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Le interpretazioni della funzione rieducativa nel dibattito penalistico

2. L’idea di rieducazione

2.2. Le interpretazioni della funzione rieducativa nel dibattito penalistico

Nel periodo successivo ai lavori della Costituente la realizzazione e la valorizzazione della prorompente portata dell'ideale rieducativo della pena fu ostacolato dai continui mutamenti politici, sociali e culturali.

I primi anni cinquanta, infatti, hanno rappresentato un periodo caratterizzato da alti indici di criminalità, che ha sicuramente costituito il terreno fertile per interpretazioni dottrinali tese a comprimere la portata innovativa del principio rieducativo. Come sempre avviene in periodi di forte allarme sociale, anche in questi anni tendono a prevalere preoccupazioni di tipo generalpreventivo, cui si accompagna la mortificazione delle teorie di prevenzione speciale e un pericoloso ritorno a teorie retributive per lo più orientate in senso religioso, derivanti dall'affermarsi nel dopoguerra dell'egemonia culturale cattolica51.

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FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'Ottocento alla riforma penitenziaria, cit., p. 71.

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FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'Ottocento alla riforma penitenziaria, cit., p. 75 e ss. per la prima volta nella storia italiana la componente cattolica rappresenta il partito di maggioranza e di governo e ciò, inevitabilmente, comporta risvolti determinati anche in campo dottrinario.Il pensiero cattolico, pur essendo variamente articolato, prevede ancora che la giustizia della pena e l’utilità di essa occupino piani distinti; la giustizia è il fondamento della pena e l’utilità, invece, è solo il limite esterno che deve essere posto ad essa.

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Coloro i quali erano da tempo fedeli ad un orientamento di ascendenza positivistica, nonostante il clima culturale avverso, si mostrano da subito pronti ad accogliere gli elementi di rottura che il nuovo art. 27 co. 3 introduce rispetto al passato.

Non manca poi chi, pur non appartenendo alla corrente positivista riconosce che tale articolo indica come fine ultimo della pena quello della rieducazione, mettendo al contempo in guardia da una eccessiva sopravvalutazione del dato testuale52.

Infine, vi sono i c.d. retribuzionisti, primi tra tutti Petrocelli e Bettiol, già impegnati, ancor prima che i lavori dell'Assemblea Costituente avessero inizio, a demolire l'ideale rieducativo. È quest'ultima la corrente che va maggiormente estendendosi nel corso degli anni cinquanta.

La posizione più significativa, anche perché non è semplice riproposizione del passato, ma è spesso indirizzata verso nuovi fronti, è quella di Bettiol. Egli, in una serie continua di saggi, nell'arco di un quarantennio, ribadendo la finalità retributiva della pena, ha preso di mira sia la prevenzione speciale che quella generale, accusando entrambe di fare dell'uomo un oggetto pieghevole alle finalità del gruppo, della società, dello Stato53. Ma la sua analisi più attenta si è rivolta al «mito della rieducazione» dal momento che, proprio questa idea rieducativa e risocializzatrice, vulnererebbe l'uomo nella sua libertà interiore e sarebbe in agguato per soffocarne l'individualità in nome della prepotenza politica e del totalitarismo54.

Diverse sono le argomentazioni che i retribuzionisti adducono a sostegno della tesi che cerca di neutralizzare la finalità rieducativa della pena, espressa in ambito costituzionale. Partendo dalla precedenza data, nel testo dell'art. 27 co. 3, all'enunciato che contiene il divieto di trattamenti inumani rispetto a quello che riguarda la finalità rieducativa, essi cercano di dimostrare come la pena, secondo il legislatore costituzionale, continua a mantenere il suo ineliminabile carattere "afflittivo". Il ragionamento nella sua linearità risulta ineccepibile: «Se le pene avessero dovuto avere un contenuto essenzialmente ed esclusivamente rieducativo;

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Per queste differenti prese di posizione si veda FIANDACA, Commento all’art. 27 co. 3 Costituzione, cit., p. 229.

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VASSALLI, Il dibattito sulla rieducazione (in margine ad alcuni recenti convegni), in Rass. penitenz. e crimin., 1982, p. 445.

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BETTIOL, Il mito della rieducazione, in AA.VV., Sul problema della rieducazione del condannato, II Convegno di dir. pen., 1963, Bressanone, Padova, 1964, p. 3 e ss. È importante specificare che questa posizione di Bettiol, legata ad una visione più specificamente cristiana del mondo del diritto, non nega del tutto la possibilità di correzione del reo, la quale del resto, accanto all'idea di reintegrazione dell'ordine violato e del castigo, è costantemente presente nella dottrina penale cattolica; ed anzi viene più volte in rilievo che l'idea retributiva quando altamente morale è pedagogica e porta con se un principio di ravvedimento e di emenda. Si tratta tuttavia di una rieducazione meramente eventuale ed intesa come emenda morale del reo, non come recupero sociale o risocializzazione, concetti che Bettiol condanna aspramente ravvisando una impostazione marxista.

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se, insomma, le pene non avessero dovuto avere carattere (...) punitivo, il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità non avrebbe avuto ragione di essere, perché una funzione che sia essenzialmente rieducativa esclude da sé, per la sua stessa natura, i trattamenti contrari al senso di umanità, senza bisogno di alcuna dichiarazione esplicita »55.

Una seconda argomentazione è basata sul significato letterale del verbo "tendere", il quale starebbe a significare che la rieducazione non rappresenta lo scopo essenziale della misura, ma solo un risultato eventuale della pena, da tenere in conto soprattutto nella fase esecutiva56.

Spingendosi ancora più in là, la dottrina degli anni cinquanta, nel tentativo di mitigare quella che poteva essere una prospettiva potenzialmente rivoluzionaria desunta dal dettato costituzionale, ha cercato di ricondurre il terzo comma dell'articolo 27 della Costituzione all'ambito delle norme programmatiche, negando che esso potesse avere efficacia vincolante per il legislatore e riconoscendovi soltanto una direttiva che egli avrebbe dovuto realizzare nei limiti delle sue possibilità; tentativo questo che ebbe fin da subito pochi consensi dal momento che già allora la dottrina maggioritaria gli attribuiva efficacia precettiva57.

Ma, al di là delle critiche basate sul dato testuale, l'attacco al principio di rieducazione è basato su argomenti di fondo dal punto di vista del contenuto dell'ideale rieducativo. Esso, infatti, tenderebbe ad ottenere il reinserimento sociale del condannato attraverso una meccanica sottomissione dell'individuo a regole precostituite e indipendenti dalla sua volontà; una sorta di rieducazione forzata contro la quale si rivendica con vigore il diritto del cittadino alla libertà di coscienza58.

Negli anni sessanta resta vivo il dibattito sulla funzione della pena e ciò dimostra come l'idea della rieducazione evochi problematiche che neppure i sostenitori di essa riescono a rimuovere del tutto.

Gli anni sessanta sono gli anni del progresso economico e dell'avanzare politico delle forze di centro-sinistra; il clima di cambiamento e di attese riformistiche che li

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BETTIOL, Repressione e prevenzione nel quadro delle esigenze costituzionali, in Riv. it. dir. pen., 1951, pag. 376.

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ZUCCALÀ, Della rieducazione del condannato nell'ordinamento positivo italiano, in AA. VV., Sul problema della rieducazione del condannato, cit., pag. 70.

57

VASSALLI, Sul trattamento penale e penitenziario del delinquente seminfermo di mente e sulla necessità di una riforma del codice penale vigente, in Giust. Pen., 1950, p. 140 e ss.

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pervade investe anche il problema della rieducazione dei detenuti59. Sebbene non si giunga ad un vero punto di svolta rispetto al dibattito che aveva animato il recente passato, sarebbe falso negare il progressivo affermarsi di alcuni elementi di novità. Si comincia a far strada in questi anni la teoria eclettica della polifunzionalità della pena, in base alla quale funzione retributiva, generalpreventiva e specialpreventiva sono sommate senza che una abbia un valore più pregnante rispetto alle altre60; le diverse funzioni della pena, secondo tale teoria, si alternano a seconda delle esigenze legate ai casi concreti che vengono affrontati di volta in volta dal giudice. Se la tesi eclettica da un lato si preoccupa di non rompere i ponti con la tradizione, dall'altro si mostra, al contrario, disposta a fare ampie concessioni all'ideale rieducativo.

Tale concezione polifunzionale è introdotta prendendo le mosse da un'idea di sanzione saldamente ancorata al modello retributivo61.

È significativa, a questo proposito, la posizione di Vassalli che, pur partendo dalla convinzione che l'essenza della pena abbia natura retributiva, finisce per affermare che la funzione rieducativa «è tra tutte la più pregna di significati e di possibilità», aggiungendo che, «già largamente presente nel codice Rocco, entra poi a vele spiegate nel nostro sistema coll'art. 27 della Costituzione repubblicana, nel quale il fine della rieducazione è iscritto addirittura come obbiettivo principale, oltre che inderogabile, della pena»62 .

Vi sono poi Autori in cui la prospettiva della polifunzionalità emerge, già in origine, con una accentuazione più marcata della finalità rieducativa63.

Il riaffiorare dell'interesse per la questione della rieducazione è testimoniato, nei primi anni sessanta da convegni di studio su tematiche che direttamente o indirettamente la coinvolgono; di particolare rilevanza scientifico-penalistica fu il convegno tenutosi a Bressanone nel 1963 ed esplicitamente dedicato a questo problema. Da questi incontri di studio risulta che le posizioni assunte dalla dottrina italiana si orientano lungo due direttrici. La prima, non a caso facente capo a Bettiol, è incline ad assegnare alla funzione rieducativa uno spazio limitato alla fase esecutiva; la seconda, più vicina ai non retribuzionisti, sottolinea che il principio

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Per un' attenta analisi del clima socio politico e dottrinale dell'epoca, FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'Ottocento alla riforma penitenziaria, cit., p. 89 e ss.

60

FIANDACA-DI CHIARA, Una introduzione al sistema penale, cit., p. 41; PITTARO, Commentario breve alla Costituzione, (a cura di) Bartole, Bin, Crisafulli, Paladin, Padova, 2008, p. 281.

61

VASSALLI, Funzioni e insufficienze della pena, Riv. it. dir. proc. pen., 1961, p. 296 e ss.

62

VASSALLI, Funzioni e insufficienze della pena, cit., p. 318 e ss.

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Tra questi NUVOLONE, Il problema della rieducazione del condannato, in AA.VV., Sul problema della rieducazione del condannato, cit., pag. 351 e ss.

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rieducativo rappresenta non una semplice aspirazione dottrinaria o un generico orientamento di politica criminale, bensì «un preciso imperativo giuridico (…) che ha tutte le caratteristiche della norma ad efficacia immediata»64.

Risultato tangibile del rinato interesse verso la funzione rieducativa della pena è da un lato, grazie alla promulgazione della legge n. 1634 del 1962, l'estensione dell'applicabilità della liberazione condizionale agli ergastolani, dall'altro la riproposizione, con un vigore perduto ormai da decenni, della contestazione delle pene detentive brevi. Si rileva come esse non solo allontanano il reo dalla comunità con inevitabili effetti desocializzanti, ma addirittura, in molti casi si rivelano criminogene. Inoltre, un elemento di assoluta novità è costituto dall’individuazione di veri e propri «diritti del condannato», ai quali, fino a quel momento, mai nessuno aveva dato spazio65.

Sul finire degli anni sessanta forti spinte verso una tendenza alla piena valorizzazione del principio rieducativo si fanno sentire su due diversi fronti. Innanzitutto le contestazioni del sessantotto hanno inevitabili risvolti anche sul modo di affrontare i problemi relativi alla funzione della pena e al sistema penale nel suo complesso; sorge un nuovo e diffuso interesse politico-culturale per la questione penitenziaria che arriva a coinvolgere anche l'opinione pubblica e che fa sì che vengano accelerati i lavori parlamentari per una riforma in questo campo66.

Sull'altro fronte, nello stesso periodo, un rinnovato interesse verso la tematica della rieducazione emerge nell'ambito penalistico accademico dove minore attenzione viene dedicata alle questioni puramente teoriche mentre ci si avvicina di più ai reali problemi del funzionamento del sistema penale.

In un simile contesto politico e culturale il principio di rieducazione trova la sua massima espressione67. Affiorano orientamenti teorici che hanno lo scopo di rivedere

64

NUVOLONE, Il problema della rieducazione del condannato, cit., p. 351.

65

FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'Ottocento alla riforma penitenziaria, cit., p. 95.

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FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'Ottocento alla riforma penitenziaria, cit., p. 98. Fino a questo momento le tematiche relative alla pena erano state appannaggio esclusivo degli studiosi penitenziaristi. A partire dal 1968, progressivamente, comincia ad essere la parte “bassa” della società «ad assumere il massimo dinamismo di idee», tanto che sono i detenuti stessi a «rivelare i guasti e le arretratezze della vita in carcere e la loro condizione subumana».

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Bisogna sottolineare che tale fiorente stagione per il concetto di rieducazione è in gran parte favorita dall'impegno in questo settore della dottrina più “a sinistra”. Non è un caso che le prese di posizione più significative provengano, in questo periodo, da una dottrina di orientamento “marxista” e che siano originate da convegni organizzati da centri culturali gravitanti nell'ambito della sinistra storica. Un altro dato rilevante per comprendere appieno il contesto in cui tali cambiamenti ebbero origine è la nascita della rivista La questione criminale che, sotto la direzione di BARATTA e BRICOLA, si propone di contribuire alla trasformazione del sistema sociale sulla base di osservazioni e ricerche scientifiche che considerano il punto di vista dell'interesse delle classi subalterne.

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il sistema penale in chiave rieducativa, non più solo assumendo la rieducazione come criterio ispiratore delle misure relative alla fase esecutiva, ma anche nella prospettiva della teoria generale del reato ed in sede di elaborazione teorica dei criteri politico-criminali destinati a guidare la selezione legislativa dei fatti punibili68.

Nei primi anni settanta la dottrina comincia a realizzare che «quanto più un sistema penale è orientato verso la prevenzione speciale (rieducazione o risocializzazione), tanto maggiore deve essere la gamma di strumenti sanzionatori o di mezzi alternativi rispetto alle sanzioni penali in senso classico che esso offre al giudice»69. Da queste riflessioni riparte una rinnovata e più diffusa contestazione delle pene detentive brevi in quanto incapaci di reintrodurre i delinquenti nel consorzio sociale ma, al contrario, idonee solo a produrre rovinosi effetti di contagio criminale e ulteriore desocializzazione.

Nel campo dell'esecuzione penale le speranze rivolte ad «un carcere non più afflittivo ed oppressivo, ma tendente al recupero sociale del condannato, alla sua valorizzazione come uomo e cittadino»70 si tramutano in un impegno diretto a far sì che si sviluppino, all'interno dell'istituzione penitenziaria, non solo attività lavorative e culturali, ma, anche, sistemi che siano in grado di facilitare i contatti con la società all'esterno71.

Il cammino verso l'apertura ad una concezione più innovativa di rieducazione è destinato ad arrestarsi nella seconda metà degli anni settanta con l'inesorabile declino dell’ideale rieducativo e la «conseguente rivalutazione delle esigenze di prevenzione generale e difesa sociale»72. In questo panorama, sono sempre di più numerose le voci che parlano di rieducazione in termini di puro mito73.

Quanto alla nostra dottrina, essa si focalizza su aspre critiche ai concetti di recupero e reinserimento, evitando di cimentarsi in nuovi tentativi di sintesi di largo respiro sulle funzioni della pena.

Vengono rilevati gli insuccessi di quei Paesi che per primi avevano sperimentato il modello trattamentale rieducativo (soprattutto i Paesi Scandinavi), in cui non era

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FIANDACA, Commento all'art. 27 co. 3 Costituzione, cit., p. 242.

69

BRICOLA, Il sistema sanzionatorio penale nel codice Rocco e nel progetto di riforma, in AA. VV., Giustizia penale e riforma carceraria in Italia, Atti del seminario organizzato dal Centro studi ed iniziative per la riforma dello Stato, Roma, 1974, p. 41.

70

NEPPI-MODONA, Vecchio e nuovo nell'ordinamento penitenziario, in AA. VV., Giustizia penale e riforma carceraria in Italia, cit., p. 12.

71

FIANDACA, Commento all'art. 27 co. 3 Costituzione, cit., p. 244.

72

FIANDACA, Commento all'art. 27 co. 3 Costituzione, cit., p. 258.

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Termine usato con tanta frequenza da fare addirittura da titolo per un saggio di DOLCINI pubblicato in quegli anni: La «rieducazione del condannato tra mito e realtà» in Riv. it. dir. proc. pen., 1979, p. 489 e ss;

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stato raggiunto, secondo quanto risultava dai dati statistici di quel tempo, alcun risultato positivo in materia di recidivismo74.

Un ruolo importante è giocato anche dalla crisi economica che dilaga a partire dal 1973 e mette in crisi il sistema del Welfare State; le nuove tecniche alternative al carcere, sebbene inizialmente presentate come meno onerose dell’istituzione carceraria, rivelano ora di non poter fare a meno di un complesso e costoso apparato organizzativo.

Si assiste, insomma, ad un vero e proprio «ritorno neoclassico» accompagnato dalla riscoperta delle teorie dell’intimidazione e della neutralizzazione, presentate non più in chiave retributiva, ma come altra faccia della prevenzione speciale, in relazione a quei soggetti che si fossero mostrati insensibili ai tentativi di risocializzazione75. La conseguenza è che a partire dal '75 ha inizio la produzione legislativa conosciuta come “legislazione di emergenza”. In un momento storico in cui dilaga la criminalità organizzata, terroristica e comune, lo Stato cerca di frenare l'allarme sociale che si scatena nella popolazione mettendo in atto una risposta in chiave repressiva; aumentano i limiti edittali di pena, sono elaborate nuove fattispecie di reato, gli aspetti maggiormente improntati all’ideale rieducativo del nuovo ordinamento penitenziario sono accantonati ed è prevista l'introduzione di una nuova istituzione penitenziaria: il carcere di massima sicurezza.

Invece di elaborare un progetto di intervento ponderato, che prospetti soluzioni strutturali, in grado di risolvere alla base le cause di una tale crisi, ci si limita ad elaborare risposte isolate per far fronte alle situazioni sentite come più urgenti, inasprendo la reazione punitiva all'insegna di una prevenzione generale attuata mediante l'intimidazione. Lo scopo sembra essere più quello di inviare un messaggio

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DOLCINI, La «rieducazione» del condannato tra mito e realtà, in Riv. it. dir. proc. pen., 1979, p. 495 e ss. Nessuna differenza rilevante si riscontrerebbe, dunque, riguardo alla possibilità di ricadere nel delitto, confrontando gli esiti della detenzione senza che sia stata attuata alcuna forma di trattamento ed il caso in cui, invece, il detenuto sia stato sottoposto a trattamento risocializzante. Addirittura, in questi anni, sulla base di alcune esperienze nordamericane, si diffonde in Europa, proprio presso quegli Stati che hanno sperimentato la crisi dell'ideologia del trattamento rieducativo, la teoria del c.d. shock-system. La logica che vi è sottesa è che «un assaggio di prigione è necessario per convincere il delinquente della gravità del suo delitto e per segnalare all'opinione pubblica ed ai mass media che in un modo o nell'altro una qualche pena è stata inflitta». Tale sistema, comunque, entra solo in misura marginalissima nell'arsenale sanzionatorio europeo dal momento che lascia irrisolto il problema, tutt'altro che sottovalutabile, dell'impatto con il carcere, soprattutto per il delinquente primario e per reati di modesta gravità. Per di più in Italia la pena-shock, a causa della lunghezza dei processi, verrebbe inflitta dopo molti anni dalla commissione del reato e si rivelerebbe, pertanto, del tutto inutile. Questo quadro è tracciato da DOLCINI-PALIERO, Il carcere ha alternative? Le sanzioni sostitutive della detenzione breve nell'esperienza europea, Milano, 1989, p. 10 e ss.

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rassicurante e soddisfacente all'opinione pubblica, che quello di trovare una risposta efficace e lungimirante per la soluzione del problema criminale76.

L'atteggiamento di sfiducia verso l’ideale rieducativo viene dichiarato in forma ufficiale nel V Congresso delle Nazioni Unite per la prevenzione del reato e il trattamento dei delinquenti, tenutosi a Ginevra nel settembre del ' 7577.

A livello internazionale, concorse a determinare questa perdita di fiducia nei confronti della rehabilitative justice il cambiamento di opinione di gran parte dell'intellighenzia liberale americana che avvenne in quel periodo. Proprio in questi anni, infatti, in America si va affermando una corrente di pensiero che più che una scuola penalistica, esprime un insieme di idee, una sorta di «manifesto» a metà tra radicalismo e liberal-garantismo, conosciuto come Justice Model. Ciò che accomuna gli Autori che vi aderiscono è una decisa opposizione nei confronti della prevenzione speciale (e, in particolar modo, della sua interpretazione riduttiva del trattamento risocializzante), nonché una convinta adesione ai principi classici della certezza del diritto e una più accentuata enfasi sulla centralità dell'azione criminale piuttosto che sull'attore criminale. Trovano pertanto spazio, all'interno di questa posizione, le istanze dirette ad una codificazione penale in cui la pena sia certa ed il più possibile oggettiva, al fine di limitare la discrezionalità del giudice. Alcuni autori arrivano addirittura ad auspicare il ritorno ad un diritto penale di tipo classico, basato su una tecnica sanzionatoria favorevole alla pena-tariffa78.

Pare, cioè, di assistere ad un tentativo confuso e parzialmente inconsapevole di