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Il significato del concetto costituzionalmente orientato di rieducazione

4. Il significato del concetto costituzionalmente orientato di rieducazione.

Nel momento in cui ci si pone il problema di come operi il principio della finalità rieducativa della pena, appare necessario chiarire quale sia la portata del generico concetto di “rieducazione”.

Tale nozione si presta ad essere variamente intesa, assumendo una molteplicità di «significati che spaziano, senza soluzione di continuità, da un massimo ad un minimo di contenuti morali, da accezioni arricchite e interiorizzate ad altre scarnificate e proiettate verso l'esterno»137 e, pertanto, per ottenere una chiara definizione deve essere operata una interpretazione sistematica. Alla luce di tali premesse non sembra affatto eccessivo affermare che dietro lo schermo del significato attribuito al concetto di rieducazione può riproporsi quasi integralmente il dibattito fra dottrine preventive e dottrine retributive della pena138: «a seconda che per rieducazione si intenda l'acquisizione di una nuova moralità, il ravvedimento del soggetto, la modificazione del suo atteggiamento nei confronti dei beni tutelati dall'ordinamento penale, o invece si intenda una buona condotta puramente esteriore, il mero rispetto della legge penale, considerato indipendentemente dai fattori che lo rendono possibile»139.

Sembra innanzitutto da escludere che l'art. 27 co. 3, Cost. recepisca l'idea rieducativa in una accezione puramente eticizzante, qual è quella sottesa ad un concetto di emenda morale o correzione morale del delinquente.

Nulla, nella Costituzione, autorizza lo Stato a prendersi cura della moralità dei cittadini. Dalla Carta costituzionale non si ricava l'immagine di uno Stato che incarni una idea morale e che sia legittimato a richiamarsi al dovere di amministrare la giustizia secondo il suo valore assoluto140; da quando è stata superata l’equazione per

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PUGIOTTO, Una questio sulla pena dell’ergastolo, cit.

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DOLCINI, La «rieducazione»del condannato tra mito e realtà, cit., p. 471.

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Bettiol, non unico tra gli autori retribuzionisti, rileva a questo proposito le strette affinità fra un concetto di rieducazione arricchito di contenuti morali e il concetto di emenda, assunta quale fine della pena retributiva. Tali affinità consentono a Bettiol di affermare che «l'idea retributiva porta alla rieducazione». In proposito si veda BETTIOL, Colpa d'autore e certezza del diritto, in Riv. it. dir. proc. pen.,1977, p. 419.

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Sono queste le significative parole che usa DOLCINI, La «rieducazione del condannato» tra mito e realtà, cit., p. 471 e ss.

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cui il reato si identificherebbe con il peccato141, è stata sottratta allo Stato la possibilità di occuparsi della moralità dei cittadini, dovendo occuparsi esclusivamente della difesa dell’ordine esterno.

D'altronde non tutti i reati contenuti nei moderni ordinamenti giuridici contravvengono a precetti morali consolidati ed anzi, negli ultimi decenni, è andato aumentando il numero di quei reati c.d. di pura creazione legislativa, il cui contenuto non ha alcuna implicazione etica.

Ma l'obiezione principale che si può muovere all'interpretazione in senso di emenda morale è che la pretesa di modificare l'atteggiamento interiore del reo si porrebbe in contrasto con i principi su cui poggia una democrazia pluralistica, consacrati dalla nostra Carta costituzionale, che rifiuta l'idea di una morale unica e garantisce la coesistenza di concezioni etiche diverse. In uno Stato democratico, di diritto, rieducare non può equivalere a pretendere il pentimento interiore di un delinquente concepito come individuo isolato, ma deve tendere a riattivare il rispetto dei valori fondamentali della vita sociale142.

Anche l'interpretazione secondo cui la rieducazione si identificherebbe con il reinserimento sociale o la risocializzazione del delinquente, tuttavia, non impedisce che sorgano alcune perplessità; tale teoria sembra infatti dare per scontato che la criminalità sia esclusivamente la conseguenza di una situazione di sottosviluppo ed emarginazione sociale. In quest’ottica, pertanto, la rieducazione si porrebbe come una sorta di “socializzazione sostitutiva” che tende ad inserire nella società soggetti posti ai margini che non conoscono le regole della convivenza civile: lo stesso trattamento punitivo si pone come strumento «finalizzato a rimuovere le difficoltà oggettive che impediscono il pieno sviluppo della persona umana»143.

Una tale interpretazione sembra dimenticare che se da un lato è vero che in molti casi all'origine del fenomeno criminale vi sono situazioni di emarginazione, debolezza e inferiorità sociale, questo tuttavia non può essere considerato un assunto vero in assoluto. Vi sono infatti reati, soprattutto di carattere economico, che per la loro natura possono essere commessi solo dai “colletti bianchi”144, e cioè da quei soggetti

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DOLCINI-MARINUCCI, Manuale di diritto penale, cit., p. 5 e ss. Tale svolta epocale avvenne dapprima grazie al pensiero del giusnaturalisti ma si consolidò definitivamente con le teorie illuministe di cui fu massimo esponente, in Italia, Beccaria.

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MOCCIA, Funzione della pena ed implicazioni sistematiche: tra fonti europee e Costituzione italiana, in Dir. pen.e proc., 2012, p. 925.

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FIANDACA -DI CHIARA, Una introduzione al sistema penale, cit., p. 36.

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Per un'analisi attenta e completa del concetto di “crimini dei colletti bianchi” cfr. SUTHERLAND, White Collar Crime, New York, 1949. Con tale espressione SUTHERLAND indica quel particolare

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che sono ben integrati nei circuiti dell'economia e della società; questi soggetti, essendo ben inseriti non necessitano affatto di un'opera di risocializzazione o reinserimento sociale.

Resta allora da ricercare una nozione di rieducazione dalla portata più ampia e comprensiva di ogni situazione che si possa prospettare.

Tutto ciò premesso, rimane una sola alternativa e cioè quella di circoscrivere il significato della rieducazione al rispetto della legalità esteriore145.

Il concetto di legalità esteriore consiste nella mera acquisizione della capacità di vivere nella società nel rispetto della legge penale senza incorrere, in futuro, nella commissione di ulteriori reati. L'esecuzione della sanzione penale non solo non può essere il pretesto per «manipolare la personalità del condannato», cercando di trasformarlo in un cittadino modello, ma non può neppure imporre che i precetti penali vengano interiorizzati146; non importa se la rinuncia a delinquere che si ottiene costituisce il risultato di un autentico ravvedimento oppure solo il frutto di un lucido calcolo di opportunità147. Addirittura il compito della sanzione, ponendoci in questa prospettiva, può dirsi raggiunto anche quando il rispetto della legge risulti affidato soltanto al timore della pena.

Soltanto entro questi limiti può essere riconosciuto il diritto dello Stato di rieducare il condannato. Il fatto che la Costituzione stessa riconosca pari dignità sociale a tutti i cittadini e ponga un divieto di trattamenti inumani, impone limiti in senso garantista al principio di rieducazione148.

Per superare la frattura tra le varie interpretazioni di rieducazione è necessario distinguere l'obiettivo della rieducazione dalle tecniche che si rendono di volta in

genere di reati, quasi sempre sottovalutati e impuniti, commessi da esponenti della borghesia delle professioni, da leader della politica e dell'economia. Egli afferma che nelle statistiche criminali queste forme di reati non compaiono mai; ma in realtà non compaiono per una precisa scelta politica del legislatore, a sua volta controllato dalle lobbies. Per far sì che tali reati non siano investiti dallo stigma penale essi sono amministrativizzati, scomparendo così dal panorama penale e ciò fa sì che si crei un circolo vizioso che immunizza sempre e comunque i c.d. colletti bianchi dalla sanzione penale. I danni causati da questa forma di criminalità sono enormi e molto spesso si verificano a distanza di anni. Per di più, a differenza di reati che implicano una violenza personale e che in larga maggioranza sono derivati da un impulso incontrollato o da un'esecuzione solitaria, per la criminalità dei colletti bianchi è necessaria una premeditazione e una complessa preparazione.

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FIANDACA-DI CHIARA, Una introduzione al sistema penale, cit, p. 37.

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MOCCIA, Funzione della pena ed implicazioni sistematiche, cit., p. 925.

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In questo modo si ridimensionano, quantomeno in parte, le riserve di principio di quegli studiosi che criticano la rieducazione considerandola una pratica di origine ideologico-autoritaria che autorizzerebbe lo Stato a ricorrere alla pena come strumento di educazione coattiva e di subdola manipolazione della coscienza dei condannati.

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volta necessarie per raggiungere tale risultato149. L'obiettivo della rieducazione, intesa come acquisizione o riacquisizione da parte del condannato della capacità di assumere le norme penali come guida per la sua condotta, permane identico indipendentemente dalle caratteristiche della sua personalità e dalle sue condizioni sociali. Muterà, invece, in relazione a tali particolari caratteristiche e condizioni, la tecnica messa in atto per ottenere il risultato della rieducazione. Così se il condannato è un emarginato con effettivo deficit di socializzazione, non vi potrà essere verosimilmente una (ri)acquisizione dei valori della convivenza senza un previo superamento della condizione di emarginazione; il reinserimento in società (o socializzazione sostitutiva) diventa la tecnica tramite la quale si può avere speranza di realizzate il processo rieducativo in maniera efficace150. Se, viceversa, il reo è un soggetto che non presenta alcun problema di inserimento nella società e che, anzi, ha sfruttato proprio la sua posizione sociale per commettere un reato (come avviene nel caso dei c.d. colletti bianchi), il fondamento della sanzione sarà di tipo generalpreventivo positivo; si cercherà di rafforzare nell’ individuo, la tendenza al rispetto dei valori e dei principi fondamentali sui quali si fonda l’ordinamento giuridico, stimolandolo a tenere una condotta volta al rispetto, nel futuro, di comportamenti conformi alla legge penale. Anche in questo caso il principio della risocializzazione mantiene intatta la sua validità151.

Tuttavia, parte della dottrina nota che, se si presta attenzione al solo rispetto delle leggi in maniera formale, non si assicurano le migliori condizioni per una durevole osservanza dei precetti152. La stabilizzazione della capacità di non ricadere in un

delitto presuppone necessariamente una preliminare modificazione

dell'atteggiamento interiore del reo153. Dire ciò non significa rilegittimare il concetto di educazione alla moralità, ma arricchire di contenuti morali il concetto di rieducazione inteso come risocializzazione. In passato si è cercato di raggiungere questo obiettivo basandosi sulla c.d. pedagogia dell'autodeterminazione. Secondo tale accezione rieducare significherebbe predisporre le condizioni affinché il reo si possa convincere dell'opportunità di accettare l'offerta rieducativa; egli potrà scegliere liberamente tra i diversi sistemi di valori offertigli da un contesto sociale

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FIANDACA- MUSCO, Diritto penale, cit., p. 705.

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FIANDACA- MUSCO, Diritto penale, cit., p. 705

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MOCCIA, Funzione della pena ed implicazioni sistematiche, cit., p. 926.

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DOLCINI, La «rieducazione del condannato» tra mito e realtà, cit., p. 473; nello stesso senso FIANDACA-DI CHIARA, Una introduzione al sistema penale, cit., p. 279.

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eterogeneo. La rieducazione non è più indirizzata ad un sistema di valori condiviso dalla maggioranza dei consociati, ma è ottenuta facendo sì che il condannato possa autodeterminarsi nei confronti di valori eterogenei154. Anche se molto suggestiva, questa interpretazione si è mostrata troppo suscettibile a contestazioni difficilmente superabili. In primo luogo, infatti, non tiene conto del fatto che per molti condannati la scelta di criminalità può essere una scelta libera. In secondo luogo, si sottovaluta la difficoltà oggettiva che si presenterebbe dovendo educare un soggetto all'autodeterminazione in una situazione di coazione esterna quale è quella connessa all'esecuzione della pena; la contraddizione tra dominio e rispetto dei valori risulterebbe, inevitabilmente, impossibile da superare155.

Per superare tali critiche è stata prospettata, più recentemente, la possibilità di applicare un modello diverso, definito modello della pedagogia emancipatoria o teoria sociale emancipante156. Questo concetto indica che, durante la fase esecutiva, l'educazione alla libertà non può essere promossa dall'esterno, ma al contrario, la tecnica rieducativa dovrebbe rispettare l'autonomia del singolo e offrire al condannato tutto il sostegno socio-culturale possibile affinché riesca a risolvere liberamente in termini positivi quei problemi che lo hanno portato ad una condotta criminale. Anche questa interpretazione non è esente da critiche. Essa infatti, ancora una volta, propone un'interpretazione eziologica della criminalità talmente riduttiva che non è in grado di risolvere quei meccanismi criminogeni che, in quanto strutturali, non possono essere risolti dal soggetto individualmente. Questa concezione, nei termini in cui continua a non riconoscere che la criminalità è innanzitutto un problema sociale, finisce per diventare utopistica; sembra sperare, per il condannato, in una sorta di improbabile «folgorazione sulla via di Damasco»157. Come si può facilmente osservare, le prese di posizione più recenti della dottrina si preoccupano da un lato di vincolare l'impegno rieducativo alla disponibilità psicologica del reo e, dall'altro, di evitare di ricorrere a tecniche manipolatrici o comunque limitatrici dell'autonomia personale di esso. Affinché il processo

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Eser, giurista tedesco, per primo elaborò questa concezione della rieducazione fondandosi sulla teoria della pedagogia dell'autodeterminazione di Von Henting.

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Tali obiezioni sono presentate negli stessi termini da FIANDACA, Commento all'art. 27 co. 3 Costituzione, cit., p. 279 e da PAVARINI, La pena «utile», la sua crisi e il disincanto, cit., p. 22. Pavarini, in questo saggio, cita come principale sostenitore di questa critica Haffke che, tentando di individuare un'alternativa possibile a questo modello si rifà alla teoria della pedagogia emancipatoria.

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Il termine pedagogia emancipatoria è usato da PAVARINI, La pena «utile», la sua crisi e il disincanto, cit., p. 22; il termine teoria sociale emancipante, invece, è usato da FIANDACA, Commento all'art. 27 co. 3 Costituzione, cit., p. 279.

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rieducativo possa davvero raggiungere l'obiettivo cui tende, senza tradursi in un'imposizione coercitiva, occorre che vi sia la disponibilità psicologica del destinatario158. È in questo senso che va inteso il corretto significato del verbo «tendere» impiegato dal legislatore costituente nell'art. 27 co. 3; in questa prospettiva il consenso personale del soggetto rieducando si pone come requisito imprescindibile del trattamento rieducativo se si vuole che esso abbia successo. La rieducazione deve essere tentata ma trova un ostacolo insormontabile in caso di rifiuto da parte del destinatario della sanzione.

Una simile tensione conflittuale tra esigenza di rieducare e indisponibilità psicologica del reo diventa più difficile da superare nei casi in cui il delitto è frutto di una scelta politico-ideologica che si pone in contrasto con i principi dell'ordinamento159. In queste situazioni il principio rieducativo entra davvero in crisi perché è necessario rispettare anche un altro valore imposto dal dettato costituzionale, cioè l'autonomia morale dell'individuo160. È pur vero che queste sono ipotesi-limite, mentre in una società pluralistica come la nostra, se è vero che non si può pretendere una completa adesione ai valori dominanti, è pur vero che si può esigere che vengano rispettate le forme minime di vita in comune.

Da questo quadro risulta che, come né il singolo né la società possono imporre unilateralmente i loro valori, non è neppure lecito perseguire la risocializzazione del singolo senza che anche la società sia disposta a ridiscutere in maniera critica i valori dominanti.

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MOCCIA, Funzione della pena ed implicazioni sistematiche, cit., p. 926.

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È il caso dei delitti di matrice terroristica, di eversione dell'ordine democratico o delle associazioni di tipo mafioso. Nel caso dei delitti di matrice terroristica o eversiva chi commette un reato lo fa con la ben precisa finalità di incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e di destabilizzarne l'ordine per restaurarne uno nuovo. Si tratta di reati commessi da soggetti spinti da ben precise e radicate convinzioni ideologiche che si pongono in totale contrasto con l'ordine di valori precostituito. Nel caso, invece, dei delitti commessi nell'ambito di associazioni di tipo mafioso il soggetto è inserito in una sorta di struttura parastatale che, nell'ambito in cui opera, si sostituisce allo Stato contrapponendo ad esso altri valori e spesso altri codici di condotta. Frequentemente l'appartenenza a queste organizzazioni è talmente forte e l'acquisizione dei valori che essa garantisce talmente radicata che anche il percorso rieducativo attuato in fase di esecuzione della pena si mostra molto difficile a causa delle resistenze che il condannato oppone. Inoltre, bisogna sottolineare che i responsabili di reati di tipo terroristico, eversivo e mafioso, proprio per la loro pericolosità, sono sottoposti al regime c.d. di “carcere duro”, previsto dall'art 41-bis dell'ord. penit. e, in base all'art. 4-bis dell'ord. penit. sono interdetti dalla possibilità di accedere ai benefici penitenziari, a meno che decidano di collaborare con la giustizia. Sintomi, questi, del fatto che si tende a considerare tali soggetti come “irrecuperabili”.

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