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È in questo clima storico e culturale che vengono emanate la legge 26 luglio 1975, n. 354, intitolata «Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative della libertà» ed il relativo «Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà», approvato con d.P.R. del 29 aprile 1976, n. 431.

Con la legge 354/1975 il legislatore, dando attuazione al dettato costituzionale e armonizzando la materia con l’evoluzione a cui è andata incontro in altre democrazie occidentali e con le indicazioni contenute nelle risoluzioni adottate dall’ONU e dal Consiglio d’Europa su questo tema, muta radicalmente le linee guida alla base del trattamento dei detenuti39. La vera rivoluzione sta nel fatto che il carcere non è più inteso come luogo di segregazione e di allontanamento dalla società, ma come una opportunità data al condannato di intraprendere un percorso di rieducazione e reinserimento in società.

La legge sull’ordinamento penitenziario è «la prima legge organica di riforma del sistema penale ispirata al principio della funzione rieducativa della pena»40. Una volta abbandonata la filosofia secondo cui la pena avrebbe dovuto essere afflittiva e mortificante, «il legislatore del 1975 ha costruito l’intera disciplina del trattamento in istituto facendola gravitare sulla figura del detenuto (…) quale protagonista attivo e, nel contempo, quale fine ultimo dell’esecuzione penitenziaria, nella prospettiva della

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FASSONE, La pena detentiva, cit., p. 98.

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Per quanto riguarda le risoluzioni dell’ONU e del Consiglio d’Europa, si fa riferimento all’Ensemble de regles minima pour le traitement des detenus, risoluzione adottata dall’ONU il 30 ottobre 1955 e all’Ensemble de regles minima pour le traitement des detenus, risoluzione adottata dal Comitato dei Ministri il 19 gennaio 1973 a seguito della 27° riunione dei delegati dei Ministri del Consiglio d’Europa.

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GREVI, Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario a cinque anni dalla riforma, in (a cura di) Grevi, Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Bologna, 1981, p.1.

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rieducazione»41. Sotto la rubrica «trattamento e rieducazione», l’art. 1 co. 6 di questa legge dispone che «nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi». La prima preoccupazione del legislatore è quella di evitare che la pena sia un fattore di desocializzazione, che crei cioè ulteriori ostacoli all’integrazione del soggetto nel tessuto sociale, producendo nuovi stimoli verso la commissione di reati42. Fino a quel momento il carcere è stato il luogo in cui ogni momento della vita del detenuto era regolamentato, predeterminato e controllato dall’alto; si tendeva a sottrarre al detenuto ogni minimo margine di scelta responsabile per cui, privato di ogni forma di riservatezza e di possibilità di autodeterminarsi, mortificato nella sua personalità, rischiava di regredire ad uno stato infantile. Ma il carcere non si limitava a questo; esso contestualmente, inseriva il soggetto in veri e propri gruppi criminali formatisi all’interno, esponendolo all’influenza della subcultura carceraria43. Pertanto, proprio l’infantilizzazione e l’adesione dei reclusi alle subculture carcerarie sono gli obiettivi principali contro cui si rivolge la riforma attuata nel 1975, allo scopo di depurare la pena detentiva dalle sue componenti desocializzanti. Nell’intento di soddisfare questa esigenza primaria, il legislatore promuove, con l’art. 15 dell’ord. penit. la c.d. ‘socializzazione positiva’ da raggiungersi con gli strumenti dell’istruzione, del lavoro, della religione e delle attività culturali in generale. Il trattamento non riveste mai carattere impositivo e presuppone la libera adesione da parte dei soggetti a cui è destinato. Molte sono le innovazioni introdotte riguardo al trattamento dei detenuti: esso deve essere applicato escludendo ogni forma di ingiustizia e di discriminazione (art 1 co. 2 ord. penit.)44; i detenuti non devono più essere indicati con il numero di

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GREVI, Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario a cinque anni dalla riforma, cit., p.7.

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DOLCINI, La «rieducazione del condannato» tra mito e realtà, in Riv. it. dir. proc. pen, 1979, p. 474.

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Quando si parla di subcultura carceraria si fa riferimento ad un fenomeno che si sviluppa in ambiente penitenziario per cui il detenuto, dal momento in cui fa ingresso in un istituto, vede annullata ogni consapevolezza del valore della propria persona e, come meccanismo di difesa contro la posizione di capro espiatorio che sente di ricoprire, finisce per riconoscersi in valori e norme di comportamento diversi da quelli imposti dall’istituzione per regolare la vita carceraria ma anche da quelli dominanti nella società esterna. I detenuti, sentendosi vittime delle ingiustizie di quella società che li ha esclusi, assumono un atteggiamento di totale rifiuto nei confronti di essa, delle sue regole e dei suoi organi. Essi si sentono parte solo di quella collettività artificiale formata dal gruppo nel quale i detenuti con lunghe carriere criminali alle spalle assumono spesso un ruolo di particolare rilievo e ciascuno dei partecipanti trova considerazione, solidarietà, sicurezza e aiuto nella necessità.

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L’importanza di tale principio è stata riconosciuta anche a livello internazionale come criterio informatore delle legislazioni di diversi paesi del mondo. Analoghe previsioni infatti sono contenute nelle Regole Minime dell’ONU (Regola 6, 1955) e nei «Principi fondamentali per il trattamento dei detenuti» (1990), nonché nelle Regole Minime del Consiglio d’Europa (Regola 2, 1987).

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matricola ma devono essere chiamati o indicati con il loro nome ( art. 1 co. 4 ord. penit.); le misure restrittive in grado di provocare violenze fisiche o morali al condannato possono essere adottate solo per assicurare il mantenimento dell’ordine e della disciplina (art.1 co. 3 ord. penit.).

Inoltre, sempre garantendo il rispetto delle esigenze di sicurezza, si cerca di aprire il carcere verso l’esterno già durante la fase esecutiva, attraverso contatti telefonici, colloqui riservati con i parenti, possibilità di disporre di giornali, radio, televisione 45. Nonostante la forte carica innovativa della legge 354/1975 non si può trascurare il fatto che essa viene emanata in un momento storico nient’affatto propizio. Alla vigilia della riforma dell’ordinamento penitenziario, nel 1974, una nuova fase di riflusso è alle porte; vengono messi in luce gli insuccessi di varie forme di trattamento in libertà, sperimentati da quei Paesi che avevano puntato già da tempo sulla rieducazione; la crisi economica mette in difficoltà il Welfare State che non è in grado di sostenere i costi delle nuove tecniche diverse dall’esecuzione in carcere; si espandono con preoccupante rapidità nuove forme di criminalità, in particolare quella terroristica e organizzata, verso le quali sono chieste a gran voce risposte repressive più severe 46. In questo periodo un decreto interministeriale istituisce le carceri di "massima sicurezza" per detenuti ad alta pericolosità sociale, sottoposte ad una disciplina di speciale rigore, e dirette ad eliminare una serie di istituti che la riforma del 1975 aveva introdotto47. Inoltre, si tende a fare ampio ricorso all’ art. 90 ord. penit. che, pur essendo stato pensato come norma di applicazione eccezionale, diventa in questi anni lo strumento chiave a cui affidare la tutela dell’ordine e della

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DOLCINI, La pena detentiva in Italia oggi, tra diritto scritto e prassi applicativa, in (a cura di) DOLCINI-PALIERO, Studi in onore di Giorgio Marinucci, 2006, Milano, p. 1079.

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FASSONE, La pena detentiva, cit., p. 103 e ss.

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Si tratta del decreto interministeriale (Bonifacio-Lattanzi-Cossiga) intitolato "Per il coordinamento dei servizi di sicurezza esterna degli istituti penitenziari", pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 12 maggio 1977. In forza di questo decreto venne attribuito ad un Ufficiale Superiore dei Carabinieri il potere di coordinamento per la sicurezza interna ed esterna degli istituti penitenziari. Fu nominato per questo incarico il generale Dalla Chiesa. Il regime penitenziario applicato nelle "carceri speciali" si caratterizzava per diverse limitazioni imposte ai detenuti che vi erano ristretti: la limitazione delle attività comuni, con l'esclusione dalla frequentazione di scuole, biblioteche e attività di culto; l'esclusione da qualsiasi attività lavorativa diversa da quella domestica della singola sezione. L'unico contatto tra i detenuti era limitato alle "ore di passeggio", organizzate in modo da non ledere l'ordine e la sicurezza del carcere. I colloqui con i familiari avvenivano attraverso un pannello divisorio per impedire il contatto fisico. Le stesse strutture delle carceri, o delle sezioni, di massima sicurezza erano molto rigide, e questo si rifletteva sulla vivibilità degli ambienti. Ancora, la sorveglianza era particolarmente intensa, per il rapporto numerico tra personale di custodia e detenuti, diverso da quello esistente negli istituti ordinari: un esempio è la visibilità 24 ore su 24, a cui erano sottoposti i detenuti. Oltre alle restrizioni all'interno dei "carceri speciali", si deve segnalare la sorveglianza esterna affidata all'Arma dei Carabinieri, organizzata in ronde che vigilavano sul perimetro esterno dei penitenziari.

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sicurezza penitenziaria48. Tale norma consentiva ampi margini di discrezionalità nella valutazione dei presupposti per l’adozione delle misure ivi disciplinate, attribuendo al Ministro della Giustizia, in presenza di «gravi motivi di ordine e di sicurezza», la facoltà di sospendere in tutto o in parte le regole di trattamento e gli istituti in contrasto con le esigenze di sicurezza, per un periodo determinato ma non individuato nella sua ampiezza49.

A causa di questi interventi i detenuti risultano sottoposti a forme di controllo sempre più stringenti; l’inversione di tendenza rispetto ai propositi che avevano ispirato l’elaborazione della legge di riforma penitenziaria è così evidente da far parlare di ‘carcere controriformato’50. La riforma dell’ordinamento penitenziario nel momento stesso in cui è introdotta si rivela inadatta ad essere applicata a causa degli avvenimenti storici e dei mutamenti sociali intercorsi, che fanno venir meno quel fertile terreno socio-culturale che avrebbe potuto portare ad un’efficace messa in atto degli ideali in essa contenuti. La legge del 1975 è pensata in funzione di una popolazione penitenziaria diversa, numericamente51 e qualitativamente, da quella degli anni immediatamente successivi alla riforma. Se per quanto riguarda l’aspetto quantitativo si rileva statisticamente un aumento inaspettato ed esponenziale delle popolazione detenuta, per quanto riguarda il secondo profilo, quello qualitativo, bisogna ricordare che in questi anni ci si trova a dover fare i conti con il fenomeno terroristico52. Il risultato è che nel momento in cui il nuovo ordinamento penitenziario viene applicato le sue spinte più innovatrici vengono inevitabilmente mitigate e a trionfare sono, ancora una volta, le forze moderate.

Inoltre, nonostante quanto affermato dalla Carta costituzionale circa la funzione rieducativa della pena non si può non osservare che tutte le funzioni storicamente assegnate alla pena rimangono presenti nel pensiero penologico. Neppure la riforma

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Articolo abrogato dall’ art. 10 l. 10 ottobre 1986, n. 663.

49

TIRELLI, Sicurezza penitenziaria e rieducazione: obiettivi tendenzialmente incompatibili?, in DOLCINI- PALIERO (a cura di) Studi in onore di Giorgio Marinucci, Milano, 2006, p. 1264.

50

CAPPELLI, Il carcere controriformato, in AA. VV., Il carcere dopo le riforme, Milano, 1979, p. 11 e ss.

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Basti pensare che al 31 dicembre 1970 sono presenti negli istituti penitenziari italiani 21.379 detenuti che salgono, nella stessa data del 1974, quando la riforma penitenziaria è alle porte, a 28.216. Per un ulteriore approfondimento su dati statistici risalenti a quel periodo si veda DOLCINI, La pena detentiva in Italia oggi, cit., p. 1093 e ss.

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GREVI, Diritti dei detenuti, cit., p. 2. L’Autore segnalava che nel quinquennio 1971-1975 la popolazione carceraria non aveva superato in media le 25.000 unità, mentre nel 1978, prima che vi fosse l’amnistia, il numero dei detenuti presenti nelle carceri italiane raggiungeva le 35.000 unità. Sotto il profilo qualitativo, gravi sono i problemi generati dal fenomeno del terrorismo; la presenza nelle carceri di terroristi, determinati a proseguire in quella sede la loro opera di disgregazione delle istituzioni e dello stesso tessuto sociale, non poteva non incidere negativamente sulle strutture penitenziarie proprio nella delicata fase in cui ci si avviava all’attuazione della riforma.

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del 1975 ha potuto sottrarsi alla regola che finisce con il vincolare tutti gli interventi legislativi alla convergenza nella pena di tutte le funzioni che ha ricoperto nel corso dei secoli, sia pure privilegiandone l’una o l’altra; prevenzione generale, prevenzione speciale, emenda e retribuzione sono ancora tutte in qualche modo presenti nel complesso del sistema penal-penitenziario.

Se è innegabile che in alcune affermazioni della riforma vi sono delle novità, esse risiedono nella diversa miscela delle varie funzioni della pena, in una sottolineatura più accentuata di talune e nel programmatico svilimento di altre, in corrispondenza con l’evoluzione della cultura penitenziaria e con un diverso assetto delle forze politiche contrapposte.

Sarebbe eccessivo sostenere che la riforma abbia rappresentato un drastico mutamento di rotta e sarebbe troppo ottimistico pensare che oggi l’ordinamento penitenziario costituisca un campo di applicazione della sola funzione rieducativa o, comunque, un netto salto di qualità nel modo di intendere il rapporto della società libera con la devianza53.

La pretesa di aver sostituito la funzione rieducativa a quella punitiva si rivela puramente ideologica sino a che la pena rimane incentrata nel carcere, con la sua essenza segregante e totalizzante; la spinta realmente innovativa è circoscritta alla parte in cui il carcere viene sostituito con altre misure.

È proprio con la legge penitenziaria del ’75 che vengono introdotte nel nostro ordinamento le misure alternative alla detenzione, ovvero quelle misure che consentono di espiare la pena extra moenia, con modalità diverse dall’esecuzione in un istituto penitenziario. Esse sono, secondo il disegno originario, l’affidamento in prova al servizio sociale e la semilibertà54. Queste misure sono applicate dal Tribunale di sorveglianza, competente per la fase esecutiva e possono essere disposte solo dopo un periodo di detenzione in carcere a regime ordinario.

L’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 ord. penit.), applicabile nel caso in cui la pena detentiva inflitta non superi i tre anni, fa sì che il periodo di pena da scontare in istituto sia sostituito da un periodo di pari durata durante il quale il condannato, che si trova fuori dal carcere, è affidato al servizio sociale che lo sostiene nel percorso di reinserimento nella società e verifica che rispetti i divieti e le prescrizioni impostigli dal magistrato di sorveglianza. Tale misura è applicabile, secondo le previsioni della l. 354/1975, solo dopo che vi sia stata una fase di

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FASSONE, La pena detentiva, cit., p. 144.

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osservazione della personalità del condannato, condotta da un apposito collegio, per almeno un mese, in istituto55.

La semilibertà (art. 48 ord. penit.), invece, non è una vera e propria alternativa alla detenzione dal momento che il soggetto rimane, nonostante l’applicazione di questa misura, ristretto in carcere. Essa comporta tuttavia che sia concesso al condannato di trascorrere alcune ore del giorno al di fuori dell’istituto penitenziario «per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale». Il tribunale di sorveglianza gli impone delle prescrizioni in relazione alle ore che trascorre all’esterno. La semilibertà può essere applicata fin dall’inizio dell’esecuzione della pena in carcere.

Nonostante la portata certamente innovativa di queste due previsioni la pena rimane comunque principalmente incentrata sul carcere, che si configura ancora come un momento di passaggio obbligato.