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La decadenza per decettività sopravvenuta: l’art. 14.2 lett. a c.p.i. 175

4.1 La continuazione dell’uso da parte del preutente

4.1.4 La decadenza per decettività sopravvenuta: l’art. 14.2 lett. a c.p.i. 175

Nel capitolo precedente, al § 3.2.1, si è trattato del rapporto tra la tolleranza, in quanto status soggettivo richiesto in capo al titolare del segno anteriore per il perfezionamento della convalida, e la decettività nei confronti del pubblico, che la preclusione per tolleranza poteva determinare, in quanto risultato della mancata reazione all’esistenza sul mercato di un segno confondibile. Si è esaminata l’ipotesi, avanzata da parte della dottrina, per cui la mancata reazione nei confronti di un uso altrui del proprio marchio, che astrattamente il titolare avrebbe potuto impedire, potesse automaticamente essere configurata come uso decettivo, non solo contrastante con l’art. 21.2 c.p.i., ma che avrebbe potuto anche comportare, a danno del titolare del primo marchio, la decadenza del proprio segno per decettività sopravvenuta ex art. 14.2 lett. a c.p.i.22.

Se quindi la tolleranza del titolare del diritto anteriore può essere rilevante non solo ai sensi dell’art. 21.2 c.p.i., ma più specificamente ai sensi dell’art. 14.2 lett.

a, tali disposizioni devono risultare entrambe applicabili alla situazione

stabilizzatasi in seguito al perfezionamento della convalida.

Il comportamento del titolare del marchio convalidato, o quello del titolare del diritto anteriore, volto ad approfittare della confondibilità tra i due segni, in seguito alla convalida, potrebbe quindi essere significativo, oltre che, come si è visto nel paragrafo precedente, ai sensi degli artt. 2598 c.c. e 21.2 c.p.i., anche ai fini dell’art. 14.2 lett. a c.p.i. e quindi comportare come conseguenza, a danno del titolare che ne facesse uso in modo confusorio o decettivo, la decadenza del marchio per decettività sopravvenuta.

Il prossimo paragrafo di questo lavoro avrà lo scopo di analizzare il rapporto tra l’art. 21.2 e l’art. 14.2 lett. a c.p.i..

Al fine di procedere a tale comparazione è opportuno prima definire cosa si intenda per decadenza del marchio per uso decettivo.

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Il testo dell’art. 14.2 lett. a c.p.i. prevede che il marchio decada “se sia divenuto

idoneo ad indurre in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa del modo e del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o con il suo consenso, per i prodotti o servizi per i quali è registrato”.

La decadenza del marchio per ingannevolezza sopravvenuta è stata introdotta, all’art. 41 lett. b della legge marchi, in seguito alla previsione obbligatoria contenuta nell’art. 12.2 lett. b DM23. Tale norma, ora all’art. 14.2 lett. a, considerata in unione all’art. 21.2 c.p.i. e all’art. 23.4 c.p.i.24, rende evidente che ormai il marchio è inteso dal legislatore come messaggio rivolto dall’imprenditore al pubblico; questo messaggio può riguardare, in primo luogo, il livello qualitativo ed in nome di tale funzione il marchio non deve mai comunicare al pubblico che i prodotti abbiano una qualità diversa, e in particolare migliore, rispetto a quella che in realtà hanno. Ciò che la norma vuole impedire è che vi sia un inganno al pubblico, si ritiene che in tale ipotesi non possa ricadere il mutamento dei prodotti in senso migliorativo e nemmeno il caso in cui il cambiamento non migliori né peggiori le caratteristiche, ma dia luogo ad un prodotto equivalente. Non costituisce decettività sopravvenuta nemmeno l’ipotesi in cui il deterioramento qualitativo sia stato irrilevante, e neppure il fatto che il deterioramento qualitativo sia stato rilevante, se il pubblico è stato adeguatamente informato.

Il messaggio rivolto al pubblico con il marchio può altresì riguardare la continuità d’origine; la sanzione della decadenza, prevista dall’art. 14.2 lett. a, non può che disciplinare anche l’ipotesi di uso del marchio da parte di un

23 “Il marchio di impresa è suscettibile inoltre di decadenza quando esso dopo la data di registrazione […], b. è idoneo a indurre in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza geografica dei suddetti prodotti o servizi, a causa dell'uso che ne viene fatto dal titolare del marchio di impresa o con il suo consenso per i prodotti o servizi per i quali è registrato”.

24 “In ogni caso dal trasferimento e dalla licenza del marchio non deve derivare inganno in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali all’apprezzamento del pubblico”; si rimanda nuovamente alla trattazione delle modifiche intervenute in materia di trasferimento del diritto di marchio al § 1.1, L’istituto della convalida e le funzioni del marchio. Per l’analisi del coordinamento tra artt. 21.2, 14.2 e 23.4 c.p.i. si veda infra, § 4.1.5.

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soggetto diverso dal titolare del marchio, in assenza di una adeguata informazione del pubblico25.

L’art. 14.1 lett. b vieta la registrazione del marchio decettivo, cioè di quel segno che è nullo, in quanto ingannevole, fin dall’origine. Quello disciplinato dall’art. 14.2 lett. a è un caso differente; parlando di decadenza si presuppone che il marchio originariamente fosse valido, e che la decadenza sanzioni una ingannevolezza sopravvenuta “la quale deve perciò comprendere tutti i casi in cui il marchio venga in concreto usato dal titolare o con il suo consenso in modo da determinare un inganno per i consumatori sulle caratteristiche dei prodotti o servizi contrassegnati che sono rilevanti nel giudizio degli acquirenti”26. In tal senso la sanzione della decadenza sarebbe applicabile in tutte le ipotesi, riguardanti l’uso del marchio, in cui ha rilevanza l’art. 21.2 c.p.i.; secondo un’interpretazione più restrittiva, invece, la sanzione della decadenza ex art. 14.2 lett. a sarebbe applicabile solo nelle ipotesi in cui sia divenuto ingannevole il marchio considerato in se stesso, nel proprio significato letterale27; nel paragrafo successivo si esaminerà a quale soluzione è pervenuta la dottrina prevalente circa il rapporto tra le due norme.

4.1.5 La nozione di uso decettivo: il rapporto tra l’art. 21.2 c.p.i. e l’art. 14.2 lett. a c.p.i.

Si è accennato al fatto che una parte della dottrina ha sostenuto che tra l’ipotesi di cui all’art. 21.2 c.p.i. e quella di cui all’art. 14.2 lett. a vi sia una grande differenza, poiché la prima norma riguarderebbe il caso di un uso ingannevole del marchio che non abbia trasformato il marchio in un segno ingannevole in sé; mentre la decadenza per decettività sopravvenuta riguarderebbe quelle ipotesi in cui l’uso ingannevole abbia in qualche modo definitivamente e irreversibilmente reso decettivo il marchio. Questa tesi renderebbe la decadenza di cui all’art. 14.2

25 A.VANZETTI,V.DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, cit., 272 ss.; M.RICOLFI, I segni

distintivi di impresa, in Diritto industriale, cit., 114.

26 A.VANZETTI,C.GALLI, La nuova legge marchi, cit., 209 ss.

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lett. a un’ipotesi di rarissima applicazione ed allo stesso tempo escluderebbe la sua applicabilità nei casi disciplinati dall’art. 21.2 c.p.i..

A tale ricostruzione la dottrina prevalente obietta che la sola ipotesi del marchio in sé decettivo sembra quella riguardante l’ingannevolezza originaria ex art. 14.1 lett. b, che consiste in una contraddizione tra il contenuto espressivo del segno ed i prodotti per i quali esso è utilizzato; risulta invece difficile immaginare che il solo uso del marchio sia in grado di trasformarlo in un segno in sé decettivo28. Da un punto di vista letterale, inoltre, il confronto tra le due norme non consente di ritenere che l’uso decettivo del marchio sia disciplinato solamente dall’art. 21.2 c.p.i.; occorre inoltre osservare che il fatto che entrambe le disposizioni disciplinino l’ipotesi di uso decettivo non vale a svuotare l’art. 21.2 c.p.i. di un’autonoma portata precettiva, infatti l’uso decettivo ivi richiamato non solo può essere sanzionato con la decadenza ex art. 14.2 lett. b, ma vale a qualificare tale comportamento come atto di concorrenza sleale29. Al tempo stesso è la struttura portante della riforma ad indurre a pensare che il divieto di inganno al pubblico sia divenuto un principio generale, al cui rispetto deve essere collegata la conservazione del diritto corrispondente30.

Il contenuto di tali norme, volte ad evitare casi di uso decettivo del marchio, è coerente con quanto previsto per il caso di trasferimento del diritto sul segno, a questa disciplina si è accennato nel primo paragrafo di questo lavoro; la riforma del 1992 è infatti intervenuta anche in materia di cessione del marchio, eliminando il requisito del cd. “vincolo aziendale”, ma tenendo fermo quanto disposto dal precedente art. 15.2 l.m., che configurava l’inganno derivante dalla cessione come motivo di invalidità della stessa, ed in più estendendone il contenuto anche al caso della licenza di marchio. Il divieto di inganno al pubblico derivante dalla cessione è all’attuale art. 23.4 c.p.i.. Tale norma prevede che, dalla cessione del marchio, non debba derivare un inganno relativo a quei

28 A.VANZETTI,V.DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, cit., 275; 29 M.RICOLFI, I segni distintivi di impresa, in Diritto industriale, cit., 114 ss. 30 M.RICOLFI, I segni distintivi, cit., 113.

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caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali all’apprezzamento del pubblico.

Si è detto che i mutamenti intervenuti a partire dal d.lgs. 480/1992, al fine di attuare la direttiva 89/104, hanno comportato un ampliamento delle possibilità di sfruttamento del marchio, da parte del suo titolare, le quali sono state esaminate al § 1.1. Tali mutamenti hanno spostato il fine della disciplina: a partire dalla tutela della sola funzione distintiva, sulla base di una posizione “di monopolio” del titolare del diritto sul segno, si è passati alla valorizzazione di una serie di possibilità di disposizione del marchio. Quello attualmente riconosciuto dalla legge, in capo al titolare del segno, è un potere, che tuttavia non è privo di responsabilità nei confronti del mercato.

La nozione di inganno al pubblico era già presente nella legge marchi del 1942, all’art. 15.2, che configurava l’inganno derivante dalla cessione come un motivo di invalidità di essa, e all’art. 11, che vietava l’uso ingannevole del marchio. Un Autore ha rilevato che queste disposizioni sono rimaste invariate in seguito alla riforma del 1992, che si è limitata a specificare meglio il contenuto dell’inganno di cui all’art. 11 (ed infatti l’attuale art. 21.2 c.p.i. parla di “inganno circa la

natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi”). Mentre però prima della

riforma queste norme avevano sempre avuto una modesta importanza, il mutato contesto legislativo ha fatto in modo che esse costituiscano oggi degli elementi cardine del sistema31. Queste norme costituiscono un correttivo all’ampliamento delle possibilità di sfruttamento del marchio da parte del titolare, sulla base della considerazione che il consenso del titolare all’uso di un marchio confondibile, anche implicitamente manifestato, può dare luogo ad un utilizzo dei segni distintivi in grado di generare inganno al pubblico, ma non sempre, anzi ciò non accade nella maggior parte dei casi32.

31 C.GALLI, Protezione del marchio ed interessi del marcato, in AA.VV., Studi in onore di A.

Vanzetti, Giuffrè, Milano, 661 ss.

32 M.S.SPOLIDORO, Il consenso del titolare e gli accordi di coesistenza, cit., 205 ss.; sul punto si rimanda anche a M.RICOLFI, I segni distintivi, cit., 104 ed a G.OLIVIERI, Contenuto e limiti

dell’esclusiva, in AA.VV. Commento tematico della legge marchi, cit., 40 ss., già citati al § 3.2.1.

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Un Autore ha ulteriormente specificato che, se il marchio è intrinsecamente decettivo circa la provenienza imprenditoriale, sarà affetto da nullità assoluta, mentre se lo diventa successivamente, determinando un inganno nel pubblico, incorre nella sanzione della decadenza di cui al combinato disposto degli attuali articoli 21.2, 23.4 e 14.2 lett. a c.p.i., in quanto norme il cui coordinamento consente di “reprimere in via assoluta le fonti oggettivamente certe di inganno”33.

In dottrina si è altresì sostenuto che l’art. 21.1 c.p.i. sia una regola generale che si specifica negli artt. 23.4 c.p.i. e 14.2 lett. a c.p.i., reprimendo l’uso con effetto decettivo del marchio con la forza dell’imperativo di ordine pubblico e “questa forza è alla base dell’assolutezza della legittimazione all’azione di decadenza per decettività”34. La legittimazione assoluta all’azione e all’eccezione di decadenza, in capo ad ogni soggetto che abbia interesse a rimuovere la fonte di inganno, funzionerebbe come correttivo della relativizzazione della nullità derivante dal contrasto con un diritto anteriore35, su tale questione si tornerà nel paragrafo conclusivo di questo capitolo.

In conclusione, tornando all’applicazione delle due disposizioni in esame alla situazione risultante dal perfezionamento della convalida, si può affermare che sia l’art. 21.2 c.p.i., sia la sanzione della decadenza di cui all’art. 14.2 lett. a c.p.i., sono applicabili nei confronti del titolare di un segno coesistente, qualora ne facesse uso in modo confusorio o decettivo36.