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Integrazione: tra polisemia ed “effetti di verità”.

115 Association), nel 1980 ha inaugurato un gruppo di lavoro Library Services to

1.2 Integrazione: tra polisemia ed “effetti di verità”.

Il termine “integrazione” sembra essere diventato il Leitmotiv nel discorso riguardante stranieri e migranti, tanto da convogliare su di sé una serie di pratiche e saperi che si autoalimentano a vicenda, determinando così il modo di osservare e analizzare il

332

129

fenomeno migratorio.

Oltre al ragionare sul significato che questa espressione comporti, una domanda preliminare risuona e accompagna il corso della ricerca.

E se tale volontà di “integrare”, che domina le politiche migratorie in Italia, come in Germania e in Europa in generale, non fosse altro che un dispositivo di quello che il filosofo francese Michel Foucault chiama “potere-sapere” messo in atto in determinati “regimi di verità” nel mondo occidentale? Si potrebbe parlare anche qui, in modo del tutto ipotetico, di un “sapere” intorno alla migrazione e all’integrazione degli stranieri che non solo disciplina i loro corpi, la loro autodeterminazione e costituzione come soggetti, ma anche la rappresentazione che ne viene fatta a tutti i livelli?

Tali saperi mediano il nostro rapporto con gli stranieri e lo determinano. Così nella rappresentazione che si fa dell’altro non viene tanto preso in considerazione la singola persona con la sua storia e il suo progetto di vita, ma con un segmento da integrare al tutto. Con queste asserzioni si vuole sottolineare, come anche il linguaggio non è mai neutrale. La sua valenza performativa per quanto riguarda i migranti è più che mai accentuata. Bisogna far attenzione, come afferma l’etnografo Sayad, agli “effetti di verità” che determinati discorsi producono333

.

“Integrazione” non è un concetto usato solo per i fenomeni migratori. Seguendo la definizione sociologica classica e generale, con tale nozione viene inteso “l’atto o il processo con cui una parte della realtà sociale viene restituita o destinata a quella realtà stessa da cui si era separata (…) o a cui tende per esigenza di crescita o per creatività culturale (…)” 334.

.

Chiaramente nel corso del tempo la definizione è stata ampliata e formulata in diversi modi. Tuttavia l’idea che questa prima enunciazione sottende è un movimento verso una ricomposizione, che presuppone un unum a cui ritornare, con cui ri-unirsi.

D’altronde se si osserva il suo «etimon», il termine «integrazione» ci rimanda al verbo latino «integrare», “rendere integro o intero, completo, conforme a giustizia e all’aggettivo «integer»”335

.

Anche qui ritroviamo questo moto che sembra partire da un’identità già costituita, o

333

Abdelmalek Sayad, La doppia assenza: dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2002, p. 288.

334

A. Scivoletto, «Integrazione», Nuovo Dizionario di Sociologia, Milano, Edizioni San Paolo, 1994, pp. 1056–1062. La citazione continua affermando: “Si ha così la ricomposizione di quanto era, nel suo ordine, compatto o la costruzione di contesti, e di eventi in essi, che si realizzano ed espandono la socialità dell’uomo: nel primo caso l’integrazione si configura come processo organico, nel secondo come processo organizzativo”.

335 Ottorino Pianigiani, «Integrazione», Vocabolario etimologico della lingua italiana, Napoli, Fratelli

Letizia Editori, 1988. Nell’etimologia la parola integer si scompone in: «in» che sta per «non» e tàgere o tàngere, toccare. In-tegro, non tocco e quindi ciò a cui nulla è stato tolto, cui nulla manca, illeso, intero; in senso figurato: puro, schietto e incorrotto”.

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almeno presunta tale, che vuole riportare tutto a un’unità, a un incorrotto supposto ovvero nel caso del migrante, la società di accoglienza. Guardando l’immigrato, l'integrazione si concentra su ciò che non possiede, sui requisiti che deve avere per conformarsi a ciò che rimane “intoccato” della società. E il problema nell’utilizzo del termine sta proprio nel suo rimando, a volte del tutto inconsapevole, a volte di proposito, a questo orizzonte di senso identitario ed escludente e ad un’idea di società immutabile o supposta come tale. Un'integrazione comporta sempre una disgregazione e, nel caso del migrante, ciò potrebbe comportare una disintegrazione rispetto ad una vita passata, ad un mondo antecedente, a degli strumenti conoscitivi e codici precedenti.

Nel suo studio sui rifugiati, Marco Catarci, parlando di integrazione sociale sintetizza tre aspetti fondamentali:

-la polisemia del concetto, che necessita del contributo di diverse discipline e saperi che si intrecciano tra loro e il fatto che con essa si intende sia l’obiettivo, sia il processo per raggiungerlo;

- la possibilità di essere indagato sia attraverso un approccio quantitativo sia qualitativo;

-il suo carattere multidimensionale e l’importanza che rivestono fattori oggettivi (ad esempio, caratteristiche del contesto di inserimento) e fattori soggettivi (come l’approccio e le scelte dell’individuo)336

. Lo studioso, proprio in relazione alla multidimensionalità, propone di parlare di “processi plurimi” di integrazione (dalla dimensione economica e lavorativa, all’inserimento sociale attraverso la gestione delle relazioni, nonché l’inserimento culturale e politico) che riconoscano la necessità di connessione tra i diversi servizi chiamati a rispondere ad esigenze diversificate delle persone337.

Nelle riflessioni sociologiche, inoltre, sono state formulate diverse tipologie e classificazioni del termine, mettendolo anche in relazione con altri concetti come solidarietà sociale, inclusione, coesione sociale e differenziazione338. Uno dei primi sociologi ad utilizzare tali nozioni fu Émile Durkheim. Il pensatore francese nella sua opera De la division du travail social (1971) teorizza una solidarietà “meccanica” per le società inferiori costituite da clan o aggregati elementari uguali fra loro e autosufficienti al proprio interno e una “organica” dove sarà la differenziazione e la divisione del lavoro a creare coesione sociale sulla base della spartizione delle

336

Marco Catarci, L’integrazione dei rifugiati: formazione e inclusione nelle rappresentazioni degli

operatori sociali, Milano, FrancoAngeli, 2011, pp. 26–27. 337

Ivi, p. 27.

338 Per un’ampia ricostruzione dell’utilizzo del concetto di «integrazione sociale» cfr. P. Boccagni, G.

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funzioni comuni, in cui si determinano le relazioni tra le parti339.

L’integrazione è vista come funzione essenziale di ogni sistema sociale nella teoria struttural-funzionalista di Talcott Parsons (1951), il quale attribuisce ad essa il compito di garantire un equilibrio tra le parti e quindi coesione e solidarietà interna. Da queste prime formulazioni le riflessioni sull’integrazione sociale, la coesione, la differenziazione hanno caratterizzato l’ambito di indagine della sociologia.PACELLI Per quanto riguarda i migranti e i fenomeni migratori, sono stati individuati da Castles e Miller340 tre modelli di integrazione definiti ormai come classici: l’immigrazione temporanea, l’assimilazione e il multiculturalismo. Di questa ripartizione, la sociologa Laura Zincone341 ne propone una revisione ripartendo da due “macrotipi”, l’assimilazionismo e il multiculturalismo, e individuando 5 modelli diversi. Pertanto la studiosa individua: l’assimilazionismo inclusivo statalista diffusosi in Francia che si basa sulla condivisione di valori pubblici condivisi, relegando la sfera culturale alla dimensione privata; il secondo assimilazionismo inclusivo societario, esemplificato dagli Stati Uniti, in cui è la società più che lo stato ad assicurare l’integrazione, ma dove la neutralità dello stato non vuol dire esclusione giuridica o economica; il

multiculturalismo inclusivo statalista, nel modello olandese, dove lo stato pluralista

adotta misure specifiche in sostegno delle minoranze etniche e religiose; il

multiculturalismo inclusivo societario, in Gran Bretagna, dove il sostegno statale è

ridotto, mentre la società civile si comporta in modo ben più pluralista.

L’ultimo modello il multiculturalismo esclusivo statalista, esemplificato dalla Germania e dall’Austria, il quale si fonda da un lato sull’esclusione politica e isolamento culturale, dall’altro sull’accesso ai diritti in campo socioeconomico342

. In realtà questi modelli tradizionali sono entrati in crisi soprattutto per la loro scarsa corrispondenza tra schema e caso nazionale, nonché per la discrepanza tra livello centrale e le strategie di inclusione a livello locale.

Oggi si assiste all’emergere di una nuova visione in tema di integrazione che delinea una certa convergenza di intenti e politiche a livello europeo. Tale orientamento, che si analizzerà nel dettaglio più avanti, viene chiamato civic integration, integrazione civica, o neoassimilazionismo. Esso subordina l’acquisizione di cittadinanza o l’utilizzo di alcune prestazioni sociali ad alcuni requisiti che il migrante, cittadino extra-comunatario, deve avere: conoscenza della lingua e corsi di orientamento ai

339

Durkheim sostiene che se la solidarietà sociale è “normale” si realizza la coesione, altrimenti se “patologica”, essa porta invece alla disintegrazione sociale. Alla sua analisi farà riferimento anche l’etnografo Sayad nella sua riflessione sull’integrazione degli stranieri, riconoscendo il contributo del sociologo francese e i titoli di nobiltà “intellettuale” che spettano alle riflessioni durkheimiane.

340 S. Castles, M.J. Miller, op. cit. 341

Giovanna Zincone (a cura di), Immigrazione: segnali di integrazione. Sanità, scuola e casa, Bologna, il Mulino, 2009

342

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valori e alle tradizione della società di accoglienza.

Sembrerebbe allora che le pretese assimilazioniste ritornino con forza, seppure velate, subordinando diritti alla conoscenza della lingua e della cultura del paese ospitante. Non si mette in dubbio che la lingua sia uno strumento necessario per vivere in un altro paese, ma possono bastare dei corsi per dire che i processi di integrazione sono stati raggiunti o che un migrante è deifnitivamente “integrato”?

Il dubbio e le perplessità permangono e le difficoltà ermeneutiche non si affievoliscono, anzi, perché ancora una volta l’integrazione è vista come qualcosa da esigere dai migranti e non un processo comune di costruzione di tutta la società, nessuno escluso.

Critico verso il concetto di integrazione è il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky che nella sua riflessione in particolare sul pluralismo e sul multiculturalismo, definisce l’integrazione come “una parola d'ordine tra persone perbene”343

, con cui si presuppone “una cultura che integra e una che è integrata”, con l’obiettivo di creare una società omogenea344. Il rischio sempre in agguato è quello di creare “un’ideologia della cultura dominante” che egli definisce integrazionismo e che estremizzato ai massimi livelli può assumere derive assimilazioniste.

Nel suo ragionamento il giurista propone, allora, un altro termine: “interazione”, anch’esso entrato nel dibattito riguardante l’immigrazione stimolando nuove riflessioni e critiche.

“Il postulato dell'interazione – afferma Zagrebelsky - è la necessità e la capacità delle culture di entrare in rapporto, per definire se stesse (e quindi difendersi dall'assimilazione) ma, al contempo la disponibilità a costruire insieme ed eventualmente a imparare l'una dall'altra. Ma, nel reciproco riconoscimento del diritto di esistenza e di acculturazione, senza posizioni dominanti, c'è anche il contrario dell'integrazionismo”345

.

Nonostante la consapevolezza da parte del costituzionalista che queste possano apparire “solo parole”, rimane l’ideale a cui mirare in vista di “un orizzonte umano comune” e la sfida per le costituzioni. Si tratta di ripensare e ridefinire diritti e doveri e anche il nostro rapporto con il territorio, uno degli elementi costitutivi dello stato e quindi riflettere su noi stessi, non in termini di chiusura, ma di apertura. In questa nuova impresa sono chiamati tutti chiamati a dare il proprio contributo, nessuno eslcuso.

343 Gustavo Zagrebelsky, La virtù del dubbio: Intervista su etica e diritto, Roma-Bari, Laterza, 2007, p.

120.

344 Ibidem. 345

133

Questo invito trova una rispondenza in chi sostiene che le politiche migratorie abbiano una “funzione di specchio” per la società di accoglienza346

e possano essere considerate un terreno di verifica “della coscienza morale e della riflessività politica delle democrazie liberali”347.

In risposta alla preferenza accordata al termine “interazione” a discapito di “integrazione”, in quanto quest’ultimo veicolerebbe “pretese di conformità” richieste al migrante nei confronti della società che accoglie, intervengono i sociologi Ambrosini e Abbatecola348. A loro avviso, scegliendo il termine “interazione”, non si dà conto della “componente esperienziale dell’integrazione, attraverso la quale gli scambi quotidiani e la reciproca conoscenza (ossia l’interazione sociale nei suoi aspetti positivi) producono nei fatti l’incontro tra popolazione di origine diversa”349

. Inoltre utilizzando tale termine si privilegia la dimensione comunicativa e culturale, tralasciando del tutto gli aspetti strutturali. L’interazione non si può contrapporre all’integrazione, né la può sostituire, ma, se positiva, essa può essere parte di questo processo350.

Si può dare senso a tale nozione, per Lorenzo Luatti, accordando la propria attenzione alle pratiche di integrazione e non ai “discorsi astratti”; solo così essa “può assumere una pluralità di significati che potremmo collocare in un continuum che va da un minimo di assimilazione a un massimo di interazione e scambio tra società ricevente e immigrati, e viceversa”351

.

Non c’è dubbio che l’assimilazionismo sia sempre in agguato, anche perché ci troviamo di fronte a rapporti di potere evidentemente asimmetrici. È chiaro che chi arriva in un altro paese e già non condivide lo stesso codice linguistico avrà difficoltà anche e solo a esprimere le proprie ragioni e i propri bisogni, senza contare poi le differenze economiche.

Il rimando ad una terminologia identitaria, quando si parla di integrazione, viene sottolineata da Abdelmalek Sayad352 nella sua opera La doppia assenza.

Nel trattare questa nozione, l’etnografo di origine algerina, allievo e amico di Bourdieu (il quale rimise in ordine la stessa opera curandone la prefazione), considera l’immigrazione come “un fatto sociale totale”, nello studio del quale occorre prendere in esame le condizioni d’origine degli emigrati, non solo il momento di approdo nel

346

Cfr. ad esempio Laura Zanfrini, Sociologia delle migrazioni, Roma-Bari, Laterza, 2007.

347

Seyla Benhabib, I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2006.

348

M. Ambrosini, E. Abbatecola, op. cit., p. 16.

349

Ivi, p. 17.

350

Maurizio Ambrosini (a cura di), Governare città plurali. Politiche locali di integrazione per gli

immigrati in Europa, Milano, FrancoAngeli, 2012, p. 23. 351

Centro Come, Convivere nel tempo della pluralità. XI Convegno dei Centri Interculturali, Milano, FrancoAngeli, 2009, p. 118.

352

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paese di arrivo ma tutto il percorso migratorio, altrimenti si ricade in una visione “parziale ed etnocentrica” che considera solo le “problematiche” del paese di accoglienza invece che quelle del migrante353.

“Soltanto la ricostruzione integrale delle traiettorie degli emigrati può rivelare il sistema completo delle determinazioni che, avendo agito prima dell’emigrazione e avendo continuato ad agire in una forma modificata durante l’immigrazione, hanno condotto l’emigrato all’attuale punto conclusivo”354.

L’integrazione è una nozione polisemica che racchiude in sé la sedimentazione dei diversi significati che nel tempo sono stati accordati ad altre nozioni concomitanti come “assimilazione” o “adattamento” che si sono riferite e si riferiscono alla stessa realtà sociale355. È con esse che si devono fare i conti.

In realtà, secondo l’analisi dell’etnografo, l’uso di tale termine è espressione di un certo “irenismo”, dimentico dei conflitti del presente ed esaltatore delle integrazioni passate, che vuole far credere che il processo sociologico di integrazione possa essere dettato politicamente dall’alto.

Invece, si tratta di un processo continuo, comporta sforzi quotidiani ed è difficile affermare quando esso sia riuscito. Un elemento rilevante però è costituito dalla decisioni di emigrare e quindi l’innesco del processo; tale decisione infatti comporta un’ “integrazione”, non sul piano sociale, ma su quello nel mercato del lavoro salariato su scala mondiale, di fronte al quale il migrante viveva prima ai margini. Da qui si determineranno poi tutte le altre “integrazioni"356

.

Più che l’integrazione, i migranti a cui Sayad dà voce riportandone le interviste, esemplificano una “doppia assenza” 357

, in patria come nel paese di arrivo. Quindi il migrante si ritrova in una condizione quasi di spaesamento, di perdita di riferimenti e proprio a partire da questa consapevolezza bisogna ripartire, a mio avviso, nelle politiche pubbliche:

Nonostante la critica all’uso di tale nozione, secondo Ambrosini, è opportuno tuttavia

353

Ivi, p. 44.

354

Ivi, p. 45. Bisogna inoltre riconoscere che l’innesco di tali traiettorie è “un atto senza dubbio oggettivamente politico”, in stretta connessione con la relazione coloniale, soprattutto nel caso preso da lui in esame tra la Francia e l’Algeria (pp. 123 e ss.) ed è per questo che egli definisce l’immigrazione odierna come “una specie di variante paradigmatica” della situazione coloniale, (p. 290).

355

Ivi, p. 294.

356

Ivi, p. 287-295.

357

Ivi, p. 84. Questa è l’emigrazione, questo è vivere da stranieri in un altro paese. […] il nostro elghorba [l’esilio] è come qualcuno che arriva sempre in ritardo: arriviamo qui, non sappiamo nulla, dobbiamo scoprire tutto, imparare tutto – per coloro che non vogliono restare così come sono arrivati –siamo in ritardo sugli altri, sui francesi, restiamo sempre indietro. Più avanti, quando [l’emigrato] ritorna al suo villaggio, si rende conto che non ha nulla, che ha perduto il suo tempo. (…). Bisogna ripartire da zero, ricominciare da capo. (…) Tutta l’emigrazione, tutti gli emigrati, tutti quanti sono, sono così, […] l’emigrato è l’uomo con due luoghi e due paesi. Deve metterci un tanto qui e un tanto là. Se non fa così è come se non avesse fatto nulla, non è nulla”.

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fare delle distinzioni tra politiche e processi: ovvero ciò che viene promosso dall’alto e ciò che invece è legato alla sfera quotidiana, che si manifesta a livello locale nell’interazioni tra i diversi gruppi358

; nonché bisogna analizzare anche il rapporto che intercorre tra i due ambiti. I processi di integrazione, infatti, possono dipendere da altri fattori e non necessariamente dalle politiche mirate in materia di immigrazione e integrazione, ad esempio il sistema economico e il “mercato” del lavoro o i servizi di

welfare possono essere in parte influenti e determinanti a volte più che misure ad hoc359. Pertanto la definizione dei rapporti non è semplice o immediata come si possa

pensare.

Basti analizzare il caso tedesco, più avanti preso in esame, dove il sistema di welfare ha contribuito nel tempo a rendere meno precarie le condizioni dei lavoratori ospiti che non godevano di politiche mirate particolarmente favorevoli360.

Oltre a ciò va ricordato che sono le politiche locali che propongono e realizzano misure e progetti destinati per i migranti nei differenti territori.

D’altro canto, alle politiche di integrazione fanno però da contraltare le politiche di esclusione, palesi o nascoste. Come sottolinea Rainer Bauböck, in realtà nello scenario europeo posizioni e misure di apertura si alternano ad altri provvedimenti di esclusione diretta o indiretta, come l’espulsione di alcuni gruppi verso le periferie, oppure certe politiche di riqualificazione delle città o l’ordinanze municipali a difesa del “decoro urbano”361

. L’affermarsi di movimenti xenofobi o contro l’immigrazione in molti paesi, come ad esempio, l’avanzata del Front National di Marine Le Pen (partito di estrema destra) alle scorse elezioni francesi (2014) sia a livello nazionale che a livello locale, rende la situazione ancora più difficile. Pertanto anche qui gli “effetti di verità” tra il detto e il non detto e tra le dichiarazioni politiche e le prassi utilizzate influenzano il nostro modo di guardare alle questioni.

Come abbiamo tentato di delineare nel corso del paragrafo, l’utilizzo del termine ‘integrazione’ non è mai “pacifico” o neutrale, porta con sé non solo le stratificazioni di senso di nozioni concomitanti e di derive assimilazioniste, come ha messo in guardia l’etnografo Sayad, ma indica anche un processo continuo nonché l’obiettivo

358

M. Ambrosini, E. Abbatecola, op. cit., p. 15.

359

M. Ambrosini, Governare città plurali. Politiche locali di integrazione per gli immigrati in Europa, cit.

360

G. Zincone, Immigrazione: segnali di integrazione. Sanità, scuola e casa, cit., p. 62.

361

Maurizio Ambrosini (a cura di), Governare città plurali. Politiche locali di integrazione per gli

immigrati in Europa, p. 28. Ambrosini schematizza le forme di esclusione in: l’esclusione civile, relativa

ad aspetti come la possibilità di iscriversi all’anagrafe o chiedere l’elemosina; esclusione sociale, riferita all’accesso a determinati benefici come i contribuiti per i nuovi nati, per l’affitto all’abitazione, per le spese mediche o scolastiche; esclusione culturale, esemplificata dai divieti relativi all’apertura di luoghi di culto per i musulmani o all’uso di veli che nascondano il volto; esclusione securitaria, comprendente nuovi provvedimenti locali contro l’immigrazione irregolare (denunce dei clandestini) oppure contro l’insediamento di famiglie e gruppi di rom e sinti; esclusione economica volta a limitare apertura di attività economiche gestite da immigrati (come phone centers, kebab).

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delle politiche in materia. Considerando tali difficoltà di non facile soluzione, nel corso del lavoro verrà usato tale concetto, cercando sempre di tenere presente l’orizzonte di senso o di sensi che la nozione porta con sé. Quali siano i meccanismi di questo processo e come venga definito nel contesto europeo, italiano e tedesco, rimangono questioni ancora aperte.