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La situazione attuale del carcere in relazione alla funzione rieducativa

Innanzitutto bisogna specificare un dato strutturale; il trattamento penitenziario si attua negli istituti penitenziari per adulti, che si distinguono in a) istituti di custodia cautelare, denominati case circondariali (art. 60 ord. penit.), b) istituti per l’esecuzione delle pene, che possono essere case di arresto e di reclusione (art. 61 ord. penit.), c) istituti per l’esecuzione di misure di sicurezza detentive, costituiti da colonie agricole, case di lavoro, case di cura e custodia e ospedali psichiatrici giudiziari (art. 62 ord. penit.). In realtà la differenza tra casa circondariale e casa di reclusione, così chiara sulla carta, è nella pratica, annientata dal fenomeno del sovraffollamento carcerario che porta ad una inevitabile mescolanza di detenuti imputati e condannati nello stesso istituto in base alla disponibilità di posti in cella61. Abbiamo detto che l’ordinamento penitenziario incentra il trattamento rieducativo su istruzione, lavoro, religione, attività culturali, ricreative e sportive, contatti con il mondo esterno e contatti con la famiglia (art. 15 ordin. penit.). Un ruolo fondamentale, soprattutto per i condannati che provengono dalle classi più emarginate della popolazione (che sono la stragrande maggioranza dei detenuti), lo giocano l’istruzione e il lavoro62.Tutto sta, perciò, nel riuscire a creare i presupposti organizzativi e le strutture idonee a rendere accessibili al maggior numero possibile di reclusi sia l’addestramento al lavoro, che l’istruzione. È invece un dato sconfortante constatare che, a tutt’oggi, soltanto un numero molto circoscritto di detenuti è messo, di fatto, in condizione di svolgere un’attività lavorativa sia interna che esterna al carcere. Secondo i dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al 30 giugno 2013, i lavoranti sono il 20,7 % dei detenuti presenti nelle

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FILIPPI-SPANHER, Manuale di diritto penitenziario, cit., p. 68.

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FIANDACA, Commento all'art. 27 co. 3 Costituzione, cit., p. 287; DOLCINI, La «rieducazione del condannato» tra mito e realtà, cit., p. 485 e ss.

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carceri italiane. Su 66.028 reclusi solo 13.727 (di cui 11.579 alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria e 2.148 alle dipendenze di altri datori di lavoro) svolgono un’attività lavorativa63.

Affinché l’opera di rieducazione possa ottenere un qualche successo, sarebbe fondamentale poi che il trattamento fosse in grado di incidere in profondità sul profilo psicologico del reo. Nella realtà carceraria dovrebbe essere applicato un trattamento psicologico il più possibile individualizzato, che segua tutta l’esecuzione della pena (art. 13 ord. penit.). A questo scopo l’ord. penit. all’art. 80, co. 4 prevede che l’amministrazione penitenziaria possa avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica. Anche se la legge parla di una mera facoltà (recita infatti «può avvalersi» e non «deve avvalersi») si è opportunamente instaurata, in ambiente carcerario, la prassi volta all’utilizzazione di psicologi e psichiatri in maniera pressoché costante64. La necessità della presenza non occasionale, ma istituzionalizzata dello psicologo in carcere, deriva proprio dalla complessità e dalla molteplicità dei compiti attribuitigli. In linea puramente teorica le attività che l’esperto psicologo può svolgere in sede di trattamento possono tendere ad obiettivi ambiziosi quali l’elaborazione psicologica del fatto criminoso commesso, la presa di coscienza di aver causato un danno alla vittima del reato, fino alla «ricostruzione nel detenuto dei valori infranti con il delitto»65. A maggior ragione, poi, ove si tratti di reclusi affetti da disturbi psichici o affettivi, l’attività svolta dello psicologo dovrebbe assumere caratteristiche più specificatamente terapeutiche. Più in generale l’intervento della figura dello psicologo dovrebbe tendere ad un contenimento degli effetti negativi che il carcere esercita sul recluso, quali ad esempio, l’impoverimento della personalità e le c.d. sindromi da prisonizzazione66; effetti che comunque, a prescindere dall’opera dello

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Dati forniti al 30 giugno 2013 dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Ufficio per lo sviluppo e la gestione del sistema informativo automatizzato, Sezione statistica, in www. giustizia.it/ statistiche. Secondo quanto riportato nel ‘Decimo rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione’, elaborato dall’Associazione Antigone a novembre 2013, si tratta di una percentuale decisamente bassa rispetto al passato, ma che sarebbe ancora più bassa se negli istituti penitenziari non si ricorresse al frazionamento sempre maggiore del lavoro, che oggi è distribuito tra molti più soggetti, pur non essendo aumentato.

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I primi incarichi di esperto sono stati conferiti a partire dal 1978, cioè a tre anni dall’emanazione dalla legge penitenziaria n. 354, secondo il rapporto di un esperto ogni 500 detenuti, poi passato ad un esperto ogni 250 detenuti. Per un approfondimento in proposito su veda FIANDACA, Commento all'art. 27 co. 3 Costituzione, cit., p. 288.

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VASSALLI, Il dibattito sulla rieducazione,in margine ad alcuni recenti convegni, in Rass. penitenz. e crimin., 1982, p. 475.

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CESA BIANCHI-BELLONI, Profili di intervento dello psicologo nell’esecuzione penitenziaria, in (a cura di) GREVI, Alternative alla detenzione e riforma penitenziaria, Bologna, 1982, p. 267. Il termine sindrome da prisonizzazione è utilizzato per la prima volta da Clemmer, nel 1940. Con esso

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psicologo potrebbero essere fortemente attenuati modificando l’impianto strutturale del carcere e, innanzitutto, evitando la reclusione in cella per la maggior parte della giornata.

Se è vero che questo ampio spettro di compiti è stato ambiziosamente attribuito agli esperti indicati dall’art. 80 co. 4 ord. penit., è pur vero che esso collide inevitabilmente con la situazione effettiva che si riscontra nei nostri istituti penitenziari; le ore di trattamento psicologico dedicate a ciascun detenuto sono così ridotte da poter difficilmente risultare efficaci; gli esperti hanno un numero troppo elevato di pazienti da seguire e la loro attività finisce per essere eccessivamente ritualizzata; mancano, in ambiente penitenziario, le infrastrutture idonee per il compimento dell’indagine psicologica; le peculiari condizioni in cui si svolge l’indagine nella maggior parte dei casi fa si che il recluso finisca per percepire l’intervento dello psicologo non come una modalità del trattamento rieducativo, ma, piuttosto, come uno dei tanti momenti di repressione legati all’espiazione della pena privativa della libertà67.Già negli anni ’80, quando da poco era stata introdotta la nuova legge penitenziaria, si parlava di “trattamento di carta” e di “osservazione burocratizzata”68 ed è triste constatare che a trentacinque anni di distanza ben poco è cambiato.

Molti sono gli ostacoli che si frappongono alla possibilità di svolgere un trattamento idoneo, che potrebbero essere rimossi se si attuasse una politica penitenziaria più attenta all’obiettivo della rieducazione.

si fa riferimento all’effetto globale dell’esperienza carceraria sull’individuo. Indica l’assuefazione allo stile di vita, ai modi, ai costumi e alla cultura generale propri dell’ambiente penitenziario. Ciò costituisce quasi un percorso di adattamento progressivo alla comunità carceraria culminante nell’identificazione più o meno completa con l’ambiente, con i suoi usi e costumi, con le sue singolari abitudini, con la sua cultura, con il suo codice d’onore, con i suoi esempi da imitare. L’istituzione penitenziaria tende ad eliminare le differenze individuali nei ristretti, assimilandoli e fagocitandoli. I bisogni, i desideri e le esigenze personali del detenuto sono, cosi, annullati e sostituiti da altri eteroindotti e più coerenti con le finalità dell’istituzione penitenziaria che, per motivi di ordine e di controllo, ricerca l’uniformità degli atteggiamenti e dei comportamenti dei detenuti, eliminando le differenze individuali ed inducendo abitudini comuni.

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CESA BIANCHI- BELLONI, Profili di intervento dello psicologo nell’esecuzione penitenziaria, cit., p. 268.

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4.2. Ostacoli di carattere quantitativo allo svolgimento del trattamento rieducativo in carcere.

A proposito di questi ostacoli, l’accento non può non cadere, innanzitutto, sul problema del sovraffollamento carcerario. Gli interventi legislativi successivi alla riforma del 1975, che abbiamo brevemente analizzato, hanno sempre avuto come finalità dominante quella di deflazione penitenziaria. In nessun momento storico dal 1975 ad oggi, si è offuscata nel legislatore la consapevolezza che la pena detentiva potrà mostrarsi rispettosa degli standard minimi di civiltà ed umanità e potrà pertanto avere una minima speranza di rieducare, solo se si riesce a tenere sotto controllo il problema del sovraffollamento69. Se al 31 dicembre 1974, alla vigilia della riforma penitenziaria, gli adulti presenti negli istituti penitenziari italiani erano circa 28.000, secondo i dati forniti dal Ministero della Giustizia al 30 Novembre 2013 i detenuti presenti nelle 205 carceri italiane sarebbero 64.047 a fronte di una capienza regolamentare di 47.64970; tale capienza regolamentare risulta ampiamente superata in tutte le regioni italiane. Nel 2009 il problema si presentava più acuto soltanto a Cipro, in Serbia e in Spagna; l’Italia, con 148 detenuti per 100 posti letto, si collocava in quarta posizione nella graduatoria del sovraffollamento carcerario stilata dal Consiglio d’Europa71.

La prima conseguenza derivante da un numero eccessivo di detenuti negli istituti è la riduzione significativa degli spazi disponibili per svolgere le attività in comune e, cosa ancora più grave, degli spazi disponibili all’interno della cella; ciò determina l’impossibilità di stare in piedi in più persone contemporaneamente, l’impossibilità di mangiare insieme seduti ad un tavolo, l’impossibilità di scrivere, leggere o guardare la televisione in un luogo che non sia il letto. Ma questo dato non sarebbe così allarmante se i detenuti svolgessero per la maggior parte della giornata attività all’esterno della loro cella; al contrario la situazione risulta davvero difficile da gestire dal momento che i ristretti trascorrono nelle camere detentive, fatta eccezione per sporadici casi, circa venti ore al giorno. Questi fattori portano, nel 2009, ad una condanna della Corte Europea dei diritti dell’uomo nei confronti dell’Italia per

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DOLCINI, Carcere, surrogati del carcere, diritti fondamentali. Ricordando Vittorio Grevi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, p. 34.

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Dati forniti al 30 novembre 2013 dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Ufficio per lo sviluppo e la gestione del sistema informativo automatizzato, Sezione statistica, in www. giustizia.it/statistiche.

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violazione dell’art. 3 della “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, che tutela i detenuti dal subire trattamenti inumani o degradanti72; si tratta del caso Sulejmanovic c. Italia dove, agli occhi della Corte, ciò che integra un “trattamento inumano e degradante” è il fatto che un cittadino bosniaco, detenuto tra il 2002 e il 2003 nel carcere romano di Rebibbia, per un periodo di oltre due mesi e mezzo avesse potuto disporre di uno spazio personale di soli 2,70 mq. In questa occasione la Corte ribadisce quanto aveva affermato in svariate sentenze precedenti contro la Russia: mentre il valore di 7 mq. per persona, indicato dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti, rappresenta un valore soltanto auspicabile, lo standard minimo che deve essere assicurato ai detenuti non può scendere sotto i 3 mq. per persona. Ma, oltre al dato sullo spazio disponibile in cella, ciò che spinge, più di ogni altra cosa, la Corte a condannare l’Italia per aver commesso una violazione dell’art. 3, è il numero di ore che il detenuto trascorre, senza svolgere alcuna attività, rinchiuso nella cella stessa73. La situazione risulterebbe molto più vivibile se le camere detentive si trasformassero in camere di pernottamento, come previsto dal dettato stesso dell’ordinamento penitenziario (art. 6 ord. penit.), e come già previsto in altri Paesi europei74. Nel nostro sistema avviene esattamente il contrario, per cui le attività in comune, da svolgersi al di fuori della cella, sono molto limitate e riguardano un numero circoscritto di detenuti mentre la normalità consiste nel trascorrere l’intera giornata nelle camere detentive.

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L’ art. 3 della “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” recita: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o a trattamenti inumani o degradanti», in www. echr. coe. int.

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Cfr. Corte EDU, sez. II, sent. 16 luglio 2009, Sulejmanovic c. Italia, in www. echr. coe. int. L’Italia è stata condannata in quest’occasione ad un equo indennizzo in favore del detenuto.

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All’ art. 6 dell’ordin. penit. si parla esplicitamente di camere di pernottamento, distinguendole dai locali nei quali si svolgono le attività dei detenuti durante il giorno. Ciò dimostra come l’intento originario del legislatore fosse quello di realizzare un organizzazione della giornata in maniera molto diversa da quella che si presenta oggi nella realtà del carcere. Un modello carcerario simile a quello auspicato dal legislatore del 1975 è stato attuato in via sperimentale in Spagna. Qui le strutture penitenziarie di ultima generazione, costruite nell’ultimo decennio (ad oggi 30 istituti), si sviluppano su un piano architettonico orizzontale con un massimo di cento detenuti a modulo; la vita dei detenuti si svolge in comune, potendo sfruttare una struttura che al piano terra prevede la presenza di una mensa e di sale ricreative nelle quali si svolgono molteplici attività, mentre al primo piano vi sono le camere di pernottamento che sono destinate esclusivamente alle ore notturne. All’interno di questi penitenziari vi sono strutture che consentono di avviare i detenuti a percorsi di risocializzazione tramite lo studio ed il lavoro ed è assicurato il “diritto all’affettività”, molto dibattuto nel nostro ordinamento, mediante la concessione di “camere intime”. In proposito dobbiamo ricordare che in ben ventisei Paesi europei è consentito ai detenuti di avere rapporti intimi in occasione delle visite dei familiari, allo scopo di permettere al detenuto di recuperare gradualmente e responsabilmente la possibilità di reinserirsi nella società anche mantenendo e curando gli affetti e le relazioni, mentre in Italia ciò non è consentito.

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Con una successiva sentenza dell’8 gennaio 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo torna a condannare l’Italia per violazione dell’ art. 3 della Convenzione Europea, in merito al caso Torreggiani e altri c. Italia75. Anche in questo caso la Corte riscontra che i ricorrenti, che si trovano a scontare la pena presso gli istituti di detenzione di Busto Arsizio e Piacenza, hanno a disposizione, in cella, uno spazio inferiore a tre metri quadri ciascuno. Questa sentenza assume una particolare rilevanza trattandosi di una ‘sentenza pilota’76, che affronta il problema strutturale del disfunzionamento del sistema penitenziario italiano, vincolando l’Italia a porre fine alla violazione entro un anno dalla pronuncia.

Ovviamente il progressivo aumento dei detenuti determina una netta diminuzione delle opportunità rieducative che ciascun carcere può offrire, dal momento che si limitano notevolmente le possibilità di accesso agli spazi comuni e alle altre offerte trattamentali.

È impensabile prefigurare l’impianto carcerario come realmente rieducativo fintanto che le condizioni di sovraffollamento non consentono una condizione di vita dignitosa al detenuto e impediscono di dedicare a ciascuno degli ospiti degli istituti penitenziari un trattamento individualizzato, serio e mirato.

Questa situazione porta inoltre ad una inevitabile riduzione dell’efficienza dei meccanismi di controllo, con rischio di sopraffazione dei detenuti più deboli e con un aumento del rischio, già molto elevato, di traffici illegali e connessi all’uso di sostanze stupefacenti all’ interno del carcere77.

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Con tale sentenza l’Italia è condannata a pagare una somma di circa € 100.000 per tutti i ricorrenti. Per consultare il testo completo della sentenza v. www. giustizia.it/Sentenze Corte europea dei diritti dell’uomo.

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Con il termine ‘sentenza pilota’ si fa riferimento ad una procedura, sviluppatasi nel corso degli ultimi anni presso la Corte EDU, in base alla quale la Corte, attraverso la trattazione del singolo ricorso, identifica un problema strutturale e individua una violazione ricorrente dello Stato contraente. Pertanto, qualora la Corte riceva molteplici ricorsi derivanti da una situazione simile di fatto e imputabile alla medesima violazione in diritto, vi è la possibilità per la Corte stessa di selezionare uno o più ricorsi a cui riserva una trattazione prioritaria. La trattazione di una questione attraverso la procedura della sentenza pilota permette il congelamento degli altri ricorsi simili in attesa della pronuncia della Corte al fine di consentirne una soluzione più rapida e offre allo Stato contraente la possibilità di sanare la propria posizione prima di ulteriori condanne.

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4.3. Ostacoli di carattere qualitativo allo svolgimento del trattamento rieducativo in carcere.

Oltre al problema quantitativo dato dal sovraffollamento, il cammino verso l’affermazione dell’ideale rieducativo nella realtà carceraria è reso estremamente difficile anche dalle caratteristiche qualitative della popolazione detenuta, in gran parte costituita da stranieri, tossicodipendenti e soggetti affetti da malattie mentali. Con riferimento ai detenuti stranieri si registrano, al 30 novembre 2013, 22.434 presenze (di cui 1.118 donne) a fronte di un totale di 64.047 detenuti complessivi, per un rapporto che corrisponde all’incirca a 1 ogni 378; i picchi più alti si registrano negli istituti penitenziari del nord Italia, mentre la percentuale relativa agli stranieri presenti negli istituti del sud Italia scende notevolmente (tra il 10 e il 20%). Dati così elevati in relazione alla presenza di stranieri in carcere sono dovuti principalmente al fatto che mentre i cittadini italiani possono spesso accedere, anche per reati di una certa gravità, ad una gamma piuttosto ampia di pene non detentive, lo straniero extracomunitario rimane il «cliente privilegiato»79 del carcere, non essendo quasi mai in possesso dei requisiti necessari per poter accedere alle misure alternative (primo tra tutti la disponibilità di un domicilio).

Intraprendere un percorso rieducativo nei confronti dei cittadini stranieri, comporta difficoltà ancora maggiori rispetto a quelle che si presentano per i cittadini italiani. L’introduzione della figura del mediatore culturale in carcere ha senza dubbio costituito un importante passo avanti; ma le barriere linguistiche e le diversità culturali restano un ostacolo molto difficile da superare in un ambiente già di per se difficoltoso quale quello carcerario. La possibilità di incidere significativamente sul recupero e sulla stessa accoglienza di persone con cultura e lingue diverse diventa più complessa per l’oggettiva carenza di risorse da dedicarvi specificamente. Inoltre, il sistema fondato sul rispetto dell’art. 27 co. 3 Cost. rischia di essere inadeguato rispetto a situazioni in cui la rieducazione è obbligatoriamente fondata sulla costruzione di un percorso di reinserimento nella società, ma riguarda soggetti che nella maggioranza dei casi, una volta espiata la pena o la misura alternativa, non avranno la possibilità di risiedere stabilmente e legalmente nel territorio dello Stato.

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Secondo quanto attestano i dati forniti al 30 novembre 2013 dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Ufficio per lo sviluppo e la gestione del sistema informativo automatizzato, Sezione statistica, in www. giustizia. it/statistiche. Basti pensare che ogni anno entrano in carcere circa 13.000 stranieri per la violazione della legge Bossi-Fini.

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Numeri analoghi a quelli degli stranieri, ma con una distribuzione più omogenea sul territorio nazionale riguardano i detenuti tossicodipendenti, che storicamente rappresentano all’incirca il 25% della popolazione detenuta; al 31 dicembre 2012, ultimo dato disponibile, la percentuale di tossicodipendenti nelle carceri italiane era del 23,8%80. Si deve tenere conto, peraltro, che questi dati sono ricavati sulla base delle dichiarazioni provenienti dagli stessi detenuti al momento del loro ingresso nell’istituto e sulla base della presa in carico da parte del SERT all’interno del carcere, mentre le cifre effettive, in realtà, potrebbero essere inesorabilmente più alte81. Per quanto riguarda questi soggetti, quasi sempre portati a delinquere dalla loro dipendenza, non è possibile sperare in un progetto rieducativo fino a che non sarà risolto il problema della dipendenza stessa; e, allo stato attuale, non è realistico ritenere che il carcere sia in grado di sostenere i detenuti tossicodipendente in un percorso di disintossicazione che possa essere al pari di quello che si realizzerebbe in una comunità; secondo una ricerca condotta dalla Direzione generale dell’esecuzione penale esterna, tra i soggetti che hanno scontato la pena in affidamento in prova al servizio sociale, solo il 19% presenta fenomeni di recidiva nei sette anni successivi all’esecuzione di tale misura, confermando così che i soggetti che scontano la pena presso comunità di recupero ottengono risultati molto più soddisfacenti di chi, invece, esegue la pena in ambito carcerario82.

La terapia attuata in istituto nei confronti dei detenuti tossicodipendenti, nella maggioranza quasi assoluta dei casi, si limita alla somministrazione di metadone, sostituendo così la vecchia dipendenza ad una nuova dipendenza, senza ottenere un vero recupero del soggetto. Ciò porta questi detenuti, una volta usciti dal carcere senza che nulla sia cambiato rispetto a quando vi erano entrati, a commettere altri reati e, quasi sempre, a fare nuovamente ingresso in carcere come detenuti recidivi, dando vita ad una spirale di devianza senza via di scampo.