le quattro condizioni di diversità

La tesi centrale di Jacobs è che la diversità urbana non sia un fatto accidentale, ma discenda da rapporti economici concreti e osser- vabili, i quali originano le ricche mescolanze urbane. Adottando un approccio induttivo, Jacobs osserva i luoghi in cui si realizza la di- versità, studiando le ragioni economiche che la rendono possibile, e propone quattro “generatori di diversità” che devono essere tutti compresenti in dato contesto:

1. mescolanza di più funzioni primarie, per assicurare la presenza di persone a ore diverse del giorno e che utilizzino in comune le attrezzature della zona;

2. ridotta dimensione degli isolati, per un’elevata permeabilità pe- donale;

3. varietà delle condizioni degli edifici, per fornire diverse soluzio- ni di redditività;

4. elevata densità di popolazione, residente e non. La necessità della mescolanza di funzioni primarie

Nel primo punto si distinguono le funzioni primarie, come la resi- denza, i maggiori usi produttivi e di servizio, capaci di generare im- portanti flussi di persone in un’area, e le funzioni secondarie, la cui domanda viene originata dalle primarie, che consistono in attività di servizio alla piccola scala come negozi, bar e ristoranti, ma che possono diventare, per effetto della propria accumulazione, un uso primario. Un primo risultato dei movimenti di persone tra questi diversi usi, che aggiungono varietà allo spazio pubblico, consiste nell’avere una migliore distribuzione dei flussi nell’arco della gior- nata, a differenza di una zona monofunzionale che tende a concen- trare le persone solo in determinate fasce temporali.

117. J. Jacobs, Vita e morte delle gran-

di città. Saggio sulle metropoli ameri- cane, cit., p. 225.

Alla base del ragionamento vi è la necessità di rendere sostenibili le attività non residenziali per alimentare la diversità urbana attra- verso la formazione di centri di integrazione economica. Questa si realizza se:

ି gli usi primari sono attrattivi e complementari, con riferimento a flussi proporzionati nel tempo;

ି vi è compresenza di diversi tipi di popolazione (residenti, lavo- ratori, visitatori esterni);

ି la mescolanza funzionale è efficace, cioè le persone condividono le medesime strade e attrezzature.

Nel centro città, la mescolanza di funzioni è fondamentale, in quan- to un raggruppamento di usi più complessi può costituire una “zona di incubazione” capace di generare un effetto economico positivo sulle altre parti della città, anche tramite espulsione. Tuttavia, il centro spesso tende ad essere paradossalmente monofunzionale e l’intervento pubblico dovrebbe sostenere le attività private che lo mantengono vivo anche in orario serale e notturno, favorendole in- direttamente con l’inserimento di funzioni pubbliche. Nei quartieri residenziali, invece, l’elemento di vitalità maggiore può essere quel- lo apportato dalle attività lavorative, il cui insediamento deve essere consentito e incoraggiato dal soggetto pubblico. Tuttavia, spesso, la mancanza di un mix funzioni primarie in questi quartieri è solo una parte del problema, mancando anche una o più delle altre tre con- dizioni di diversità.

La necessità di isolati piccoli

Il secondo punto, evidenzia come gli isolati lunghi causino un auto- isolamento delle strade con negative ricadute sociali ed economi- che. Un lungo isolato viene frequentato solo dalle persone che lo abitano o vi hanno uno specifico interesse per raggiungere le strade maggiori, in cui diventano possibili raggruppamenti di usi economi- ci. Questo contrasta con il principio relativo alla mescolanza delle attività, secondo cui persone diverse in ore diverse devono usare le stesse strade. Ciò determina, per le vie isolate, l’impossibilità di ave- re un bacino d’utenza che renda sostenibile l’esistenza delle attività e la scarsa possibilità di incubazione di nuove attività; al contrario, nelle vie in cui confluiscono le vie isolate si determina un sovracca- rico di flussi e un’alta concentrazione di funzioni economiche, con una loro non ottimale distribuzione, in quanto non tengono conto della scala del mercato da servire e della distanza degli utenti. Le strade che devono interrompere la “monotonia” dei lunghi iso- lati, tuttavia, non devono essere “inutili come una passeggiata”, ma devono esistere ragioni positive perché vengano usate e devono pertanto possedere «punti economicamente vitali: posti in cui fosse

possibile far spese, guardare, mangiare e bere qualcosa»119. L’inse-

diamento di sedi idonee per attività commerciali, che permettono una ripartizione di servizi, di opportunità economiche e di vita col- lettiva, deve pertanto essere consentita a livello di regole urbanisti- che anche nelle vie minori.

La necessità di edifici vecchi

Se una zona urbana è composta solo da edifici nuovi, le attività che vi si insedieranno saranno solo quelle in grado di sostenere elevati costi di esercizio e, quindi, o altamente redditizie o sovvenzionate pubblicamente. In tale modo, si escludono nuove iniziative spon- tanee che hanno generalmente bisogno di bassi costi fissi; poiché l’obiettivo è, invece, quello di incrementare la diversità, c’è bisogno di diversificare le iniziative immobiliari, prevedendo edifici a reddi- tività elevata, media, bassa e nulla.

Questo, tuttavia, è un risultato che necessita di tempi lunghi, grazie ai quali si originano effetti economici attraverso un assortimento vario e permanente di costruzioni portato da un processo dinami- co di invecchiamento e rinnovamento. Uno dei problemi è dunque rappresentato da quei quartieri i cui edifici sono stati costruiti con- temporaneamente, fisicamente omogenei, che procedono unifor- memente verso il declino: una loro contemporanea sostituzione ri- creerebbe l’errore originale, negando la formazione di diversità. Più opportuno è correggere le altre tre condizioni mancanti, lasciando una parte degli edifici vecchi «essi diventeranno qualcosa di più che semplici vestigia o segni di un precedente fallimento: diventeranno la sede necessaria (e preziosa per il quartiere) di molte sfumature di diversità, a redditività media, bassa o nulla. […] il valore economico dei vecchi edifici non è sostituibile a volontà, perché è una creazione

del tempo»120.

La necessità di concentrazione

Pur essendoci un nesso tra la concentrazione della popolazione e le attività specializzate che tale popolazione può alimentare, non è suf- ficiente una grande quantità di persone per alimentare la diversità urbana, bensì una loro alta concentrazione spaziale. Jacobs contesta la presunta corrispondenza – molto forte nell’urbanistica america- na – tra elevate densità residenziali e abbassamento della qualità di vita, soprattutto per la confusione tra il concetto di densità di alloggi e quello del loro sovraffollamento. Un uso del suolo intensivo a fini abitativi è considerato interessante solo in relazione al costo delle aree, mentre – obietta Jacobs – esistono ragioni più profonde, legate alla vitalità. Naturalmente la densità di abitazioni non è di per sé un fattore risolvente, in quanto esistono quartieri densamente popolati ma in forte stagnazione, poiché sono presenti altri fattori negativi, «Rimane però sempre il fatto che le forti concentrazioni di persone sono una delle condizioni necessarie di una fiorente diversità urba- na; e ne consegue che nei quartieri dove la gente abita dev’esserci una forte concentrazione di abitazioni sul suolo a ciò destinato. In mancanza di un numero sufficiente di persone, gli altri fattori che influenzano l’intensità e la localizzazione della diversità non avreb-

bero gran che su cui agire»121.

Le densità di abitazioni più opportune non possono essere calcola- te in astratto. Tuttavia, Jacobs segnala che le densità “intermedie”

camente urbani senza però generare al contempo vitalità, sicurezza, comodità e interesse; una densità capace di stimolare la massima di- versità trova, a sua volta, il suo limite superiore quando valori trop- po elevati inibiscono la diversità a causa dell’alta standardizzazione che riduce la gamma di possibilità legate ai tipi e all’età degli edifi- ci. Pertanto è necessario trovare il giusto equilibrio tra alte densità abitative e varietà tipologiche. Questo è fortemente legato al rap- porto tra superfici libere e superfici edificate residenziali che deve essere ragionevolmente alto (circa da 30:70 a 40:60), al contrario di quanto avviene nei complessi residenziali (mediamente 80:20) in cui vi sono vasti spazi liberi, difficili da sorvegliare e causa di incon- venienti. L’aumento delle superfici edificate residenziali, comunque, non deve realizzarsi sacrificando lo spazio libero da residenze, che deve comprendere una articolata rete dei percorsi (condizione n. 2), edifici destinati ad usi non residenziali e attrezzature all’aperto come i parchi per mescolare le funzioni (condizione n. 1).

La combinazione di questi accorgimenti […] produce effetti completa- mente diversi sia rispetto ad una squallida e massiccia alta densità as- sociata ad un elevato indice di edificazione, sia rispetto ad un’alta den- sità “alleviata” dalla presenza di vaste aree residenziali non edificate. I risultati sono del tutto diversi perché […] ciascuno di essi contribuisce in un suo modo singolare e indispensabile, alla diversità ed alla vitalità di una zona cosi che dalle elevate densità può scaturire qualcosa di co- struttivo e non meramente inerte122.

Le errate attribuzioni alla mixité funzionale

Jacobs argomenta, inoltre, l’opportunità di creare una forte diver- sità urbana confutando le teorie che attribuiscono alla mixité una serie di conseguenze negative, e dimostra come queste siano piutto- sto da attribuire alla monotonia della destinazione d’uso omogenea prevista dalla zonizzazione monofunzionale, riferendosi in partico- lare alle questioni estetiche, la congestione, la comparsa di usi de- gradanti.

Una fiorente diversità urbana - del tipo di quella catalizzata dalla presenza di usi primari mescolati tra loro, di strade frequenti, di una mescolanza di edifici di età diversa e con diverso livello di spese ge- nerali, e di dense concentrazioni di utenti - non porta affatto con sé gli inconvenienti della diversità convenzionalmente ipotizzati dalla pseudoscienza urbanistica. Mi propongo ora di provare quest’asserzio- ne e di dimostrare come questi inconvenienti siano fantasticherie che, come tutte le fantasticherie prese troppo sul serio, riescono d’intralcio nell’affrontare la realtà123.

Le questioni estetiche

Jacobs riporta che per alcuni la diversità urbana è intrinsecamente portatrice di un aspetto disordinato mentre la monofunzionalità ri- sulterebbe esteticamente ordinata, tuttavia essi non considera che la monotonia e la ripetitività creano disorientamento nel fruitore della città, tanto che spesso si ricorrono ad artifici architettonici o di arredo urbano per fornire differenti visuali in sostituzioni delle più

122. Ivi, p. 203.

naturali indicazioni di direzione e movimento, senza le quali l’am- biente urbano appare disorientante e caotico. In sintesi, la ricerca dell’ordine visuale nell’ambiente urbano può adottare tre soluzioni: quella delle zone omogenee; quella delle zone omogenee che fal- samente appaiono diversificate; quella delle zone autenticamente diverse che possono fornire risultati estetici da sicuramente inte- ressanti a molto piacevoli.

La congestione del traffico

Per Jacobs non è da imputare all’esercizio della fruizione delle fun- zioni urbane da parte delle persone, quanto alla necessità di usare le automobili per l’insufficiente densità degli insediamenti e la man- canza di una ampia gamma di diversità sufficientemente concentra- ta. Il ricorso al mezzo privato diventa tanto più inevitabile, quanto la crescente necessità di fornire ampie strade e parcheggi separa ancor di più le funzioni. Questo, di norma, potrebbe non avvenire in zone urbane densamente popolate e diversificate, dove «quanto più intensamente variata e fittamente assortita è la diversità in una zona, tanto più la gente cammina; anche la gente che affluisce dall’e- sterno in una zona vitale e variata, sia in automobile sia con mezzi

pubblici, quando si trova all’interno di essa si sposta a piedi»124.

Lo stimolo alla comparsa di usi degradanti

Questo fenomeno è possibile, ma Jacobs distingue gli usi veramente dannosi da altri che sono ritenuti tali ma non lo sono:

ି usi economicamente poveri (ad esempio, i depositi di rottami) che sottraggono vitalità, causano danni estetici e occupano mol- to spazio: non sono una conseguenza nociva della diversità ur- bana (infatti mancano nelle zone vitali) ma sono usi che cresco- no in zone già trascurate che mancano di una concorrenza per assicurarsi lo spazio disponibile. Per risolvere un simile pro- blema è quindi necessario catalizzare la diversità, non temerla, predisponendo una ambiente economico fertile;

ି usi produttivi e servizio (ad esempio, bar, teatri, uffici e indu- strie) che non sono affatto dannosi, ma si ritiene ciò perché si considerano gli effetti che hanno in suburbi e zone stagnanti, mentre gli stessi usi nei quartieri vitali sono riconosciuti come decisamente necessari;

ି usi realmente dannosi per natura, che sono parcheggi, depositi di autocarri, stazioni di servizio e le grandi pubblicità stradali, i quali, a differenza degli usi poveri, riescono a competere per insediarsi nelle zone vitali e diversificate causandone il danneg- giamento, anche visuale;

ି usi realmente dannosi per dimensione, per i quali il problema non è la funzione in sé, ma la sua lunghezza sul fronte strada- le. Il contrasto a questo carattere dovrebbe essere uno dei veri scopi della teoria dello zoning, distinguendo le diverse nature e scale delle strade e le dimensioni e forme degli edifici che vi

Alcuni fattori di impedimento

L’analisi sulla diversità urbana di Jacobs, dopo averne elencato i fat- tori di sviluppo e sfatato alcuni miti negativi, si occupa di due fat- tori di impedimento che dovrebbero essere trasformati in fattori costruttivi.

L’autodistruzione della diversità

In un processo di arricchimento della diversità di un’area, lo spazio utile diventa oggetto di una concorrenza da parte di attività e per- sone disposte a ottenerlo, sostituendosi a usi meno redditizi e a re- sidenti a più basso livello di reddito. Questo processo porta alla di- struzione della complessa integrazione economica e sociale che ha originato il successo dell’area, rendendola via via sempre più mo- notona, sia visualmente che funzionalmente, con l’abbandono delle persone che la frequentavano per scopi diversi da quelli alla fine predominanti, destinandola a un declino. Jacobs individua un aspet- to generale di ciò che oggi viene definita gentrification, secondo il

termine coniato pochi anni dopo da Ruth Glass125. La diversità che

favorisce lo sviluppo di un dato luogo può, oltre determinati livelli, essere distrutta da sé stessa. Esempi tipici di questo sono gli eccessi portati dal turismo quando prevale sulla presenza di residenti, o i ristoranti che soppiantano gli usi primari che ne avevano portato alla nascita. Secondo Jacobs questo costituisce una «disfunzione

organica della città in quanto tale»126 e naturale conseguenza del

processo di creazione della diversità – che si basa sempre sulla so- stituzione di usi come prodotto della competizione economica per lo spazio, positiva finché produce un incremento netto di diversità – a cui occorre offrire alternative di sviluppo dirottandola verso altre zone trattandosi di «un processo che si svolge per un certo tempo in modo funzionale e salutare ma che ad un certo punto critico, non

riuscendo a modificarsi, diventa una disfunzione»127.

A questo riguardo, Jacobs riterrebbe necessaria una sorta di mec- canismo di “feedback urbanistico” ma poiché non è possibile un si- mile automatismo, avanza tre proposte per utilizzare positivamente la proliferazione di usi in un’area come agente di sviluppo di altre zone, la cui ovvia precondizione è che esse siano idonee a tali usi e possiedano le premesse per un loro successo. I tre fattori avanzati sono:

ି lo zoning mirato alla diversificazione, non con lo scopo di bloc- care in un dato momento usi e condizioni esistenti, quanto di sostenere la vitalità evitando che modifiche e sostituzioni non siano prevalentemente dello stesso genere (ad esempio inter- venendo su età, dimensioni e tipi degli edifici), accompagnato da provvedimenti fiscali e adattamenti opportuni;

ି gli edifici pubblici, la cui localizzazione e permanenza nel tempo deve contribuire all’aumento e al mantenimento di diversità di un’area;

ି le alternative concorrenziali, per creare un rapporto più equili- brato tra richiesta e disponibilità di “zone urbane diversificate, animate ed economicamente vitali”.

125. «One by one, many of the work-

ing class quarters of London have been invaded by the middle class- es – upper and lower. […] Once this process of ‘gentrification’ starts in a district it goes on rapidly until all or most of the original working class occupiers are displaced and the whole social character of the district is changed». R. Glass, «Introduction», Centre for Urban Studies (a cura di),

London: Aspects of Change, London,

1963, p. xviii.

126. J. Jacobs, Vita e morte delle gran-

di città. Saggio sulle metropoli ameri- cane, cit., p. 234.

I “vuoti di confine”

Si tratta del secondo fattore negativo, che vede la tendenza di singoli usi concentrati (ancorché alcuni desiderabili o necessari) a influire negativamente sulla vitalità urbana creando vuoti funzionali attor- no a barriere. Esempi lineari sono le sedi ferroviarie, le autostra- de urbane, i canali; esempi puntuali sono i complessi residenziali e universitari, i parchi industriali, i grandi parchi pubblici. Questi rappresentano barriere che trasformano le strade limitrofe in “vi- coli ciechi” dal punto di vista funzionale, dove diminuisce progres- sivamente il numero di utenti e la varietà di usi e le destinazioni possibili.

La scarsità di usi attorno a un confine può essere causata dal fatto che viene attraversato solo da chi vi abita o lavora (i complessi); l’at- traversamento è impedito completamente (ferrovie) o limitato nel tempo (un grande parco pubblico); l’intensità d’uso entro il confine è troppo bassa rispetto alla sua estensione (un parco industriale). Per modellizzare il fenomeno, Jacobs distingue il suolo in:

ି “generico”, che permette la circolazione pedonale pubblica; ି “speciale”, che non permette normalmente il libero attraversa-

mento, in quanto precluso, scoraggiato o non motivato (com- prende edifici di residenza, di lavoro o altro).

Tra i due esiste un rapporto di tensione, in quanto il suolo spe- ciale è necessario per generare flussi sul generico, ma costituisce anche un ostacolo al movimento. Qualora il suolo speciale rappre- senti un ostacolo troppo esteso, questa tensione si annulla e si crea una “zona morta”, un vuoto nel suolo generico, in cui circolazione e intensità d’uso diminuiscono bruscamente, potendo causare con- seguenze economiche e sociali negative. Ad una scala maggiore, i confini possono separare le parti di una città, con effetti non sempre nocivi, ma a livello di quartiere un’eccessiva frammentazione è for- temente negativa.

È necessario riconoscere che questi usi sul “suolo speciale” sono normalmente necessari e importanti per la vita urbana, quindi te- nere conto di questo loro carattere intrinseco ed evitare di erigere barriere non necessarie, che possono generare un vuoto dannoso anche per le stesse attrezzature. Si dovrebbe quindi cercare, con una giusta progettazione, di rendere i loro perimetri punti di attivi- tà, in relazione funzionale con il tessuto urbano circostante. La città e l’automobile

Infine, le questioni connesse alla mobilità sono per Jacobs stretta- mente connesso a quello della diversità urbana. La mobilità è una necessità primaria, in quanto rende possibile la fruizione della mol- teplicità di scelte e l’intensità degli scambi che costituiscono il fon- damento della vita in città. Il punto è dunque come assicurare la mobilità senza distruggere la complessità urbana. La mobilità pri- vata tende a erodere i tessuti urbani eliminandone o riducendone

la complessità e l’integrazione funzionale; tuttavia, l’automobile in sé non è l’unica responsabile, in quanto vi è pure la mancanza di